Con due importanti sentenze la Corte costituzionale aveva “demolito” alcune norme fondamentali della legge Bossi-Fini che prevedevano l’arresto obbligatorio per gli immigrati che non avessero ottemperato all’ordine di espulsione ( sentenza n. 223/2004), e che non accordavano effettive garanzie di difesa e di contraddittorio per gli immigrati destinatari di un provvedimento accompagnamento coattivo in frontiera ( sentenza n.222/2004).
La sentenza n.222, che ha dichiarato la incostituzionalità dell’art.13, comma 5 bis dello stesso Testo Unico del 1998, modificato con il decreto legge n.51 del 2002 e poi recepito dalla legge Bossi-Fini dello stesso anno, sta già producendo, invece, conseguenze rilevanti sia sul piano delle prassi di polizia che sul dibattito politico in materia di immigrazione e asilo.
Secondo la Corte, quest’ultima norma appare in contrasto con gli articoli 3,13 e 24 della Costituzione perché il provvedimento di accompagnamento immediato alla frontiera potrebbe essere eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria, con la possibilità che l’immigrato possa essere allontanato dal territorio nazionale prima che il giudice abbia potuto pronunciarsi su tale provvedimento “restrittivo della libertà personale”. Sarebbe quindi vanificata la garanzia prevista nel terzo comma dell’art. 13 della Costituzione in quanto la mancata convalida del provvedimento di accompagnamento forzato resterebbe del tutto priva di effetti una volta che l’immigrato sia stato allontanato dal territorio nazionale, ed inoltre verrebbe vulnerato anche il diritto di difesa, in quanto la norma dichiarata incostituzionale non prevede la audizione dell’interessato con la presenza di un difensore.
Di fronte alla possibilità di un ricorso contro il provvedimento di espulsione, presupposto dell’accompagnamento coattivo in frontiera, a Corte osserva conclusivamente come “il ricorso sul decreto di espulsione non garantisce immediatamente e direttamente il bene della libertà personale su cui incide l’accompagnamento in frontiera”.
La sentenza n. 222 richiama espressamente la precedente sentenza n.105 del 2001, che pur salvando l’impianto dell’art. 14 del T.U. 286 del 1998, che prevedeva le procedure di trattenimento presso i centri di permanenza temporanea, affermava come le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione “ non subiscono attenuazioni rispetto agli stranieri”. La Corte osservava in quella occasione, come “ per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale”.
Da questo punto di vista quanto affermato per le espulsioni non può non valere anche per i respingimenti in frontiera quando sono disposti dal Questore o eseguiti subito dopo l’ingresso nel territorio nazionale.
Non sembra proprio che il successivo decreto legislativo n. 271 del 2004, approvato dal Governo in fretta e furia proprio per fare fronte alle sentenze della Corte Costituzionale abbia risolto diversamente la delicata questione attinente alla libertà personale garantita dall’art. 13 della Costituzione, contenendo altre disposizioni che appaiono ancora visibilmente contrarie al dettato costituzionale.
Malgrado le decisioni della Corte continuano sia i trattenimenti all’interno dei centri di detenzione italiani ben oltre i limiti di legge, come riportato dalla stampa locale a febbraio di quest’anno, quando numerosi migranti sono stati trattenuti nel centro di detenzione di Lampedusa per oltre 60 giorni, sia gli accompagnamenti immediati a seguito di respingimento, senza alcun intervento di controllo della magistratura.
In questo ultimo caso il Ministero degli interni si avvale del famigerato articolo 23 del regolamento di attuazione approvato nel 1999, secondo il quale le “attività di prima assistenza e soccorso” possono essere effettuate anche al di fuori dei centri di permanenza temporanea “per il tempo strettamente necessario” per l’avvio degli immigrati verso i predetti centri.
In questo modo anche le formalità relative all’emanazione dei provvedimenti di respingimento e di espulsione possono essere procrastinate, come avviene da tempo nella prassi della Questura di Agrigento quando si verificano sbarchi a Lampedusa. In realtà, come la stessa Questura di Agrigento ha riconosciuto da tempo, il centro di detenzione di Lampedusa è un vero e proprio centro di permanenza temporanea e non si comprende pertanto come sia possibile trattenere migranti, anche donne e minori, all’interno di questa struttura, senza un provvedimento di convalida del magistrato . Si deve peraltro osservare che l’art. 23 del regolamento di attuazione può giustificare il ritardo nella adozione dei provvedimenti limitativi della libertà personale e nella loro convalida quando l’immigrato venga poi avviato ad altri centri di permanenza temporanea in Italia e non invece quando venga respinto con accompagnamento forzato in frontiera. In questo caso, come insegna anche la Corte Costituzionale, la misura limitativa della libertà personale dovrebbe essere convalidata dal magistrato. Soprattutto quando la esecuzione del respingimento comporta per la persona che ne è vittima una grave lesione dei propri diritti fondamentali. Come è stato documentato ampiamente nel caso dei migranti respinti lo scorso ottobre direttamente da Lampedusa in Libia.
L’art. 2 del T.U.286 del 1998, anche dopo le modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini del 2002, prevede che i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali si colloca certamente il diritto di difesa ( oltre che il diritto di asilo ed il diritto alla salute) vengano riconosciuti a tutti gli stranieri “comunque presenti sul territorio” e dunque anche in una posizione di ingresso o di soggiorno irregolare. Ma a Lampedusa questa norma non vale, o forse Lampedusa non viene più compresa nello spazio geografico di applicazione delle leggi italiane e della nostra Costituzione.
La possibilità, prevista dai nuovi accordi di riammissione stipulati (o millantati, altre volte trattandosi di un mero scambio di note diplomatiche) dal governo italiano, di effettuare accompagnamenti immediati anche verso i paesi di transito, oltre che verso i paesi di provenienza, hanno accresciuto i rischi di refoulement ( vietato dall’art.33 della Convenzione di Ginevra e dall’art. 19 del T.U. 286 del 1998) a carico dei potenziali richiedenti asilo.
Occorre rilevare come da tempo, a fronte di previsioni di legge del tutto generiche, proprio in materia di allontanamento forzato dal territorio nazionale, le autorità amministrative abbiano applicato le diverse disposizioni di legge con un elevato livello di discrezionalità, evitando un effettivo controllo dell’autorità giudiziaria, o riducendolo ad un simulacro, proprio nella delicatissima materia dei respingimenti, delle espulsioni e dei centri di detenzione amministrativa, tutte materie attinenti alla libertà personale e perciò sottoposte alle rigide prescrizioni dell’art. 13 della Costituzione. Discrezionalità coperta da un ferreo alone di segretezza.
Non si spiega altrimenti la progressiva “secretazione” dei centri di permanenza temporanea, come ancora adesso si verifica a Lampedusa, centri preclusi persino ai parlamentari, oltre che ai giornalisti ed alle associazioni umanitarie non convenzionate, nel tentativo costante di fare “scomparire” le persone trattenute( con un trasferimento o con l’accompagnamento forzato in frontiera), prima che le stesse possano fare valere di diritti di difesa e senza che ai migranti irregolari venga riconosciuto il diritto alla comprensione linguistica dei provvedimenti che li riguardano. Spesso questi provvedimenti sono emanati ma sono notificati solo in prossimità dell’esecuzione della misura di allontanamento.
Moltissime sentenze di giudici di merito, ancora più numerose dopo le modifiche introdotte dalla legge Bossi-Fini del 2002, hanno annullato provvedimenti di espulsione e di trattenimento palesemente illegittimi, documentando una quantità impressionante di abusi di ogni genere commessi dalle autorità di polizia nella emanazione e nella concreta applicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale degli immigrati irregolari.
Ma le prospettive più preoccupanti, dopo le sentenze della Corte Costituzionale, si profilano ancora una volta nelle prassi amministrative, nell’attività degli organi di polizia, nei provvedimenti assunti da Questure e Prefetture, nel ruolo sempre più diretto del Ministero degli interni nell’indirizzare le scelte degli organi periferici. Da questo punto di vista l’isola di Lampedusa appare un terreno di sperimentazione di prassi sempre più aggressive e irriguardose della dignità della persona umana.
Addirittura questa volta ci si è affidati anche ad agenti della polizia libica che hanno avuto modo di entrare nel centro di Lampedusa e di contribuire attivamente alle operazioni di identificazione e di prima attribuzione di una nazionalità, affidate a personale non abilitato e senza l’intervento di agenti diplomatici e consolari. Gli immigrati trattenuti nel centro di detenzione di Lampedusa sono stati accompagnati in frontiera senza documenti identificativi
( cd. documenti di viaggio) ma solo sulla base di una asserita provenienza dalle coste libiche, avallata dagli agenti di quel governo.
Come se queste prassi potessero essere giustificate dai recenti accordi ancora “clandestini”, perché secretati, conclusi dal governo italiano con la Libia. Ma nessun accordo bilaterale può comportare la violazione delle convenzioni internazionali e delle norme di diritto interno a salvaguardia dei diritti fondamentali della persona.
Tra l’altro l’esecuzione sommaria di provvedimenti di respingimento e di allontanamento forzato, adottati con contenuti pressoché identici e con modalità di identificazione sommarie, ha comportato centinaia di espulsioni collettive, vietate dalla Carta Costituzionale Europea e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo .
Se l’allontanamento forzato in frontiera dei migranti giunti a Lampedusa nell’ottobre del 2004, ed adesso nei giorni del 13 e 14 marzo 2005 sono stati stato adottati sulla base dei provvedimenti amministrativi fin qui noti, non notificati né convalidati dal magistrato, la esecuzione di questa misura configura una violazione del divieto di espulsioni collettive, sancito dall’art. 4 del Prot. n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Uomo, firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963, reso esecutivo con D.P.R. 14 aprile 1982
Emergono sempre più gravi le omissioni e le irregolarità procedurali commesse anche in questa occasione dalle autorità di polizia, al punto che neppure l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati, e parlamentari italiane ed europee hanno potuto fare ingresso nel centro di detenzione di Lampedusa per parlare direttamente con i migranti.
Si sono usati tutti i mezzi, fino alla menzogna per nascondere agli immigrati che venivano deportati la destinazione del loro viaggio: la Libia, dove stanno trovando quella “accoglienza” fatta di trattamenti inumani e degradanti documentata nel recente servizio di Fabrizio Gatti sul giornale L’Espresso.
La Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto di difesa e di contraddittorio agli immigrati destinatari di un provvedimento di allontanamento forzato, e l’autorità di polizia continua ad impedire agli avvocati, oltre che ai parlamentari ed ai rappresentanti dell’ACNUR, qualunque contatto con gli immigrati “trattenuti” in un aeroporto o in un centro di permanenza temporanea.
Quando ci sono i provvedimenti di convalida vengono consegnati secondo la convenienza dell’autorità che li emette ( magari già sull’aereo) e dunque hanno quella “natura meramente formale e cartacea” che, sempre secondo la Corte, contrasta con l’art. 13 della Costituzione italiana.
Nei fatti continua a prevalere la posizione affermata dal Presidente del Consiglio dei Ministri davanti alla Corte Costituzionale, malgrado la decisione contraria della stessa corte: sulla base di un lontano precedente della stessa Corte del 1972, si è applicato l’art.15 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 n.773, secondo il quale l’accompagnamento coattivo, “incidendo solo temporaneamente sulla libertà personale, sfugge alle procedure di convalida da parte dell’autorità giudiziaria”. Una posizione che la Corte Costituzionale ha ritenuto contraria alla nostra legge fondamentale. E un regolamento di attuazione non può certo valere più dell’art. 13 della Costituzione italiana. Quanto avvenuto in questi giorni a Lampedusa, e i precedenti “rimpatri collettivi” eseguiti lo scorso ottobre testimoniano l’esatto contrario come se le decisioni politiche e le prassi amministrative valessero più della nostra Carta fondamentale.
Anche dopo gli interventi della Corte Costituzionale si diffonde comunque la percezione sempre più netta di uno stato di “sospensione” dei diritti di libertà, che in passato ha coinvolto, oltre agli immigrati ed ai loro avvocati, anche esponenti di associazioni e di enti locali, spintonati o malmenati, solo perché rivendicavano il diritto di comunicare con gli immigrati deportati da un centro di detenzione ad un altro, o peggio verso la Libia, paese che non aderisce neppure alla Convenzione di Ginevra, e che si è rifiutata in passato di fare entrare i rappresentanti di Human Rights Watch che volevano indagare sui centri di detenzione. La stessa Libia contro la quale hanno protestato numerosi rappresentanti dei paesi confinanti con le modalità inumane con cui erano stati trattati i loro cittadini dopo la espulsione dello scorso ottobre da Lampedusa.
Un vero “esempio” di collaborazione tra le forze di polizie, mentre i trafficanti dormono sonni tranquilli nelle loro agenzie di viaggio e nei loro uffici governativi in Turchia, a Malta, a Cipro, nella stessa Libia. Tanto a pagare, anche con la vita, sono sempre le vittime del traffico.
Rimane l’amara constatazione che i migranti giunti irregolarmente a Lampedusa, anche dopo la visita dell’ultima delegazione parlamentare, continuano ad essere trattenuti per giorni in condizioni disumane senza ricevere uno straccio di provvedimento e senza essere informati della loro sorte. Esattamente come avviene nei centri di detenzione del Nord-africa. Non si comprende perché in tutti questi casi non si dovrebbe parlare di veri e propri sequestri di persona. Quale autorità nazionale o internazionale saprà porre termine a questi abusi?
Sembrerebbe che la prova di fatti tanto evidenti anche all’occhio delle telecamere, si volatilizzi sempre, quasi che i “corpi” del reato scomparissero con la esecuzione delle misure di allontanamento. Fino a quando?