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da Il Manifesto del 26 maggio

Via Sarpi, stereotipi spacciati all’ingrosso

Intervista I cinesi di Milano, la delocalizzazione e il patto per la legalità Amato-Moratti

di Manuela Cartosio

Chi c’è dietro? Le Triadi, le Società nere, il racket, gli strozzini e – variante più raffinata – persino Confucio. Alle prese con il mistero cinese in casa nostra – la «rivolta» di via Sarpi del 12 aprile – i media sono finiti inevitabilmente nell’imbuto della dietrologia.
«In Cina non c’è proprio nulla di misterioso… Basta studiarla». Disse più o meno così Zhou Enlai a Henry Kissinger nella prima conferenza stampa congiunta Usa-Cina. L’apprendiamo dal libro di Stefano Cammelli, non a caso intitolato Ombre cinesi (Einaudi). Con tutto il rispetto per il mitico ministro degli esteri cinese, versione maoista dell’archetipo del saggio duca di Zhou, studiare la Cina e i cinesi non è una faccenduola.
Padroneggiare il mandarino è un cimento che, da solo, occupa una vita. Il sociologo Daniele Cologna, dell’agenzia di ricerca Codici, sa il cinese (lo insegna alle università di Pavia e dell’Insubria) e da un decennio studia sul campo la comunità sino-meneghina. Ci affidiamo a lui per de-costruire alcuni degli stereotipi correnti sugli immigrati cinesi.

Tutti i media, manifesto compreso, chiamano China town la zona di via Sarpi. E tu ti incavoli. Perché?
La definizione China town ha una storia e una geografia. Per China town s’intende un quartiere monoetnico segregato, uno spazio chiuso in cui gli immigrati cinesi sono costretti a vivere e dove si condensano servizi etnicamente esclusivi, comprese scuole e ospedali. Questo erano e in parte continuano a essere le China town negli Stati Uniti e nel Sud-est asiatico. Per fare un esempio: quando nel 1900 a San Francisco scoppiò l’ultima epidemia di peste, ai cinesi fu vietato il ricovero negli ospedali della città. In Europa non sono mai esistite delle vere e proprie China town. Il quadrilatero attorno a via Sarpi, dove i primi cinesi arrivano negli anni Venti provenienti da Francia e Olanda, non è mai stato uno spazio segregato. Il 90% dei residenti sono tuttora italiani. Solo il 10% dei 13 mila cinesi in regola residenti a Milano abita lì, gli altri stanno a Affori, Niguarda e lungo via Padova.

Se non è una China town, allora cos’è via Sarpi?
E’ il polo funzionale dove si concentrano attività economiche dei cinesi. Fino agli anni Novanta, erano botteghe artigiane e laboratori tessili. Poi il manifatturiero è stato soppiantato dal commercio all’ingrosso di prodotti in gran parte importati dalla Cina. Nel quadrilatero ci sono circa 500 aziende «su strada». Secondo ViviSarpi, l’associazione dei residenti italiani, il 60% dei commercianti cinesi è proprietario dell’immobile in cui opera. Chi non ha comprato i locali, ha comunque sborsato cifre consistenti – tra i 200 e i 300 mila euro – per «subentrare» agli italiani e paga affitti sui 3 mila euro al mese. Si riforniscono dai grossisti di via Sarpi negozianti e bancarellai del Nord Italia (tra questi i cinesi sono un’esigua minoranza). Per i cinesi, via Sarpi è un polo di servizi dedicati (agenzie di viaggio, pratiche burocratiche, vendita di dvd, libri e giornali, erboristerie) e un contesto di domiciliazione simbolica. E’ il posto dove un immigrato cinese si sente vagamente a casa sua.

Chi comanda in via Sarpi? La domanda aleggiava sulla «rivolta» e si riaffaccia sulla trattativa per delocalizzare fuori Milano il commercio all’ingrosso.
Scatta sempre questo retropensiero. Poiché i cinesi ci sembrano tutti uguali, oscuri e omertosi, deve esserci per forza un capobastone che dà gli ordini. Ma i cinesi immigrati a Milano, pur provenendo dalla stessa area (la zona rurale-montagnosa attorno a Wenzhou, capoluogo dello Zhejiang, la provincia del Sud-est della Cina) non sono tutti uguali. La comunità sino-meneghina è molto stratificata sia economicamente che socialmente. Si va dal borghese nato in Italia che si sa muovere nei meandri delle istituzioni politiche ed imprenditoriali, al proletario che fatica a capire la differenza tra un assessore e un consigliere comunale. A Milano ci sono ben 18 associazioni di cinesi, nessuna ha mai ambito a rappresentare l’intera comunità. Sono tutte associazioni d’imprenditori che fanno i loro interessi, usate come biglietto da visita per accreditarsi presso la madrepatria. L’impresa cinese in Italia continua a essere un’impresa familiare, su base clanica. Questo impedisce che ci sia un unico vertice che tutto controlla e tutto dispone. Ciò si riverbera nella trattativa con Palazzo Marino sulla delocalizzazione. Chi rappresenta i cinesi a quel tavolo? Da chi e in che modo hanno avuto il mandato a trattare?
Di delocalizzazione si parla da almeno cinque anni. Allora la più antica delle associazioni dei cinesi propose San Donato. Non se ne fece niente e non per colpa dei cinesi. Finirà così anche ad Arese?
Nessuno dei comuni dell’hinterland scalpita per avere nel suo territorio i grossisti cinesi. Invece tutti fanno ponti d’oro agli ipermercati. Non so per quali ragioni Formigoni abbia tirato fuori dal cilindro l’area ex Alfa di Arese. Chi ci guadagna? Di certo, le immobiliari padroni dell’area. E’ altrettanto certo che i cinesi non sono disposti a rimetterci. E li capisco.
I commercianti di via Sarpi hanno fama d’essere imprenditori intrepidi e scafati.
E’ un altro luogo comune. Il 75% di loro è alla prima esperienza imprenditoriale. Per dirla alla cinese, guadano il fiume tastando le pietre, alla cieca. E’ gente che rischia, si indebita, ha fegato, ma ha preso le sue belle fregature. Il commercio all’ingrosso in via Sarpi da alcuni anni è in crisi. Ci si sono buttati in troppi, con il placet del Comune che adesso strilla alla zona franca. La ressa ha fatto cadere i guadagni, mentre i costi da ammortizzare restano altissimi. Comunque vada a finire la trattativa sulla delocalizzazione – e il processo richiederà anni – il settore del commercio all’ingrosso è saturo. E’ in espansione invece, ed è questa la vera novità a Milano, l’ingresso dei cinesi nei servizi di prossimità: tintorie, edicole, pizzerie, bar, ferramenta. I cinesi subentrano agli italiani, senza apportare novità ai negozi che mantengono, persino nell’insegna, l’impronta originaria. Per questo si parla di imprenditoria mimetica.
Due settimane dopo la «rivolta», in zona Sarpi due ragazzi cinesi sono stati uccisi in pieno giorno e per strada. Mamma le Triadi, e invece…
E invece dall’identità e dal breve percorso di vita delle vittime – uno lo conoscevo – risultava evidente che la grande criminalità organizzata con quel delitto non c’entrava nulla. L’ambiente è quello delle bande giovanili, un fenomeno tipico che accompagna le migrazioni. Si comincia come teppisti che fanno gli sbruffoni al ristorante, mangiano e non pagano il conto.
E in alcuni casi si prosegue con le minacce ai connazionali a scopo di estorsione, i sequestri lampo non denunciati, i regolamenti di conti tra bande rivali per uno sgarro subìto. I protagonisti sono i ragazzi perduti della generazione che i sociologi definiscono 1,25, arrivati adolescenti in Italia con alle spalle ricongiungimenti familiari difficili. Non vanno a scuola, non imparano l’italiano, si ribellano all’etica del lavoro dei genitori. Nel giro di pochi giorni gli autori del duplice omicidio milanese sono stati arrestati. La comunità non li ha coperti e questo infrange un altro luogo comune, l’omertà dei cinesi. Delle Triadi, organizzazioni criminali nate a Canton e a Taiwan, dedite al traffico di armi e droga, alla prostituzione e alla finanza sporca, in Italia non c’è traccia.

E veniamo a Confucio. Va di moda interpretare il successo della Cina, e anche dei suoi migranti, alla luce del modello neoconfuciano.
Occorre distinguere. In Cina c’è da qualche tempo un revival di Confucio, promosso dal premier Wen Jia Bao per rintracciare nel passato le fondamenta della «società armoniosa» che Pechino dice di voler realizzare. Un messaggio rivolto anche all’esterno: sono intitolati a Confucio gli istituti di cultura che la Cina sta aprendo in giro per il mondo. Ma da sempre il neoconfucianesimo è una chiave di lettura per spiegare la Cina.
E’ stato applicato persino al maoismo e, almeno dagli anni Settanta, alle migrazioni cinesi nel Sud Est asiatico.
Non è questa la sede per fare un bilancio dell’efficacia di un modello interpretativo che, in rozza sintesi, punta sul retaggio culturale per spiegare l’economia. Qui mi limito a dire che la migrazione cinese in Italia contraddice Confucio almeno su un punto. Nel nostro paese un quarto degli imprenditori cinesi sono donne. E questo a Confucio non sarebbe piaciuto.