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da Il Piccolo di Trieste del 1 giugno 2008

Viaggio tra i migranti al Cpt di Gradisca

È già quasi tutto esaurito. Non è un albergo a 5 stelle ma neppure un lager

Gli ospiti sono 375, costano 45 euro al giorno


Gradisca.
Un muro alto cinque metri. Telecamere incastonate nel cemento. In alto le luci per l’illuminazione a giorno. Il muro bianco «profanato» con lo spray: «Un lager non è umanitario». Alla carraia quattro agenti di polizia: «documento d’identità e nullaosta della prefettura».
Già, il documento d’identità, quello che divide chi può osservare distrattamente dalla statale ogni domenica l’ex caserma Polonio di Gradisca mentre se ne va a ricrearsi negli agriturismo della zona. Ma anche quello che consente a italiani, europei e quant’altri di godersi una settimana di sole, mare, e il gettonatissimo wellness (magnificato dai tour operator) in Marocco, Tunisia, Algeria. Marocchini, tunisini, algerini sono la stragrande maggioranza di coloro che invece stanno lì, dentro quel muro.
Una gran parte di questi uomini e donne non è identificata e identificabile, alcuni hanno anche commesso reati lievi, altri ancora, i più «buoni», attendono che sia accolta la loro richiesta per ottenere asilo nel nostro Paese. Questi ultimi possono uscire alla mattina e rientrare alla sera. Definirlo un lager è esagerato e al tempo stesso riduttivo. È una caserma che per molti «ospiti» è una simil-prigione.
Ma la struttura farebbe invidia ai milioni di rampolli italiani chiamati, fino a una decina di anni fa, a donare 365 giorni della loro vita alla patria. E anche la sensibilità e l’attenzione di chi la gestisce è agli antipodi di quella di un Kapò. «Cerchiamo di rendere la permanenza (soltanto 60 giorni ndr) il più accogliente possibile – spiega il direttore Vittorio Isoldi, militare in congedo – anche con attenzioni che possono sembrare piccole: discutiamo con i loro rappresentanti sul cibo da erogare in mensa, è stata istituita una stanza per la preghiera, possono ricevere denaro dall’esterno». E poi ciascuno ha diritto a un pacchetto di sigarette ogni due giorni («di Diana blu, non di Marlboro» specificano) e di una tessera telefonica da cinque euro ogni settimana. Eppure in molti hanno il telefonino (senza videocamera per motivi di sicurezza).
«Ho trentacinque anni ma sono in Italia da 17» dice Ben Khemais Helmi, dal Marocco, che di cellulari ne esibisce due. «Entro ed esco» continua. Forse non è proprio così ma la sua storia non può non incuriosire. Non è che dopo due mesi di permanenza questi migranti, spesso non identificabili, entro cinque giorni devono lasciare l’Italia? Questo ragazzo marocchino dalla capigliatura alla «Caparezza» sta assieme ad altri 111 nell’area più delicata: il Cpta (Centro permanente di temporanea assistenza). Vi si accede da una porta di ferro chiusa a chiave. Le «celle» sono stanze essenziali con sei letti. C’è chi guarda la tv nell’area mensa, c’è chi gioca a calcetto (la struttura è dotata di due campi). Molti di loro sono già stati «pizzicati» per furto e spaccio di droga. Qui c’è la sala per la preghiera. Una stanza di una ventina di metri quadri con i tappeti a terra.
«Quasi tutti i musulmani pregano alla mattina e alla sera – spiega il direttore – e talvolta non sono mancate le lamentele da parte degli ospiti cattolici per la confusione, specie di mattina. Ma è giusto rispettare la religiosità di tutti». Un folto gruppetto è appena arrivato da Lampedusa e si fa sentire. Sono tutti giovani magrebini tra i 20-25 anni. «Siamo arrivati in oltre 400 e gli altri sono liberi» traduce l’interprete mentre il direttore fa capire con un gesto che non è vero. Vogliono farsi sentire ma i volti non sono tesi nè sciupati. Anche se in alcune circostanze le proteste in passato ci sono state.
In tutto sono 375 le persone ospitate dal Cpa (il primo accoglimento), dal Cpta (centro di permanenza) e dal Cara (il Centro per i richiedenti asilo). I posti complessivi sono 382, quindi c’è quasi il tutto esaurito. «Succede sempre così in questa stagione, quando riparte la tratta dalle coste africane – sottolinea il direttore -. Fino a qualche mese fa eravamo in poco più di 200. La scorsa settimana abbiamo dovuto aprire in fretta e furia la nuova struttura del Cara». È la parte più nuova (ma anche il resto del centro è in ottime condizioni), quella occupata dagli stranieri che hanno una speranza in più di poter restare in Italia. Ci sono anche alcuni indiani, pakistani e un albanese. La struttura nuova ha anche un paio di camere per accogliere le famiglie. Attualmente ci sono tre minori con le loro mamme.
La struttura ha tredici operatori, si avvale dell’aiuto di alcune associazioni di volontariato, ha dei mediatori culturali, è assicurata l’assistenza sanitaria a ciclo continuo e quella psicologica (la più delicata verso le donne nigeriane vittime della tratta). Vengono anche organizzati corsi di italiano dall’inglese e dal francese.
Dal 10 marzo, non senza polemiche, l’appalto per la gestione è passato dall’isontina Minerva alla Connecting People (come lo slogan della Nokia) di Trapani. È una società che si occupa anche della gestione di altri centri. In Italia di Cpt ce ne sono dieci. La convenzione triennale del gestore con il ministero (attraverso la Prefettura) prevede una quota di 45 euro giornalieri per ciascun ospite. Facendo due conti quindi si va a una media di 15 mila euro al giorno. Per un anno dunque ci si avvicina ai 5 milioni. Una parte consistente viene spesa per la mensa (il cibo viene confezionato all’esterno), ma c’è anche l’abbigliamento, il personale. E poi le sigarette. «Anche per tenere buoni rapporti con il territorio – dice il vicepresidente di Connecting people Michelazzi – le acquistiamo in diverse tabaccherie della zona». Ogni due giorni 300 pacchetti (a 3,50 euro delle nazionali) fanno quasi 1.000 euro.
È l’altra faccia del fenomeno immigrazione. E vien da pensare che il business, con le sue ricadute sul territorio e sulle sorti di alcune associazioni (in primis quelle del mondo cattolico) possa rappresentare quantomeno una resistenza a una possibile strategia di integrazione.
La nuova strategia abbozzata e annunciata nei giorni scorsi dal Viminale di Maroni prevede il raddoppio del numero di Cpt (o meglio dei Cie, Centri di identificazione e espulsione) e una possibile permanenza allungata a 18 mesi. «Inutile affrontare il problema – conclude Isoldi – fin quando non si conosce la nuova norma». Ma la domanda sorge spontanea. O i costi, e quindi il business e la conseguente spesa per i contribuenti, si moltiplicano in modo esponenziale oppure si fa lo stesso servizio con gli stessi soldi e quindi si abbassa la capacità di spesa per ogni singolo. Con le relative conseguenze. E i centri poi, quantomeno quello gradiscano, non sembrano essere attrezzati per un «soggiorno» così lungo. Di fatto non c’è la possibilità di organizzare attività.
Alle 18 entra nel piazzale del Cpt un Tir. «È pieno di scarpe – dicono gli addetti della Connecting people – che forniamo a tutti». Per la gioia dei migranti e dei fornitori.
Arriva l’ora del ritiro del documento, la carraia si apre. Il muro è di nuovo lì. Gradisca non è Guantanamo, il Cpt non è un lager. Adesso. Domani, chissà.
dall’inviato
Ciro Esposito