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Violenza privata e CPT – Il Regina Pacis di Lecce

Pubblicate le motivazioni della sentenza che ha riconosciuto le violenze nei confronti dei migranti

Sono pubbliche le motivazione della sentenza n. 470 del 22.7.2005, depositata il 7.7.2006, pronunciata dal tribunale di Lecce (est. De Benedictis), del processo che ha visto la condanna di Don Cesare Lodeserto, direttore del centro, per violenza privata e lesioni aggravate da sevizie e crudeltà nei confronti dei 17 migranti che avevano tentato la fuga dal CPT nel novembre del 2002, violenze, come si legge determinate dal solo motivo della violenza, della prevaricazione e dell’umiliazione nei confronti di persone trattenute nel CPT.

Con Lodeserto furono condannati, per altri reati, sette carabinieri, addetti alla vigilanza, due medici, per reato di falso, e sei operatori del cenrto.

Riportiamo di seguito alcuni stralci della motivazione, scaricabile dal sito di Magistratura democratica.

La ricostruzione dei fatti
“Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini
trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza
Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno
organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una
finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi
riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno.
Le scene successive descrivono un clima di grande
concitazione e subbuglio per il gran numero di cittadini
stranieri che avevano aderito al progetto di fuga e,
soprattutto, per le modalità di repressione adottate dal
personale dei Carabinieri distaccato presso il Centro e dagli operatori dipendenti dalla fondazione.
La riproduzione processuale degli episodi oggetto di esame non avviene in questo caso attraverso l’ausilio del personale della polizia giudiziaria o di rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sul luogo ove i reati sono stati consumati perché, evidentemente, sono stati gli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine, chiamati a garantire l’ordine pubblico ed il rispetto della legge, a violare l’obbligo, discendente direttamente dalla legge e loro affidato, della tutela dei diritti dell’individuo e della collettività.

Il racconto di Ben Slama Lofti
Sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del
3 marzo 2003, Ben Slama Lofti, ospite del centro, ha riferito che stanco dei maltrattamenti subiti, decideva, insieme ad altri ospiti, di fuggire dal centro attraverso la finestra di una stanza del primo piano calandosi dal balcone. Riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti.
Rintracciato, tuttavia, nelle prime ore del mattino del
giorno seguente (ore 8.30 secondo gli atti ufficiali), veniva ricondotto nel centro dove veniva portato nel corridoio degli uffici e piantonato da due “guardie” – l’interprete precisa che il corrispondente termine in arabo utilizzato dal teste indica in quella lingua la persona appartenente alle forze dell’ordine – che ripetutamente lo colpivano con un manganello.
Assistevano alla scena la Vieru, Lodeserto Giuseppe (detto
Luca) e don Cesare il quale successivamente si allontanava
entrando nel proprio ufficio nello stesso corridoio.
I militari lo costringevano a stendersi sul pavimento iniziando così a colpirlo ai piedi. A quel punto Natasha e Luca partecipavano al pestaggio schiaffeggiandolo al volto – “le forze dell’ordine mi hanno steso a terra e hanno incominciato a colpirmi con il bastone ai piedi e mentre stavo a terra cercavo di coprirmi il viso; subito sono arrivati Luca e Natasha e con la mano mi hanno colpito al viso”.
Assisteva alla scena Abedhadi Mohamed, anch’egli
rintracciato e ricondotto al centro in mattinata.
Assisteva, peraltro, al pestaggio di altri uomini che
avevano tentato la fuga.
Portato in infermeria per i primi soccorsi, chiedeva di
essere portato in ospedale, ma si provvedeva a trasferirlo solo molto più tardi.
Nella stessa giornata uno dei carabinieri ivi presenti lo
costringeva a mangiare carne di maiale. Riferisce il teste “Si mi hanno costretto a mangiare carne di maiale….. Una delle guardie gli ha detto ‘o mangi questa carne di maiale o ti colpisco’ e io l’ho mangiata”.

Il racconto di Deli Mohamed

Ha riferito di aver tentato la fuga insieme agli altri
ospiti del Centro. Riusciva a superare la recinzione e a
dileguarsi insieme ad un altro ospite del C.T.P. chiamato Lesmi Habib.
Il mattino seguente veniva rintracciato da Dokaj Paulin
accompagnato da due carabinieri in borghese.
Alla vista dell’auto condotta dal Dokaj tentava di fuggire,
ma i militari, impugnando una pistola gli intimavano l’ALT.
Temendo la reazione armata si fermava. Uno dei carabinieri lo colpiva alla nuca con il calcio della pistola; sopraggiungevano Paolo e l’altro militare che continuavano a picchiarlo.
Stessa sorte toccava al suo compagno Lesmi che veniva
picchiato sul viso. I due venivano così ammanettati, caricati sull’auto e riportati al Centro. Venivano percossi anche nel corso del tragitto di ritorno.
Appena giunti al Centro venivano accolti dal Direttore che
apriva lo sportello della macchina e schiaffeggiava entrambi, colpendo Deli sul naso. Veniva trascinato sulla terra bagnata fino all’ingresso dell’edificio. All’interno veniva ancora picchiato alla presenza di Don Cesare, Lodeserto Giuseppe e la Vieru.
Successivamente un militare in divisa lo costringeva con la
forza ad ingoiare carne di maiale cruda deridendolo per la fede musulmana e per il divieto imposto nel periodo del Ramadan.
Così Deli descrive l’accaduto: “poi un carabiniere se n’è
andato e ha portato un pezzo di carne di maiale, a me mi hanno preso in quattro persone e mi hanno fatto ingoiare la carne di maiale con la forza e ridendo in modo un po’ ridicolo nei confronti della religione e nel mese di decorrenza del Ramadan che era in quel momento, il mese del digiuno musulmano … Era carne cruda, non è cotta. … Mi hanno preso due dai piedi, mi hanno bloccato i piedi, uno mi ha bloccato dal torace e le braccia, un altro mi ha costretto di aprire la bocca con la forza e mi ha infilato il pezzo di carne tenendo anche il manganello in mano. … Prima me l’ha messa vicino la bocca ma rifiutai di ingoiarla e poi mi ha messo il manganello e me l’ha
infilata con la forza” (dei militari presenti nel corso
dell’incidente probatorio riconosce con certezza i carabinieri D’Epiro, Di Pierro e Fumarola. È incerto sull’immagine di Blasi e non riconosce Alberga Vito).
Tutta la scena si svolgeva dinanzi al Direttore, a Dokaj,
Luca e Natasha i quali, non solo rimanevano inerti dinanzi alle violenze perpetrate, ma ridevano.
Rimaneva nel corridoio degli uffici ancora per tre ore e
subiva le percosse di Luca e Natasha. Solo don Cesare non
proseguiva nelle violenze e gli dava una bottiglia di acqua.
Solo due giorni dopo veniva visitato dal medico del Centro
il quale gli somministrava un farmaco non meglio precisato.

Il racconto di Souiden Montassar
Souiden Montassar è stato escusso nel corso dell’incidente
probatorio all’udienza del 19 marzo 2003.
Ha raccontato di essersi lanciato dal primo piano del
Centro, ma di essere stato subito intercettato e bloccato dai Carabinieri che lo riconducevano all’interno del corridoio degli uffici.
Lì don Cesare lo prendeva per i capelli sbattendogli
ripetutamente la testa contro il muro. Continuava a picchiarlo con un manganello dei carabinieri colpendolo sulla bocca e rompendogli i denti.
Si univano al pestaggio Luca e Natasha colpendolo sul viso e sulle gambe. Dopo l’ennesimo colpo sul viso da parte di don Cesare sveniva dal dolore. “

Sulla credibilità delle testimonianze:
“Essi, colpiti da un provvedimento di espulsione, erano senza dubbio immigrati clandestini introdottisi illegamente nel territorio dello Stato, ma, fino a prova contraria, non per ciò solo delinquenti pericolosi da arginare con azioni violente o da ritenere sicuramente mendaci.”

Le pressioni e le minacce per costringere i migranti a ritrattare
“Alcune persone offese hanno riferito nel corso dell’esame di essere stati oggetto di pressioni di vario genere sia per desistere dall’azione che per modificare o edulcorare la reale versione dei fatti.
Tra questi Benshine Mohamed, Delhi Mohamed e Louro Anis
parlano chiaramente di trattamento di favore loro riservato al fine di indurli a rimettere la querela consistito in fornitura più frequente di schede telefoniche e sigarette, talvolta con richieste esplicite, talaltra con velati e minacciosi riferimenti alla conseguente impossibilità di lasciare il centro per lungo tempo.
In questo clima si inserisce la vicenda relativa al
cosiddetto “foglio delle firme” che, con metodi ai limiti del raggiro, venne diffuso tra gli ospiti del Centro con la finalità di raccogliere, anche in modo abbastanza approssimativo, l’adesione ad una dichiarazione di dubbia natura e certamente non compresa dai cittadini marocchini trattenuti.
Il foglio, che sembra indirizzato all’Ufficio Immigrazione
della Questura di Lecce, datato 21 dicembre 2002, contiene il seguente testo:
“In qualità di Direttore di questo CPTA, comunico che i
cittadini sottoelencati chiedono di rimanere presto questa
struttura di accoglienza, nonostante che l’autorità giudiziaria abbia stabilito per il loro trasferimento ad altra struttura, in attesa di essere ascoltati dall’Autorità di Polizia.
..
Nello stesso tempo l’attività di mediazione e traduzione è
stata condotta da un loro traduttore di fiducia, Makram Nemili, e dal traduttore di questo CTPA Taha Mustafa”.
Il testo è seguito dai nomi dei cittadini marocchini
denuncianti e dalle rispettive sottoscrizioni.
Lo stesso foglio è accompagnato da altro foglio riportante
le medesime sottoscrizioni e, nella prima parte, una scritta in lingua araba composta di due righi ed una parte cancellata.
In primis, è inverosimile che un testo così lungo nella
lingua italiana possa essere tradotto in lingua araba e constare di due soli righi. Inoltre non si comprende quale possa essere stata la finalità del Direttore nel redigere la richiesta in nome e per conto dei denuncianti.
Sorge una serie di dubbi in ordine alla intenzione apparente di chi ritenuto di rivolgere all’Ufficio Immigrazione una richiesta di tal fatta il giorno immediatamente precedente all’espletamento dell’attività di indagine, consistente nell’ascolto dei denuncianti, delegata dal Pubblico Ministero procedente (l’ascolto, infatti, avvenne nella giornata di domenica 22 dicembre 2002).
I dubbi si fanno più folti se si ha riguardo alle
dichiarazioni rese dalle persone offese, in qualità di
testimoni, in relazione al su riportato “foglio delle firme”.
Quel che appare con certezza è che i cittadini marocchini
firmatari non avevano compreso affatto il contenuto del testo che sono stati invitati a sottoscrivere. Del resto la semplice considerazione che i firmatari si sono trovati di fronte ad una traduzione assolutamente non esaustiva sul foglio allegato ed alla “mediazione” dei traduttori Makram e Taha, persone integrate nella struttura organizzativa del C.T.P., già induce a ritenere che la vicenda abbia tratti decisamente oscuri.
Ma la lettura delle dichiarazioni testimoniali offre un
quadro sufficientemente preciso della reale finalità
dell’iniziativa del direttore.
Così Salem Mohamed riferisce al Giudice per le indagini
preliminari nel corso dell’incidente probatorio: “dieci giorni prima della nostra uscita dal Centro è venuto Mustafà, l’iracheno, verso le 9 e mezzo, le dieci di notte … e ci ha detto: ‘voi dovete ritirare la denuncia perché perdita di tempo per voi, perdete tempo perché qua il direttore è italiano e ha poteri e conosce le persone che contano, ha dei poteri, non ottenete nulla’ e io gli ho detto che noi vogliamo i nostri diritti … E tutti hanno rifiutato di fare la rinuncia alla querela, alla denuncia. Dopo è venuto un’altra volta, due o tre volte e noi abbiamo sempre detto di no. Dopodiché siamo scesi sotto … è arrivato Mustafà e ha chiesto ‘Chi è arrivato al Centro il 24 ottobre?’ e ci ha detto: ‘Voi che siete arrivati il
24 per poter uscire dovete firmare questa carta’, c’era uno che sapeva leggere l’italiano e gli ha detto: ‘Fammela leggere’ e gli ha detto di no, ha rifiutato di darla a lui per farla leggere e gli ha detto: ‘Queste sono cose che non ti riguardano, non la puoi leggere tu’ e poi abbiamo firmato questa carta”.”