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Voci dal Sud – Cinque sporche parole: il linguaggio della discriminazione

rubrica a cura di Riccardo Bottazzo

A Lampedusa, all’epoca in cui gli sbarchi facevano notizia, ho conosciuto una collega giornalista della televisione. Si piazzava davanti alla telecamera con una espressione sofferente ed allarmata che cominciava e finiva con la diretta. Quindi cominciava a sciorinare tutto un vocabolario da sbarco pieno zeppo di “invasioni” e di “clandestini”. I suoi servizi erano un completo elenco di tutti i rischi, i pericoli e i costi per il Paese che, secondo lei, arrivavano dal mare. A telecamere spente, c’è da dire, la collega diventava quasi una persona normale. Non dico simpatica ma neppure così insopportabile. Così un bel giorno le ho chiesto perché mai usasse continuamente il termine “clandestino” invece di, che so?, “profugo”, “persona in fuga dalla guerra” o altro. La collega ha tirato un bel sospiro e poi mi ha risposto: “Guarda, io sarei anche d’accordo con te. Ma il caporedattore mi ha ordinato espressamente di chiamarli clandestini e di mandargli servizi da tenere la gente incollata al teleschermo”.
Questo è un classico esempio di malafede. C’è poco da aggiungere. In ogni mestiere si trova sempre qualcuno convinto che più farà da servo e più farà carriera.

Ma sappiate, quando leggete che il tale luogo “è malfamato e frequentato da molti extracomunitari” (cito la Nuova Venezia) che il più delle volte la malafede non c’entra. E’ semplicemente cattivo giornalismo. Cattivo giornalismo dettato dalla fretta, dall’ignoranza, dalla passione per i titoloni sanguinolenti, da un po’ di cialtronaggine e da tanto menefreghismo. E’ il giornalismo delle 4 S: sesso, sangue, soldi e sport. Fuori di qua non c’è notizia.

Tutto questo, se non giustifica, perlomeno spiega l’utilizzo di termini che sviliscono l’etica deontologica. A partire dal secondo articolo della legge istitutiva dell’Ordine, quello che sancisce il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati, in quando contengono un giudizio preconcetto su determinate categorie che nulla ha a che vedere con la realtà. Tutto possiamo scrivere dei profughi della guerra libica arrivati a Lampedusa ma non che siano “clandestini” semplicemente perché non possono essere definiti tali in nessuna accezione del termine.

Usando termini discriminanti, oltre che ad alzare barriere e a fomentare xenofobia e razzismo come sa fare molto bene certa politica, il giornalista dimostra di non saper attenersi ai fatti e di non saper usare le parole che meglio e più correttamente descrivono il fatto di cronaca.
Mi ci metto pure io tra i peccatori. Quando frequentavo la redazione del Mattino di Padova avevo preso l’abitudine di scrivere “tossico” invece di tossicodipendente. Perché? Perché facevo prima, perché guadagnavo un po’ di righe con una parola più corta, perché usando toni allarmistici mi sembrava di scrivere articoli più importanti e perché credevo di venir letto di più, perché tutti li chiamavano così, i tossici. Per mia fortuna, l’allora capo redattore Aldo Comello mi fece una gentile ma decisa lavata di capo: quelle persone non sono velenose o “tossiche”, non è nostro compito dare giudizi su di loro ma solo di raccontare la notizia nella cronaca. Se ne sono vittime o protagonisti, chiamiamoli per quel che sono: persone dipendenti da sostanze stupefacenti. Chi legge il giornale, mi disse, ha il sacrosanto diritto di farsi una sua opinione senza venir influenzato dai tuoi stupidi preconcetti. Niente da obiettare. Una bella lezione. Ma non saprei dire quanti altri caporedattori si comporterebbero così oggi.

Non nascondiamoci dietro il fatto che “tanto… poche persone oggi leggono i giornali”, come mi ha detto con una scrollata di spalle un collega del Gazzettino. Gli avevo fatto osservare, in occasione di un incontro pubblico, che “Caccia ai covi dei clandestini” non è esattamente un titolo corretto da sparare in prima pagina (soprattutto se poi gli arrestati sono tutti italianissimi). Le parole, e le parole scritte in particolare, condizionano il nostro modo di pensare sino a ridisegnare la stessa realtà, sdoganando razzismi e fomentando xenofobie. Non è neppure vero, tanto per citare una seconda obiezione, che il giornalista deve usare le parole che usa la gente. Sui giornali trovare scritto “prostituta” e mai “puttana”.
Ripulire il vocabolario per non rimanere ingabbiati dai pregiudizi, è l’obiettivo dell’appello dall’associazione Giornalisti contro il razzismo. Il testo integrale lo potete leggere e magari pure sottoscrivere sul sito www.giornalismi.info/mediarom/. Il primo firmatario è Lorenzo Guadagnucci, autore del libro “Parole sporche”, edito da Altraeconomia. L’appello comincia col prendere atto di un “diffuso disagio nel mondo dei media” sempre più consapevole che “i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia” proprio attraverso l’uso indiscriminato di parole che contengono in sé i germi dell’intolleranza. I Giornalisti contro il razzismo individuano, come punto di partenza, un “glossario minimo” di termini di uso comune che chiunque faccia informazione, ma non solo, dovrebbe disimparare a scrivere.
Le cinque parole sporche sono: clandestino, vu’ cumprà, extracomunitario, nomade, zingaro.

Clandestino
Se volete intraprendere la carriera di clandestino dovete per forza di cose nascere figli primogeniti di una nobile famiglia inglesi. Una congiura dello zio cattivo, che vuole mettere le mani sul vostro patrimonio, vi costringerà ad imbarcarvi segretamente in un veliero ed a salpare per i mari del sud. Nel corso della traversata, dopo essere stati scoperti e spediti a palar patate nella cambusa, vi tocca salvare la nave dalla tempesta per entrare nelle grazie del burbero capitano di cui finirete per salvare e poi sposare la bella figlia che si fa immancabilmente rapire dai pirati.
Ecco. Questi sono i veri clandestini. Fuori dai romanzi ottocenteschi e dai fumetti d’avventura, il termine viene usato in maniera scorretta. Certa stampa lo usa per indicare i migranti non in regola col permesso di soggiorno, magari perché esclusi da quote d’ingresso troppo basse o perché ancora in attesa di una risposta alla richiesta di asilo. La parola ha una valenza fortemente negativa ed evoca segretezza, illegalità, contatti con la criminalità, malintenzionati che vivono nascosti e girano solo di notte. Ed invece i “clandestini” vivono come noi alla luce del sole, come noi lavorano o cercano di lavorare e, più di noi, sono vergognosamente sfruttati e meno tutelati proprio per il fatto di non essere in regola con i documenti. A qualcuno fa comodo così.

Extracomunitario
All’origine era un termine burocratico usato per indicare i cittadini di Paesi esterni all’Unione Europea. Siccome il prefisso “extra” indica una esclusione, la parola ha finito per identificare solo i migranti provenienti da Paesi poveri. I banchieri svizzeri non sono mai extracomunitari. Da notare che nel giornalismo sportivo il termine viene usato correttamente. Capita di leggere che “la squadra non può purtroppo schierare il giocatore Tal dei Tali di nazionalità canadese in quanto ha già raggiunto la soglia federale dei tre extracomunitari”. Non così per la cronaca. Se leggete che la Lega vuole cacciare gli extracomunitari, potete mettere la firma che non intende i soldati Usa della caserma Dal Molin. Quelli evidentemente non sono extracomunitari come gli altri. E per altri versi, ci ha pure ragione!

Vu’ Cumprà
Il termine intende marcare la scarsa padronanza della lingua italiana dell’ambulante sottolineandone una presunta ignoranza. In realtà, gli ambulanti che incontriamo negli angoli delle nostre strade non sono affatto ignoranti, molti sono come minimo diplomati e tutti riescono ad esprimersi perlomeno in tre lingue. Lo stesso non si può dire della media degli italiani che in inglese a malapena ti sa spiaccicare “Ve pen is on ve teibol”. Va aggiunto che il termine ha origine nella spiagge marchigiane dove, in dialetto, “Vuole comperare?” si dice proprio “Vu’ cumprà?” L’ambulante altro non faceva che adoperare la parlata del posto. Il razzismo che sta dietro questo termine ce lo mette tutto chi lo usa.

Nomade
Nei nostri quotidiani, il termine da origine a degli ossimori di incomparabile bellezza. “Arrestato nomade residente nel padovano”, cito sempre la Nuova Venezia che non mi delude mai. Oramai la parola viene usata come un sinonimo di delinquente. Nei fatti, molti dei “nomadi” citati non sono affatto nomadi. Lo stesso nomadismo tra i sinti e i rom oggi è nettamente minoritario ed imputabile solo al fatto che non hanno un luogo in cui fermarsi, più che ad una scelta di vita che andrebbe comunque rispettata al pari di tante altre. L’uso fuorviante ed indiscriminato che si è fatto di questo termine ha coperto quella vergognosa politica di segregazione territoriale che ci ha resi famosi in Europa come il “Paese dei campi nomadi”.

Zingaro
O sono rom o sono sinti. Dire “zingaro” è accumulare due culture diverse dentro lo stesso insulto razzista. Bisogna comunque osservare che, come gitano o zigano da cui deriva, questa è una parola che viene da lontano e ha percorso, non necessariamente con connotazioni negative, anche le strade della letteratura, della musica e della cinematografia. Personalmente, sin da quando ascoltavo Claudio Lolli che li cantava “felici in piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”, non ho mai caricato il termine di valenze pregiudiziali. Cosa che, al contrario, stanno facendo con lucido razzismo quelle forze politiche, e non mi riferisco solo alla Lega o alla destra, che cercano di costruirsi fortune elettorali fomentando odi e paure contro gli “zingari” di turno. La storia, purtroppo, non ci ha insegnato niente.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.