Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Voci e Riflessioni dalla Marcia per la Libertà – Il comune non vuole confini

di Mauro Pizziolo

La “Freedom March” è entrata lo scorso 20 giugno a Bruxelles, meta di un cammino di 500 km iniziato lo scorso 18 maggio a Strasburgo. Nel corso di un mese, 200 fra migranti, sans papiers, rifugiati e richiedenti asilo hanno attraversato senza documenti – e quindi in aperta violazione delle restrizioni a loro imposte – le forntiere di Francia, Germania, Lussemburgo e Belgio, con il fine politico di rivendicare per tutti la libertà di movimento verso e all’interno di un’Europa senza confini. Maturata nel corso di precedenti meeting internazionali dall’incontro e dalla messa in comune delle istanze delle lotte per i diritti dei migranti in diversi paesi europei, la Freedom March ha come destinazione finale “ideale” il Summit europeo sulle politiche delle migrazioni in programma il 26 giugno nella capitale belga.

Circa a metà del suo percorso la marcia è entrata nel territorio del Granducato di Lussemburgo passando per la frontiera di Schengen, luogo fortemente simbolico rispetto alle rivendicazioni dei migranti. Gli accordi che dal villaggio lussemburghese prendono il nome sanciscono, oltre all’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere dei paesi aderenti, il correlativo rafforzamento delle frontiere esterne della Zona Schengen, appunto, e quindi la nascita di “Frontex”. Sugli effetti devastanti prodotti da Frontex non è necessario dilungarsi; basti citare le quasi 20 000 morti avvenute dal ‘95 a largo di coste e isole divenute pietre tombali di un cimitero immenso – il Mediterraneo – e la vita di intere comunità di confine sconvolte dalla militarizzazione invasiva predisposta da centri di potere lontani.

Potremmo elencare una serie di dati agghiaccianti, di leggi e politiche infami, ma qui cercheremo piuttosto di rendere un quadro d’insieme, chiedendoci cosa avviene provando a ribaltare il punto di osservazione di questi fatti e scegliendo la soggettività della narrazione piuttosto che l’oggettività della cronaca. Abbiamo raccolto testimonianze di questa moltitudine in cammino, che saranno l’ancoraggio di una riflessione che mira a rendere le molteplici istanze di chi “si mette in marcia” e che speriamo possa contribuire a gettare luce su convergenze con altri percorsi di lotta in seno all’Europa.

In questo approccio rileviamo da subito uno degli effetti più immediati delle frontiere, che gli stessi migranti ci impongono di assumere: la differenza fra cittadino europeo e migrante, sans papier o rifugiato. Questa “consapevolezza di sè” rimanda in qualche modo ad un “privilegio epistemico” dei soggetti marginalizzati, che in quanto tali sono coscienti più di altri delle ipocrisie e delle mistificazioni del sistema che li opprime. Questa istanza è oggi una rivendicazione chiara e netta dei migranti in marcia.

“Siamo i rifiuti del capitalismo. […] Lo capisco guardando l’insieme delle cose: scappiamo da zone devastate dalle guerre o dal saccheggio di imprese capitalistiche occidentali e quando arriviamo qui, senza documenti, non siamo accettati per quello che siamo, ma dobbiamo “funzionare”, seguire direttive, dare prova di qualcosa… […] “Noi Europei vogliamo avere questo standard di vita” sembrano dirti alle frontiere. Se passi le frontiere, dovrai affrontare l’isolamento e le procedure per la richiesta di asilo, subendo tutto il razzismo di questa politica: selezionano i migranti in base a quanto possono essere integrati al sistema e se non “funzioni”, allora ti deportano. E allora capisci perchè siamo i rifiuti del capitalismo.” (Amir, Freedom March, Beauraing)

“Sono gli europei che hanno legato la loro storia alla nostra. Chi ci ha guadagnato fra Africa ed Europa? Ora siamo qui in Europa come rifugiati. Bisogna che il mondo intero sappia che non abbiamo lasciato le nostre case perchè lo volevamo, ma in conseguenza degli interventi di europei nei nostri territori. E questa storia continua.” (Armand, Freedom March, Schengen)

Le lotte anticolonialiste e l’epistemologia post-modernista dimostrano come la dominazione coloniale abbia fatto leva, oltre che sulla violenza militare, soprattutto su una rappresentazione del colonizzato forgiata in una dialettica di superiorità/inferiorità rispetto al modello del colonizzatore europeo. Possiamo affermare che il colonialismo corrisponde ad una fase espansiva del capitalismo intesa come riproduzione su scala mondiale di relazioni di dominio e sfruttamento, normalizzate dalla diffusione capillare di queste rappresentazioni. Nel momento in cui queste rappresentazioni formano dall’interno le soggettività di colonizzati e colonizzatori, il colonialismo si pone come processo produttivo biopolitico. Queste rappresentazioni sopravvivono nello scenario post-coloniale; ne siano la dimostrazione l’egemonia nelle gerarchie di potere globale di modelli occidentali, quali la famiglia nucleare eterosessuale, lo stato-nazione, il capitalismo, la proprietà privata, come anche l’articolazione dell’economia di paesi periferici nel Sud del mondo intorno a centri di accumulazione al Nord. Il razzismo non è uno sciagurato “effetto collaterale” della modernità, ma la caratteristica essenziale di una colonialità del potere che permea rapporti di forza, relazioni sociali, istituzioni, apparati amministrativi e coscienze, identità, vite intere; generazioni di vite. I “popoli senza storia”, silenziati nella narrazione della modernità occidentale, hanno quindi contribuito in maniera attiva alla definizione di forme sociali e culturali europee. Non c’è “sviluppo” senza sfruttamento, come non c’è “modernità” senza dominio. Questo ci permette di inquadrare le rivendicazioni dei movimenti per i diritti dei migranti in Europa come lotte sul terreno della produzione biopolitica del comune, dentro e contro le forme del capitalismo estrattivo. In questo senso, cittadinanza e frontiere funzionano come dispositivi disciplinari, nella misura in cui normalizzano relazioni di dominio e regolano la participazione alla vita sociale e alla riproduzione biopolitica, la precarizzazione o l’esclusione da essa dei soggetti a cui si applicano; gli effetti di questa esclusione sono reali fino alle estreme conseguenze. Così per migranti, sans-papier e richiedenti asilo.

“Mantenere la tensione alta sui rifugiati, sui migranti, sul “diverso” serve a mantenere un sistema di assoggettamento. Ci sono persone che attraversano frontiere, che rischiano la vita, che perdono la vita per raggiungere l’Europa. E a quel punto inizia per loro il vero incubo: un peregrinare continuo fra centri di detenzione, carceri, controlli di polizia, lagers, istituti di residenza…e quindi discriminazione, ghettizzazione, esclusione sistematica. E non piace il fatto che esista un movimento di rifugiati coscienti di sè che si auto-organizza. Ai politici non piace quando queste persone si liberano contando sui propri mezzi, parlando coi propri messaggi, con le proprie parole, perchè traggono profitto da questo sistema di oppressione, traggono profitto da Fortress Europe. Questa è chiaramente un’eredità colonialista, è una mentalità colonialista, è una logica di sfruttamento capitalista.” (Nadja, Freedom March, Steinfort)

“Quando parli della tua sofferenza, quando la accetti, la riesci a condividere…ti accorgi, ad esempio in questa marcia, che ci sono persone che vengono da regioni e culture diverse, che parlando di se stesse sono arrivate ad unirsi e a lottare insieme per cambiare le cose. E’ nell’azione stessa che pratichiamo e produciamo l’alternativa: viviamo insieme, ci autogoverniamo senza alcun bisogno di essere controllati. Possiamo vivere quest’alternativa dapprima accettando la nostra condizione[…]. Se un’azione è rivoluzionaria lo si osserva nella pratica in cui questa nasce. […]. Attraversare la frontiera, forzarla o romperla, significa proclamare la nostra libertà di movimento, ma soprattutto viverla, agirla. Se lo fai con una struttura già esistente allora non funziona. L’alternativa viene dallo stare insieme, dal basso, dal condividere, dal mettere in comune liberamente sogni, desideri, bisogni…” (Amir, Freedom March, Beauraing).

Le forme e le esperienze del comune hanno in oggetto la gestione di risorse naturali vitali, i beni comuni, secondo processi di partecipazione collettiva organizzata in strutture orizzontali, in risposta a schemi di “accumulazione per espropriazione” di matrice neoliberista. Il paradigma della gestione partecipativa ha influenzato molte aree disciplinari e prodotto (fra altro) pratiche di amministrazione locale, di rappresentazione geografica ed etnografica, di pianificazione sociale…Nel quadro della produzione biopolitica, il comune si configura piuttosto come il prodotto sociale di singolarità autorganizzate che si costituisce intorno a pratiche di condivisione, cooperazione e comunicazione eccedenti il controllo capitalistico. Il marginalizzato, il migrante, il sans-papier che si ribella, rimanda al mittente discriminazione e ghettizzazione, intimidazione e vessazione; il suo desiderio di libertà illumina i meccanismi subdoli dell’assoggettamento e ne rompe la dialettica. Riconoscendo il proprio isolamento, a partire da questo e accogliendo la sofferenza che esso comporta, diverse singolarità si costituiscono come moltitudine in movimento, dotandosi di forme organizzative e di linguaggi che veicolino processi costitutivi di soggettività “altre” in percorsi alternativi. I “marcheurs” rivendicano il diritto a “divenire” nella moltitudine, ad “essere moltitudine” per poter interagire con altre singolarità in uno spazio comune e senza confini. Questa forza dirompente e rivoluzionaria scaturisce dalla messa in comune di desideri e bisogni di soggettività marginalizzate, le cui rivendicazioni, per quanto immaginate, sognate e immateriali sono imminentemente corporee. Frequentando gli accampamenti che di giorno in giorno cambiavano posto, abbiamo potuto osservare processi partecipativi operare verso il più ampio coinvolgimento possibile delle singolarità e al tempo stesso verso il coordinamento collettivo delle azioni e delle rivendicazioni della marcia. La vitalità, l’immediatezza e la spontaneità di ogni azione decisa collettivamente, si costituiscono di condivisioni gestate in una comunicazione corporea che ogni struttura pre-esistente avrebbe tentato di captare finendo per eusaurirla. Di qui, la necessità di una non-mediazione sul piano mediatico e un rifiuto della rappresentanza o di ogni altra forma di patrocinio …“La novità, il cambiamento, la notizia sono prodotte dai soggetti che assumono la propria condizione. Loro stessi sono la novità; lo sono nell’azione, quando praticano vie alternative. Il media più vicino a loro, sono loro stessi. Se accettano di essere i media di se stessi non c’è più bisogno della forma in cui i media tradizionali si organizzano” (Amir).

“Il cittadino è un prodotto dello stato, ne costituisce il potere…come cittadini europei noi possiamo lavorare ovunque, consumare ovunque, possiamo viaggiare in tutto il mondo […] Come i rifugiati devono auto-organizzarsi, rompere l’isolamento dei centri di detenzione, della discriminazione, della repressione, anche noi, come cittadini, dobbiamo rompere quest’isolamento rompendo i nostri pregiudizi, i nostri previlegi…andare incontro e toccare i problemi, toccare le persone e capire che la propaganda di stato categorizza i rifugiati privandoli della loro umanità: sono rifugiati, una categoria “intoccabile”. Sono come noi, è vita ordinaria, non è un miracolo. Questo la gente deve capire. Quando la gente lo capirà allora lo capiranno anche i governi. E allora tante cose cambieranno anche per me, come cittadina, perchè apriremo così tante porte che la rivoluzione entrerà inevitabilmente” (Nadja, Freedom March, Steinfort)

“Non lo so, condividere il dolore non è una cosa facile. In genere quando voglio comprendere il dolore di qualcun altro mi riferisco al mio e forse allora capisco la sensazione; ma toccare esattamente quello che tu senti come dolore non è così facile. Ma si può condividere la rabbia, l’indignazione…e così camminiamo insieme a “cittadini” che condividono questa rabbia e sicuramente questo comporta un andare oltre l’idea di cittadinanza così come si è abituati a sentirla….Non direi che questa marcia da sola possa costituire un esempio di rivoluzione o di società…ma la solidarietà aiuta le rivoluzioni. Quindi, se mettiamo queste alternative in pratica, e marciamo per la libertà di tutti…” (Amir, Freedom March, Beauraing)

« La mobilitazione per i diritti dei migranti assume, nel corso del XXI secolo, una portata paragonabile a quella che poteva essere, ai suoi tempi, la campagna per l’abolizione della schiavitù »
Catherine Withol de Wenden, Le droit d’émigrer (CNRS, 2013)

Intervista ad Amir
Intervista a Nadja – Prima parte
Intervista a Nadja – Seconda parte
Intervista a Nadja – Terza parte