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We want to play. Il report multimediale del dibattito allo Sherwood Festival

Nessuno è illegale per giocare a pallone

Il dibattito “We want to play”, tenutosi nella Free Sport Area dello Sherwood Festival domenica 25 giugno, ha messo a tema diversi spunti legati al rapporto tra sport e discriminazione, in Italia e non solo. Hanno partecipato al dibattito, introdotto da Stefano Carbone della Polisportiva SanPrecario di Padova, Giuseppe Ruzza (presidente del comitato regionale veneto della FIGC-LND), Jacopo Tognon (docente di Diritto e Politiche europee dello sport) e Carlo Balestri (membro del direttivo della UISP nazionale ed organizzatore dei Mondiali Antirazzisti).

La campagna "We want to play. Nessuno è illegale per giocare a pallone", che ha dato il nome al dibattito, è nata dalla pressione di alcune realtà sportive antirazziste – tra cui la SanPrecario - con l’obiettivo di togliere le discriminazioni sui tesseramenti FIGC – ed in particolare l’articolo 40 comma 1.1 del NOIF (Norme Organizzative Interne della FIGC). In particolare due punti sono oggetto della vertenza: il punto b - che prevede come vincolo al tesseramento un permesso di soggiorno che non scada in data precedente al 31 gennaio dell’anno successivo all’inizio della stagione calcistica – ed il punto c - che prevede l’obbligo di residenza nel comune in cui l’atleta pratica attività sportiva.

A partire dal percorso della campagna, alla quale hanno aderito oltre 30 realtà sportive di tutta Italia, la discussione ha toccato vari punti legati allo stato di salute del sistema calcistico italiano. Nel dibattito sono state anche evidenziate le iniziative concrete per rafforzare una cultura ed una pratica antirazzista nel mondo sportivo.

Stefano Carbone, nella sua introduzione, ha messo in rilievo come le criticità dell’articolo 40 vengano vissute da tutte le squadre di calcio dilettantistico, al di là della loro vocazione o meno antirazzista. Questo perché si nega a compagni di squadra, con cui si condividono allenamenti e tanti momenti di vita in comune, il fatto di potersi tesserare e di poter essere convocati durante le partite, solo per avere lo status di richiedente asilo. Si tratta di un vero e proprio apartheid sportivo , che nei campionati dilettantistici si vive in maniera più cogente, visto che le società non hanno la forza economica e politica di trovare escamotage. Le questioni relative all’articolo 40 hanno, infine, «permesso di rendere vertenza una campagna, perché mettono in luce tutte le arretratezze del sistema sportivo italiano».

Giuseppe Ruzza afferma che l’articolo 40 è materia di una grande discussione interna alla FIGC. In origine questa norma è nata per tutelare i calciatori provenienti da i paesi al di fuori dell’Unione Europea, mettendoli al riparo dallo sfruttamento mercantile fatto dalle società sui loro cartellini. Al momento è inadeguato, perché sono completamente mutati sia l’accesso alla disciplina calcistica sia il contesto migratorio. Le sezioni regionali spesso si battono per modifica dell’articolo 40, ma la situazione nazionale è ancora molto disomogenea e poco chiara.

Jacopo Tognon ha posto l’accento su tutte le contraddizioni riguardanti i tesseramenti, che attraversano tutto il sistema sportivo: «nel calcio i diritti sono anche più tutelati rispetto ad altri sport, soprattutto per la grande esposizione mediatica che ha questo sport». Tornando all’articolo 40: «l’accesso al gioco dovrebbe essere una passione e limitarlo, soprattutto attraverso il certificato di residenza, rischia di diventare grottesco».
Ad alimentare i modelli discriminatori ci sono anche le “narrazioni tossiche”: «bisogna sfatare la narrazione che meno stranieri significhi avvantaggiare il calcio a livello di nazionali, perché il vero problema Italia è che mancano scuole calcio federali». In alcuni Stati europei, come ad esempio la Germania, il numero di tesseramenti extra UE è libero e nonostante questo le rispettive nazionali riescono a raggiunge ottimi risultati sportivi.

La questione dell’accessibilità allo sport è uno dei temi più cari alla Uisp. Per Carlo Balestri la commistione tra ambito sportivo ed ambito sociale è necessaria, se si vogliono debellare razzismo e discriminazioni. In Italia gli episodi di razzismo nel mondo sportivo sono almeno 5000 all’anno (fonte Unar), mentre in Francia e Germania siamo su cifre dieci volte superiori. È evidente che ci troviamo di fronte ad una carenza di denunce, e per questo la Uisp ha istituito il progetto “Antenne sport”: bisogna responsabilizzare i comitati territoriali per prendersi carico di fare inchiesta e fare emergere i dati di razzismo sportivo e discriminazione diretta e indiretta».

La discussione ha toccato anche temi di carattere più generale, sempre legati al rapporto tra sport e razzismo. Emblematiche, in tal caso, alcune uscite pubbliche del presidente della FIGC Carlo Tavecchio, che spesso hanno legittimato, se pure in forma indiretta, fenomeni di razzismo e xenofobia.

Rilevante è anche le modalità attraverso le quali Vincoli FIFA le realtà antirazziste possono far attuare dal basso alle federazioni nazionali alcuni vincoli che la Fifa può imporre solo sulla carta.

Tra gli eventi più importanti di sport antirazzista ci sono sicuramente i “Mondiali antirazzisti”, che si tengono ogni anno, nel mese di luglio, in Emilia-Romagna. Questi non vanno, però, visti solo nell’ottica del grande evento, se pure alternativo, ma come momento di sintesi di percorsi che quotidianamente si svolgono nei territori.

Link utili:
- We Want To Play - il testo dell’appello

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vedi sito tratto da Globalproject.info

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[ 28 giugno 2017 ]
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Photo credit: Valentina Belluno

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