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da Repubblica Inchieste

“Gestiti come un’emergenza e tagliati fuori dalla società”

Il racconto di don Fredo Olivero, direttore dell’Ufficio pastorale migranti di Torino. “Gli avvocati tedeschi non riuscivano a capire come i rifugiati potessero essere trattati così”. Profughi parcheggiati in alberghi e case di accoglienza senza mai puntare a un loro inserimento.
Don Fredo Olivero è il direttore dell’Ufficio pastorale migranti di Torino. Mi spiega che quando sono arrivati gli avvocati tedeschi, accompagnati da ricercatori e giornalisti finlandesi e svedesi, “non riuscivano a capire come i rifugiati potessero essere trattati così”. Il paragone che don Fredo descrive è quello con i terremotati: per gestire il flusso di prima accoglienza viene impiegata la protezione civile, un esempio significativo. “C’è una parte dell’immigrazione in Italia, quella relativa ai profughi di guerra, che viene sostanzialmente gestita attraverso la logica dell’emergenza però non esistono i numeri per giustificare un comportamento del genere. Conviene far credere all’opinione pubblica che 30mila profughi siano un’emergenza, quando in Italia abbiamo gestito numeri ben maggiori negli anni addietro, e in questo momento paesi come la Tunisia e l’Egitto stanno gestendo rispettivamente 700mila e 400mila sfollati. Questi sono numeri da far preoccupare, non i nostri. La nostra è solo propaganda. È chiaro che questa strategia ha degli obiettivi che non riguardano la vita dei richiedenti asilo ma interessi politico-economici che nulla hanno a che fare con la solidarietà sociale”.

Quindi, come abbiamo visto con i terremoti, l’emergenza permette allo Stato di scavalcare le leggi ordinarie. “Più delle leggi – corregge don Fredo – l’emergenza profughi permette di parcheggiare i rifugiati in Cie, alberghi, case di accoglienza, in modo da colmare le entrate mancate e risanare l’economia locale. Così c’è l’albergo che risolve la stagione morta, la cooperativa con i bilanci in rosso che trova l’occasione per pareggiare i conti, eccetera”.

La Regione Piemonte, in accordo con le prefetture e i comuni, ha spedito 31 profughi in una borgata di Coazze con 27 abitanti. Numeri ben maggiori sono quelli che caratterizzano i richiedenti in attesa di asilo collocati in montagna riempendo alberghi vuoti a Pratonevoso o a Pra Catinat – dove ci sono centinaia di profughi scappati dal conflitto libico – tagliando fuori dalla società queste persone e abbandonandole a loro stesse. “In questi casi si fa di tutto per impedire qualsiasi percorso di integrazione, e trasformare persone da risorse a pesi morti a carico della comunità”.

Fino a quando la Commissione territoriale non decide lo status di un rifugiato, i profughi rimangono in carico al fondo stanziato dal governo e gestito dalla Prefettura. Così, avere dei rifugiati può significare guadagnare fondi e contributi per la solidarietà. Fondi che finiscono spesso per essere sprecati (si veda il circolo Dravelli che gestì i rifugiati di via Asti spendendo un milione e mezzo di euro e senza mai realizzare un percorso di integrazione). Ma presto le cose dovranno cambiare per mancanza di fondi: “E’ il territorio che deve mettersi a disposizione, in termini di unità abitative, altrimenti nel 2012 si rischia il vuoto, quando finiranno i fondi economici nazionali stanziati per la gestione dell’emergenza. Il cammino dell’accoglienza deve essere unitario: per questo si rende necessario che le regioni provvedano a coltivare il coordinamento e il coinvolgimento degli enti territoriali, comprese prefetture, province e comuni”.

“Ad esempio nel 2008, insieme al Gruppo Abele, è nato il progetto Non Solo Asilo: un tavolo regionale che coinvolge associazioni e istituzioni, Caritas e diocesi. Il progetto cerca di dare sostegno ai rifugiati che non rientrano nei programmi nazionali di inserimento. In questi anni abbiamo inserito 200 persone in 25 zone diverse della Regione”.