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Approvato lo ius soli sportivo. Ora una nuova legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana

Approvato lo “ius soli sportivo”: con la votazione al Senato del 14 gennaio è stato approvato il DDL 1871 che introduce “Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva”.
La legge permetterà il tesseramento di minori stranieri residenti in Italia (almeno da quando hanno compiuto 10 anni) nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva.

E’ sicuramente, come scriveva Sportallarovescia dopo l’approvazione del provvedimento alla camera, “un’importante vittoria per chi in questi anni ha sostenuto con forza che lo sport deve avere un ruolo di cittadinanza ed allargamento di diritti. Sono state numerose le iniziative, le prese di posizioni, le campagne pubbliche, come ad esempio Gioco Anch’io, che si sono battute contro l’ottusità discriminatoria dei regolamenti di molte federazioni e la mancanza di volontà politica da parte di esse di adeguare la pratica sportiva a una società che negli ultimi anni è cambiata”.
Finalmente moltissimi dirigenti di associazioni sportive tireranno un sospiro di sollievo, non dovranno più impazzire per recuperare documenti da federazioni straniere e soprattutto (e questa è la cosa più importante) i bambini migranti potranno giocare e praticare sport da subito insieme agli italiani, senza dover aspettare gli interminabili tempi per la procedura di tesseramento e subire ingiuste discriminazioni.

Un passo in avanti nella lotta contro il razzismo nello sport, quindi, è stato fatto, ma occorre essere consapevoli, riprendendo le parole di Mauro Valeri nell’intervista proposta di seguito, che la cittadinanza sportiva “non è una rivoluzione” e che la soluzione va trovata nell’approvazione di “una nuova legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana”.

Cittadinanza sportiva: non è una rivoluzione
di Kibra Sebhat, tratto da “la città nuova

Mauro Valeri è uno dei massimi esperti di razzismo nello sport e da anni segue una storiografia “al contrario” delle seconde generazioni in Italia. Ci racconta le storie di partigiani e garibaldini italiani, di origine africana, che hanno abitato e difeso il nostro paese. Sociologo, è autore di diversi libri tra cui “Black Italians. Atleti neri in maglia azzurra”, “Ladri di sport”, “Che razza di tifo” e tra gli ultimi “Campioni d’Italia? Le seconde generazioni e lo sport”. L’abbiamo raggiunto per chiedergli un parere sull’approvazione della cosiddetta “cittadinanza sportiva” per i figli di immigrati che vogliono gareggiare. E lui ci ha restituito un giudizio molto critico.

Cittadinanza sportiva: cosa si intende con questo termine?
«La cittadinanza sportiva è una sorta di riconoscimento di alcuni diritti, in ambito sportivo, a cittadini stranieri non dell’UE. Anche se può sembrare paradossale, ma lo sport non è considerato un diritto (fatto salvo il gioco per i minorenni, come scritto nella Convenzione sui diritti dell’infanzia firmata a New York nel 1989). Ciò vuol dire che, nel momento stesso che un minorenne “extracomunitario” decida di tesserarsi per una società sportiva affiliata a qualche federazione, scopre che gli adempimenti burocratici sono maggiori rispetto al suo compagno di classe italiano. Ovviamente, questa disparità è maggiore in paesi come l’Italia che hanno una legge sulla cittadinanza particolarmente restrittiva. L’intervento di leggi come quella della cosiddetto “ius soli sportivo” dovrebbero quindi avere l’obiettivo di ridurre questa disparità di trattamento, almeno in ambito sportivo».

Quali sono le discriminazioni che vengono cancellate?
«Purtroppo poche. Intanto la platea a cui si rivolge è particolarmente limitata: coloro che risultano residenti almeno dal compimento del decimo anno d’età. In secondo luogo, nello sport, penso al calcio, essere tesserati non vuol dire poter scendere in campo, perché vi sono regole della federazione che comunque limitano il numero di extracomunitari che possono essere presenti in campo. L’unico elemento davvero innovativo è l’aver stabilito le stesse procedure per il tesseramento dei cittadini italiani. Ma sarà davvero così? Ogni federazione sportiva nazionale risponde anche a regole della federazione internazionale di riferimento, come ad esempio, la FIFA per il calcio. Riuscirà la FIGC ad applicare pienamente quanto previsto dalla norma? Sinceramente dubito. Paradossalmente, proprio il giorno di approvazione della legge, è scoppiato nuovamente il caso dei minori stranieri vittime di un traffico calcistico (caso Real Madrid), che è sempre stato utilizzato dalla FIGC per imporre una politica di tesseramento più restrittiva nei confronti dei minori non comunitari. E poi conosco decine di casi di minori extracomunitari che potrebbero rientrare in questa norma, ma che essendo dati in affidamento non vengono comunque tesserati».

Quando potremo vedere i primi effetti della norma?
«Li vedremo l’anno prossimo con i dati relativi al nuovo tesseramento. Per ora resta una dato non positivo: il numero di minori non comunitari che pratica sport è decisamente limitato, specie in sport come il calcio. Va meglio in quelle discipline che hanno già la cittadinanza sportiva, come l’atletica, l’hockey su prato e il pugilato. Il problema però è più profondo: in Italia lo sport non è mai stato considerato un vero strumento di integrazione, così come più volte ha invece sottolineato l’Europa. Ci sono retaggi culturali del passato e interessi economici che finora hanno fatto sì che lo sport, o almeno in alcune discipline, più che favorire l’integrazione, è stato un ambito dove ha vinto la discriminazione».

Un piccolo sasso lanciato in uno stagno molto fermo quindi, «da attori che avrebbero potuto essere più attenti alla realtà», aggiunge Valeri. La soluzione? Una nuova legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte delle seconde generazioni. E una vera scelta di fare dello sport uno strumento di inclusione.