Come nasce il rapporto
Negli stessi giorni nei quali venivano depositati in Cassazione due quesiti referendari sui centri di detenzione amministrativa e su alcuni aspetti della normativa sull’immigrazione che vincolano rigidamente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro e prevedono il cd. “accordo di integrazione”, si è appreso di un “Documento programmatico sui Centri di Identificazione ed Espulsione” predisposto da una “task-force” incaricata dal Ministro dell’interno, “che si è recata presso i Centri presenti su tutto il territorio nazionale al fine di raccogliere ogni informazione utile allo svolgimento dell’analisi e alla elaborazione del Documento.
Il ministro Cancellieri nel mese di giugno del 2012 aveva affidato al Sottosegretario Ruperto il compito di coordinare la “commissione”, composta dai massimi vertici del Viminale, proprio negli stessi mesi in cui una serie di visite effettuate nel corso della campagna “LasciateCIEntrare” avevano fatto emergere gravi lacune strutturali, come quelle che avevano imposto la chiusura dei CIE di Trapani (il vecchio Serraino Vulpitta) e di Lamezia Terme: inadempienze contrattuali degli enti gestori, come da ultimo nel caso sul quale sta indagando la Procura di Bologna, ed una serie di abusi, oggetto di diversi esposti all’autorità giudiziaria, come nel caso sul quale ha indagato la Procura di Trapani, rimasti fino ad oggi senza esito.
I referendum
Mentre le proposte referendarie presentate dal Partito Radicale, ma aperte ad una condivisione più ampia da parte delle forze politiche, sindacali e delle associazioni, chiedono l’abolizione del legame automatico tra espulsione ed accompagnamento forzato mediante il trattenimento amministrativo, in accordo con la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, una riduzione della durata della detenzione nei CIE nei residui casi nei quali non si potesse procedere all’espulsione con intimazione a lasciare il territorio, conforme agli indirizzi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ed un abbattimento delle ipotesi nelle quali gli immigrati già regolari potessero finire nei centri di detenzione a seguito della perdita del contratto di lavoro o per il mancato adempimento dell’accordo di integrazione, le proposte contenute nel documento ministeriale vanno nella direzione di una proliferazione illimitata dei CIE su tutto il territorio nazionale con un inasprimento delle condizioni di trattenimento e con il consueto corollario di nuovi reati “d’autore”. Un atto di impulso, probabilmente un segnale raccolto ed inviato alle forze di polizia, di un ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia rispetto alla disciplina prevista dalla Direttiva Comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri ed all’impianto di garanzie procedurali sancito dalle Convenzioni internazionali e dalla Carta Costituzionale anche in favore degli immigrati irregolari.
I centri
In molti punti emerge, da parte dei vertici del Ministero dell’interno, una legittimazione di prassi di polizia già in corso da anni. Prassi documentate da video e rapporti di agenzie internazionali.
Il rapporto ministeriale parte già da una premessa errata ricollegando alle “manifestazioni e rivoluzioni” della “Primavera Araba” l’aumento della presenza degli immigrati nei CIE, mentre invece appare a tutti evidente, anche alla luce dei rapporti di organizzazioni come MEDU (Medici per i diritti dell’Uomo) come la maggior parte degli immigrati trattenuti nei centri siano provenienti dal circuito carcerario, o siano immigrati presenti da anni in Italia, che si sono trovati nella condizione di irregolarità a seguito della perdita del posto di lavoro. D’altra parte si prende atto che i centri “operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali”, senza riferire però che alcune strutture sono parzialmente vuote per carenze di personale e per problemi insorti con gli enti gestori a seguito del forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni, come nel caso del CIE di Milo a Trapani.
Si annuncia ancora una volta un OPCM (Ordinanza del Consiglio dei Ministri – quello attuale?) per la ristrutturazione dei due centri di identificazione ed espulsione temporanei di Santa Maria Capua Vetere in Campania e di Palazzo San Gervasio in Basilicata, luoghi tristemente noti per essere stati teatro di violenze quando nel 2011 vennero trasformati in pochi giorni da centri di accoglienza in centri di identificazione ed espulsione per essere poi chiusi a seguito di incidenti scoppiati al loro interno, seguiti da interventi da parte delle forze dell’ordine che facevano ampio ricorso a lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, ampiamente documentati da video e fotografie.
Di fronte alle “citicità” rilevate dalla Commissione ministeriale “ con particolare riferimento alle procedure di aggiudicazione, all’ interlocuzione con i gestori in corso di rapporto, all’ efficienza, all’uniformità ed economicità gestionali” si propone la unificazione delle procedure di affidamento da seguire “a evidenza pubblica”, in modo da consentire all’amministrazione dell’interno “di avere un unico interlocutore per tutti i centri” al fine dichiarato di realizzare un risparmio che nel rapporto rimane ancora tutto da dimostrare. L’orizzonte reale sembra quello invece di un ulteriore decadimento dei servizi come si sta verificando già in questi ultimi mesi dopo l’abbattimento unilaterale del costo delle convenzioni da parte del ministero dell’interno.
Rimpatri collettivi e convalida dei trattenimenti
L’aspetto più grave del rapporto (pag.14) consiste nella presa d’atto che a seguito degli accordi stipulati dal ministro Maroni a Tunisi il 5 aprile 2011, i rimpatri verso la Tunisia sono caratterizzati da “procedure semplificate” che addirittura consentono che gli immigrati che provengono da quel paese non vengano detenuti nei CIE ma nei CPSA (Centri di prima accoglienza e soccorso), come quelli di Lampedusa, di Pozzallo (Ragusa) e di Cagliari “ ma solo se il rimpatrio è organizzabile in un lasso di tempo ragionevole in quanto il vettore sia stato tempestivamente reperito, non essendo necessaria ulteriore attività identificativa”. Il rapporto non dice che questa stessa detenzione amministrativa si applica da tempo anche nei confronti degli immigrati irregolari provenienti dall’Egitto, anche in strutture informali, con procedure che risultano in contrasto con il Regolamento Frontiere Schengen, con la Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE e con il divieto di espulsioni collettive, sancito dall’art.19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Una violazione eclatante della Costituzione Italiana che impedirebbe la detenzione affidata soltanto alla polizia (habeas corpus) e sottratta a qualsiasi controllo giurisdizionale ed afferma il diritto di chiedere asilo (art. 10) ed il diritto di difesa (art.24) , diritti fondamentali della persona da riconoscere “a tutti gli immigrati comunque presenti nel territorio dello stato”, secondo l’art. 2 del T.U. 286 del 1998 sull’immigrazione.
La durata del trattenimento
Il rapporto prende atto che il tempo medio di permanenza nei CIE nel 2012 “ è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6% di espulsi dopo il trattenimento”, dato che lo stesso ministero riconosce “non completamente indicativo della situazione reale”, ma che comunque costringe anche la commissione all’ovvia constatazione della inutilità della detenzione amministrativa fino a 18 mesi. La proposta contenuta nello studio del ministero corrisponde a quanto già anticipato mesi fa dal ministro dell’interno Cancellieri, e consiste nella riduzione della durata massima della detenzione amministrativa a dodici mesi, una proposta che, come osservato anche in un documento dell’ASGI di alcuni mesi fa, non modifica certo la situazione insostenibile dei CIE italiani, e non corrisponde neppure alla attuazione della Direttiva comunitaria sui rimpatri del 2008. Infatti il sistema automatico delle proroghe comporta il mantenimento all’interno dei CIE di persone per le quali è ormai evidente che non ci sono più probabilità di rimpatrio, e dunque la detenzione amministrativa assume il carattere di una sanzione meramente afflittiva senza essere più finalizzata all’esecuzione effettiva delle misure di allontanamento forzato (espulsione prefettizia e respingimento disposto dal Questore).
L’assistenza sanitaria
A fronte dei numerosi casi di autolesionismo che si verificano nei CIE, individuati dal ministero dell’interno come atti preordinati al ricovero in strutture sanitarie esterne, e senza prendere atto delle gravi carenze igienico sanitarie rilevate da tutti i rapporti indipendenti delle associazioni che hanno visitato i CIE nel 2012, oltre a Medu si vedano i rapporti dell’associazione “A buon diritto”, dei Rapporteur del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, si propone un rinforzo dei presidi sanitari organizzati all’interno dei CIE allo scopo evidente di ridurre i casi di ricovero in ospedale. Si giunge a prevedere addirittura la prassi di prelievi di sangue all’interno della struttura “ consentendo ai medici interni di formulare un’ipotesi diagnostica e di indirizzare l’ospite a una visita specialistica solo in caso di reale bisogno”. E’ facile immaginare con quali conseguenze e con quale indipendenza di giudizio, anche alla luce dei frequenti contrasti già riscontrati da anni tra le rilevazioni dei medici interni, convenzionati con l’ente gestore e con la prefettura, ed i medici indipendenti che operano nelle strutture ospedaliere che rilevano spesso patologie e traumi ignorati all’interno dei CIE. Neanche una parola sui soggetti più vulnerabili, sui tossicodipendenti, sulle vittime della tratta o su chi presenta segni evidenti di disagio psichico, l’unica preoccupazione del sistema della sanità all’interno dei CIE sembra essere la prevenzione di possibili fughe.
La differenziazione degli status giuridici
Altro aspetto preoccupante del rapporto, più per le intenzioni sottese, corrispondenti peraltro a prassi di polizia già attuate, che alla formulazione di proposte precise, è la parte che riguarda la differenziazione alla quale si dovrebbe procedere per fare fronte alla “eterogeneità” degli status giuridici delle persone trattenute nei centri di detenzione, ovviamente “nel rispetto delle garanzie costituzionali e compatibilmente con l’organizzazione e le caratteristiche strutturali dei Centri”. Si auspica quindi che per gli immigrati “ex detenuti” vengano anticipate le pratiche di identificazione in carcere, auspicando “una fattiva collaborazione” tra il ministero dell’interno e quello della giustizia, in modo da agevolare il riconoscimento da parte delle autorità diplomatiche e consolari subito dopo l’arresto e prima dell’udienza di convalida e soprattutto allo scopo di “collaborare con l’Amministrazione penitenziaria e le Questure competenti affinché gruppi di stranieri della (presunta) medesima nazionalità siano trasferiti in carceri limitrofi ai Centri situati nelle vicinanze delle rispettive rappresentanze diplomatiche”.
Anche in questo caso una prassi che già la polizia pratica autonomamente come si è verificato nel centro di Milo a Trapani nel caso dei tunisini che poi vengono riconosciuti, anche in aeroporto, dal Console tunisino che ha sede a Palermo. Una prassi che presenta evidenti contenuti discriminatori e che impedisce un esercizio effettivo dei diritti di difesa, interrompendo, anche nei casi nei quali esistano, i rapporti tra gli avvocati e gli immigrati da loro assistiti, trasferiti spesso, all’improvviso ed in segreto, in località distanti migliaia di chilometri dai luoghi nei quali sono stati arrestati o detenuti e nei quali hanno avuto l’assistenza di un avvocato.
Rivolte, repressione e aggravanti di reato
L’aspetto forse più preoccupante dell’intero rapporto riguarda la “Tutela della pacifica convivenza all’interno dei Centri”, in quanto “non infrequenti risultano gli episodi di sedizione e rivolta che si registrano all’interno dei Centri” con “condotte violente ed antisociali da parte di alcuni ospiti, che spesso sfociano in danneggiamenti severi delle strutture, con conseguente perdita di ricettività delle stesse o, a volte, necessità di chiusure temporanee per provvedere al ripristino”. Si ripropongono anche in questo caso misure già sperimentate, come recentemente anche nei CIE di Modena e Bologna, come il trasferimento in altre strutture di trattenimento, oppure “la creazione, all’interno di ogni CIE, di moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica”. Già il linguaggio non lascia dubbi sulle intenzioni, e sulle prassi già sperimentate in questi anni. Si prevedono trattamenti detentivi di rigore per quelle persone che le autorità di polizia definiscono “dall’indole non pacifica”, una ulteriore dilatazione della discrezionalità amministrativa sottratta ad un effettivo controllo del giudice, che appare in contrasto con le stesse fondamenta della nostra Costituzione ( in particolare gli articoli 3, 13 e 24). Si giunge addirittura ad ipotizzare forme ulteriori di restrizioni della libertà personale per via amministrativa, mentre poi si invocano “norme di rango primario” cioè nuove leggi “ per configurare una specifica aggravante per i reati commessi all’interno dei CIE, caratterizzati da condotta violenta”, in modo da conferire al Prefetto, al Questore o ad altre autorità amministrative, “il potere di intervenire in caso di episodi, attuali o potenziali, di insurrezione o di grave danneggiamento, disponendo, in via cautelativa, con provvedimento motivato, di carattere amministrativo, sottoposto al controllo di legittimità del giudice di pace, il trattenimento degli autori, per brevi periodi di tempo, in aree differenziate della struttura, quando sulla base di riscontri oggettivi, il provvedimento stesso risulti ragionevolmente idoneo a prevenire il danneggiamento delle strutture e a garantire la sicurezza degli ospiti, ovvero a scongiurare la reiterazione degli atti compiuti.
Insomma ci mancano solo i letti di contenzione ed i ferri alle pareti, tutto però sotto il controllo del giudice di pace, organo giurisdizionale di cui evidentemente ormai ci si può fidare, anche perché molto spesso appone un timbro su un modello prestampato senza neppure ascoltare le ragioni delle persone trattenute.
Allo stesso riguardo il rapporto precisa che “ poiché la totale assenza di attività all’interno dei Centri, che si sostanzia in un ozio forzato, comporta un aumento di aggressività e malessere e si traduce in un aumento di episodi di tensione tra immigrati trattenuti e forze dell’ordine, modalità di trattenimento distinte ed una diversa suddivisione degli spazi permetterebbero agli ospiti di trascorrere il tempo in maniera costruttiva (come, dove, quando ? Nda), con la possibilità di svolgere, in un contesto più armonico e gradevole, attività ricreative e sportive”. Però si osserva subito dopo che occorre limitare l’utilizzo degli impianti sportivi all’aperto e si prevede “la predisposizione di un sistema di difese passive all’interno di ogni CIE, in modo da scongiurare sul nascere i tentativi di fuga, attualmente assai frequenti”.
La convalida del trattenimento ed il diritto d informazione e comunicazione
Tra le proposte del rapporto del Ministero dell’interno si ribadisce l’esigenza che le procedure di convalida del trattenimento si svolgano all’interno dei centri di detenzione, “evitando così alle questure un sovraccarico di compiti per l’accompagnamento degli stranieri presso le aule giudiziarie”, sulla scorta di una prassi amministrativa già collaudata, che nel tempo è stata anche censurata dalla giurisprudenza e dai Consigli dell’ordine degli avvocati perché non veniva garantito un esercizio effettivo dei diritti di difesa, richiamato espressamente dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri e dall’art.13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che dalla nostra Costituzione (art.24).
Lo studio del Ministero “ affinche si evitino le disomogeneità di trattamento evidenziate anche dalla stampa” conclude auspicando una “ libera, corretta e trasparente assistenza legale”, richiamando il rimpatrio volontario assistito, nella prassi precluso alla maggior parte degli immigrati trattenuti nei CIE, e la partenza volontaria, una ipotesi che nella nostra legislazione appare escludere, salvo casi particolari, proprio gli immigrati già rinchiusi all’interno di un centro di detenzione e dunque già destinatari di misure di allontanamento forzato. Ma la legge, in questo caso derivante dalla normativa comunitaria 2008/115/CE va sempre richiamata, anche se poi non si applica mai. Si incide invece sulla libertà di comunicazione con l’esterno prevedendo nuove limitazioni, anche queste già sperimentate nella pratica, per l’uso dei telefoni cellulari, in particolare se dotati di videocamera. Evidentemente i filmati sulle modalità di repressione all’interno dei CIE hanno dato fastidio, anche se la magistratura, che aveva aperto alcune inchieste, non ha dato corso alla prosecuzione formale di procedimenti penali, anche per la difficoltà di individuare personalmente gli autori dei reati commessi. Rimane la forte preoccupazione che l’uso dei telefoni sia vietato del tutto e che le schede telefoniche non consentano quella libertà di comunicazione con l’esterno che è garantita dalla legge e dal regolamento di attuazione n.394 del 1999. Così come il tentativo suggerito dal rapporto di trasferire sull’ente gestore per “intercettare le situazioni di disagio e canalizzarle in modo costruttivo, attraverso l’ascolto, il dialogo e la mediazione, allo scopo di prevenire il sorgere di situazioni conflittuali”, ignora la vera radice dei conflitti ricorrenti all’interno dei CIE ed appare in contrasto con l’abbattimento dei costi delle convenzioni, che in molte strutture sta comportando proprio l’effetto opposto, con la rarefazione del personale degli enti gestori e con una sovra utilizzazione delle forze di polizia, al punto che alcune strutture funzionano a capienza limitata proprio per le carenze di personale.
Una nuova dislocazione dei centri
Il richiamo finale alla collaborazione delle autorità consolari come “uno degli strumenti più efficaci per ridurre i tempi di identificazione degli stranieri irregolari” viene utilizzato come pretesto per una nuova dislocazione dei CIE nel territorio nazionale, in quanto “sarebbe opportuno concentrarne la presenza soprattutto nelle città in cui si trovano i consolati o le ambasciate dei paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio, riducendo i tempi di spostamento e semplificando i compiti dei funzionari diplomatici nell’organizzazione degli incontri con gli stranieri da identificare”. In sostanza un auspicio e nulla di più che si vada verso riconoscimenti sempre più veloci, ma senza alcuna intenzione di salvaguardare i diritti di difesa, ed altri diritti fondamentali, come il diritto di chiedere asilo, che comunque spettano anche agli immigrati sottoposti alle procedure di respingimento o di espulsione con accompagnamento forzato.
Chiudere i CIE
I tempi attuali non sembrano consentire facile ottimismo per una revisione legislativa della normativa italiana in materia di immigrazione ed asilo, e negli ultimi anni il nostro legislatore è stato costretto ad intervenire solo dopo casi eclatanti di condanna delle corti internazionali o per dare attuazione, spesso parziale, alle direttive comunitarie, come si è verificato da ultimo con la legge n.129 del 2011 con riferimento alla direttiva sui rimpatri 2008/115/CE. Per questa ragione, di fronte al sostanziale vuoto politico nel quale si sta verificando una crescente separatezza ed autoreferenzialità delle forze di polizia e del ministero dell’interno più in generale, come una lettura complessiva del rapporto conferma, occorre intensificare lo sforzo per la chiusura dei CIE, anche immediata, nei casi in cui questi evidenzino casi di trattamento inumano o degradante, vietato anche dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( art.3) e per fornire ogni forma di assistenza, a partire dall’assistenza legale a quanti vi rimangono rinchiusi.
In una fase nella quale non è certo neppure se si riuscirà o costituire un governo o se si andrà a nuove elezioni, sarebbe assai importante che si eliminassero attraverso i referendum proposti dal partito radicale alcune norme del Testo unico 286 del 1998 che sono state introdotte nel tempo dalla legge Bossi-fini nel 2002 e dai pacchetti sicurezza voluti da Maroni nel 2009 e nel 2011, in vista di una riforma organica della materia, che purtroppo non è ancora in vista.
I quesiti referendari
L’eventuale abrogazione delle norme sottoposte a referendum costringerebbe comunque il legislatore, e dunque il Parlamento, come si è verificato in passato, ad una riforma ben più ampia delle materie che direttamente sono oggetto dei diversi quesiti. E anche se questo Parlamento non si trovasse nelle condizioni di legiferare, avere posto con grande nettezza i problemi legati ai quesiti referendari dovrebbe costringere le forze politiche a prendere posizione, senza continuare con quei silenzi impacciati che su temi rilevanti come l’immigrazione ed il carcere hanno caratterizzato l’ultima campagna elettorale.
Il primo quesito concerne l’abolizione, nell’ambito del Testo Unico sull’immigrazione, di parte del comma 5 dell’articolo 14, che riguarda la durata del trattenimento nei CIE degli stranieri irregolari presenti in Italia. Tale norma, già prevista dalla legge Turco- Napolitano n.40 del 1998 (che prevedeva inizialmente un trattenimento non superiore ai 30 giorni) è stata poi modificata dalla legge Bossi-Fini nel 2002 e quindi dai pacchetti sicurezza, leggi 94 del 2009 e 129 del 2011, che avevano portato a due mesi, quindi a sei ed infine a diciotto mesi la durata massima del trattenimento degli immigrati irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione. Oggi nei CIE le proroghe vengono disposte in automatico ben oltre i dodici mesi. Neppure la direttiva europea sui rimpatri 2008/115/CE arrivava a prevedere tanto, privilegiando forme alternative di limitazione della libertà di circolazione e non della libertà personale in vista del rimpatrio, stabilendo criteri di proporzionalità ed adeguatezza che il nostro legislatore si è ben guardato dal recepire, e prevedendo la detenzione amministrativa e l’espulsione con accompagnamento forzato come una “extrema ratio” da adottare solo in casi particolare con una rigorosa motivazione individuale e non sulla base di clausole di stile come il generico “pericolo di fuga”. L’abrogazione della norma potrebbe rendere davvero residuale l’applicazione della misura dell’allontanamento con accompagnamento forzato, e dunque con ricorso alla detenzione amministrativa, ed appare coerente con le previsioni della Direttiva 2008/115/CE che non impongono affatto agli stati membri il ricorso generalizzato alla detenzione amministrativa, né una durata del trattenimento rigidamente prefissata in base ad automatismi, come si verifica invece in Italia. Ed attraverso questa via referendaria si potrebbe aprire la strada per l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina e per la chiusura dei centri di detenzione amministrativa, mentre invece dal ministero dell’interno trapelano progetti di un ulteriore inasprimento della normativa che riguarda queste strutture, con la creazione all’interno degli attuali CIE, che si vorrebbero ancora moltiplicare, di vere e proprie celle di isolamento per i soggetti che manifestano segni di ribellione. Evidentemente il fallimento dei criteri di gestione dei CIE finora adottati dal ministero dell’interno non suggerisce alcun cambio di direzione, ma solo un inasprimento della spirale repressiva, foriero soltanto di costi incontrollabili e di tragedie che si potrebbero altrimenti evitare.
Il secondo quesito referendario in materia di immigrazione riguarda l’abolizione degli articoli 4 bis e 5 bis del Testo Unico 286 del 1998 come successivamente modificato dalla legge Bossi Fini e dai pacchetti sicurezza voluti dalla Lega, il primo che richiede l’accordo di integrazione ai fini del rilascio del permesso di soggiorno; il secondo che disciplina il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”. In base a questa norma la presenza in Italia di un lavoratore straniero rimane legata all’esistenza di un contratto di lavoro subordinato, alla garanzia fornita dal datore di lavoro sulla disponibilità di un alloggio e sul pagamento delle spese di rientro nel paese di origine.
Con l’abrogazione di questi due articoli si tenta di spezzare il ricatto che costringe molti lavoratori stranieri ad accettare condizioni infime per ottenere la stipula di un contratto di soggiorno, con un evidente danno anche per i lavoratori italiani che si trovano esposti a subire la concorrenza di persone che sono costrette a vivere sotto ricatto e che perciò accettano condizioni che gli italiani non accetterebbero. E questo, soprattutto in tempi di crisi economica, accende una rivalità che rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra tra poveri.
Sono evidenti i contenuti discriminatori contenuti nelle due norme che si vorrebbero sottoporre a referendum, come è stato notato dagli studiosi, e come nella prassi si verifica ancora più facilmente, anche per l’assenza di controlli sul mercato del lavoro e per la mancanza di forme di protezione e di legalizzazione degli immigrati che sono costretti a subire il ricatto di chi gli “vende” un contratto di lavoro, per svolgere poi in nero quella attività dalla quale ricavano la scarse risorse per la sopravvivenza. E le modifiche legislative che sarebbero necessarie dopo l’abrogazione delle due norme potrebbero imporre un ripensamento generale del meccanismo del “decreto flussi annuale” come sistema per la chiamata di lavoratori dall’estero. Un sistema che si è inceppato da anni, nel silenzio più generale, con la conseguenza che la maggior parte dei migranti che entrano in Italia per lavoro sono costretti ad avvalersi di un visto turistico, per continuare poi a lavorare da irregolari, dopo la scadenza, come overstayer. Ed all’abrogazione delle due norme potrebbe corrispondere l’attuazione anche in Italia della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie del 1990, che riconosce significativi diritti fondamentali anche ai migranti irregolari. E di fronte alla crescita esponenziale della clandestinità, frutto delle politiche adottate dai governi finora in carica, si potrebbe reagire con misure di regolarizzazione permanente su base individuale, rivolte agli immigrati che comunque hanno una casa ed un lavoro, con un beneficio per le casse dell’INPS dell’ordine di diversi miliardi di euro. Un contributo utile anche per pagare le pensioni degli italiani, altrimenti a rischio. Chi difende norme che producono solo irregolarità, o dubita soltanto delle possibilità di riforma anche attraverso lo strumento referendario, rischia di contribuire indirettamente alla deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro.
Certo, alla fine rimane cruciale sui referendum, e non solo, la questione del consenso in tempi nei quali la crisi sta creando nuove lacerazioni anche tra italiani, oltre ad aggravare le discriminazioni sempre più violente nei confronti degli immigrati. Si potrebbe pensare semplicisticamente che la reazione degli italiani rispetto alla chiusura o a un forte ridimensionamento dei CIE, ad un maggiore riconoscimento dei diritti fondamentali dei migranti irregolari, e dei diritti degli immigrati lavoratori regolari, potrebbe essere negativa, al punto di tradursi in un vero e proprio boomerang. Si deve tuttavia riconoscere il fallimento delle politiche sicuritarie che in materia di immigrazione hanno caratterizzato questi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo pacchetto sicurezza ( nei confronti dei cittadini neocomunitari) adottato nel 2007, poi seguito dai due pacchetti sicurezza adottati su proposta di Maroni nel 2009 e nel 2011. Il binomio sicurezza/insicurezza non può essere legato ancora alla contrapposizione tra italiani ed immigrati, o alla distinzione tra regolari e irregolari, come se questi ultimi fossero tutti criminali, elemento introdotto dal reato di clandestinità. Se non si riuscirà a venire fuori da un vero e proprio circolo vizioso, con misure repressive che falliscono puntualmente e che però creano nuove emergenze da arginare con ulteriori strumenti repressivi, e se non si riuscirà ad individuare soluzioni capaci di favorire la legalità del soggiorno degli stranieri e più in generale l’equità e la legalità del mercato del lavoro, non resterà altro spazio se non per un ulteriore inasprimento del quadro sanzionatorio con misure sempre meno efficaci.
Come ha ben dimostrato la Corte di Giustizia nel 2011 quando ha condannato l’Italia nel caso El Dridi, per il mantenimento del reato di “inottemperanza all’ordine di lasciare il territorio” allora sanzionato con una pesante pena detentiva, che ha di fatto riempito le carceri, fino al punto di farle esplodere, ma non ha diminuito di un solo punto la presenza di immigrati irregolari nei CIE. E allo stesso fallimento sembrano destinate le proposte partorite dagli esperti del ministero dell’interno, probabilmente su pressione delle forze di polizia, per inasprire la normativa e le prassi applicate nella gestione dei centri di identificazione ed espulsione. Proposte che, se si traducessero in norme, renderebbero ancora più conflittuale la situazione nei centri di detenzione ( ed anche fuori) e porterebbero immediatamente l’Italia, ancora una volta, sul banco degli imputati davanti ai tribunali internazionali. Una ragione in più per costruire da subito un vasto fronte di proposta e di mobilitazione per una modifica sostanziale delle norme in materia di immigrazione per le quali sono stati presentati i quesiti referendari.