Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Malta, l’isola dove si arenano i migranti africani

In questi giorni la visita di Barrot nei centri di detenzione

Prigioniero incredulo dentro il centro di detenzione per irregolari di Ta’Kandja, John Oruru, un nigeriano di una ventina d’anni, ha scarabocchiato di fretta un messaggio che porge al visitatore di passaggio allo stesso modo in cui lancerebbe una bottiglia nel mare: « sono solo in mezzo a cento somali con cui non riesco a capirmi perchè non parlo la loro lingua. Faccio del mio meglio per stare bene, ma è troppo difficile per me rimanere in queste condizioni”, scrive in un inglese esitante. “ Quando un figlio chiede al proprio padre del pane o da bere, lui non gli dà una pietra, nè un serpente. Nel nome del Padre, io chiedo di essere trasferito in un altro centro”, conclude.

Ogni singolo detenuto nella prigione maltese, di suppliche come questa, ne esprime all’infinito. Un uomo di origine somale chiede ancora una volta della moglie incinta, rinchiusa in una cella vicina e che lui non vede più da tre settimane. Un adolescente mostra sul suo gomito e sulla coscia, le bruciature dovute all’incendio della sua casa, in Somalia, e chiede di essere curato. Uno dei suoi compagni di sventura, visibilmente minorenne, chiede di essere ricongiunto a sua sorella, che si trova in un altro centro, ad Hal Far. Una giovane nigeriana dal sorriso triste, Abraham Meicy, si lamenta del cibo che viene regolarmente servito dentro la prigione : pollo e patate. Tutti, comunque, attendono la stessa scadenza: poter infine “incontrare la commissione per i rifugiati” nella speranza di ottenere, su questa terra maltese di cui loro non sapevano niente prima della traversata clandestina, il diritto d’asilo.

Nell’attesa, sono 460, di cui la maggior parte giovani donne, che provengono principalmente dalla Somalia, ma anche dalla Nigeria, dall’Eritrea e dalla Costa d’Avorio, ad ammassarsi dentro questo centro “chiuso”, situato al confine con l’aeroporto nazionale.
Nove anni fa, questa vecchia caserma dell’esercito britannico è stata riconvertita in prigione per immigrati irregolari. Di recente, le autorità del paese hanno iniziato a restaurarla, cosa che ne fa, agli occhi delle ONG maltesi, una prigione di lusso se comparata alle altre due, Safi (circa 1000 detenuti) e Hal Far (500), di cui viene regolarmente denunciato lo stato di insalubrità.

Per protesta, contro la “scelta” della autorità maltesi di mettere “sistematicamente” in detenzione i nuovi clandestini, l’associazione Medici senza frontiere ha deciso di sospendere la propria missione umanitaria sull’isola. Il commissario europeo per la giustizia, Jacques Barrot, è partito giovedì per una vista di due giorni nel Mediterraneo per indagare nel merito. Arriverà a Malta venerdì sera.

L’incomprensione tra i carcerieri e i detenuti

A Ta’Kandja, gli edifici in calce viva sono stati costruiti rapidamente. Ciascuna delle celle, l’equivalente di un dormitorio, accoglie una cinquantina di migranti irregolari, e dà su una piccola corte interna circondata da late mura, accessibile ogni giorno dalle dieci di mattina alle quattro del pomeriggio. Una semplice porta in legno, chiusa a doppia mandata, le separa dagli spazi comuni. A turno,ai prigionieri vengono destinati dei lavori “domestici”. Una volta la settimana, gli uomini e le donne si ritrovano all’esterno per chiacchierare una o due ore.
A dispetto di questa apparenza di vita che si organizza, le autorità maltesi sono sempre più incalzate. Dall’inizio dell’anno, nonostante le tempeste invernali del Mediterraneo, quasi 800 “clandestini”- ovvero più di un terzo di quelli registrati durante tutto l’anno precedente ( 2.775) sono sbarcati sulle coste di Malta provenendo dalla Libia.
Molti di loro sognavano di un falso eldorado italiano, ma a causa delle correnti contrarie, della vigilanza delle pattuglie marittime o della svogliatezza dei passeurs (ai quali hanno dato tra settecento e mille dollari), sono finiti rinchiusi in quest’isola minuscola popolata da 400000 abitanti e della quale ignoravano persino l’esistenza.
Prima di potere terminare i lavori – resta ancora da circondare la corte interna con il filo spinato – il direttore della prigione di Ta’Kandja ha dovuto accogliere questa popolazione di “indesiderabili”. Sono stati aggiunti dei letti alle celle, aumentando così la promiscuità e i rischi di trasmissione di malattie contagiose: sono stati recensiti alcuni casi di tubercolosi.
Tra il carceriere e i suoi ospiti è l’incomprensione. Il primo dubita della verità delle testimonianze dei secondi che, a loro volta, non comprendono le ragioni della propria triste sorte. “non posso liberarti”, cerca di spiegare il direttore, Martin Wysen, a Meicy.
Quel che questa giovane nigeriana non sa ancora è che probabilmente Malta non le offrirà mai il futuro dorato che lei ha sognato. Gli argomenti che invoca per chiedere il diritto d’asilo – un oscuro conflitto religioso che ha messo in contrasto i suoi genitori e l’assenza di «futuro » – rischiano di non convincere la Commissione maltese per i rifugiati, l’organismo ufficiale incaricato di istruire le richieste d’asilo.
“Durante le interviste, i nigeriani ci parlano di sacre reliquie, di principesse, di cose molto complicate”, conferma il responsabile, Mario Guido Friggieri. Niente a che vedere con i racconti più precisi delle vittime somale della guerra civile o degli immigrati eritrei, arruolati di forza, a volte per dieci anni, nell’esercito nazionale.
Sulle 2692 decisioni prese l’anno scorso dalla Commissione, 1279 si sono tradotte in un diniego della richiesta di asilo. le persone rigettate vorrebbero essere espulse ma, nella pratica, è difficile effettuare queste operazioni. Solamente 19 migranti hanno avuto concesso lo status di rifugiati in virtù della Convenzione di Ginevra. 1 387 hanno invece ottenuto una « protezione sussidiaria », l’equivalente di un permesso di soggiorno, spesso accordato per un anno, ma quasi sempre rinnovato.

Fenomeni di ostracismo

Awil Ali Khadar è uno di questi fortunati eletti, anche se questo aggettivo può sembrare incongruo. Arrestato sulle coste maltesi il 30 maggio del 2008, questo somalo che è fuggito dai combattimenti della capitale Mogadiscio è stato imprigionato per otto mesi nel famigerato centro chiuso di Hal Far. «Fin dal primo momento dentro questa prigione si diventa pazzi », afferma Awil, che riscopre una libertà fittizia in questa isola mediterranea dell’Ue.
Da tre settimane ha avuto una protezione temporanea valida fino al 24 febbraio 2010, e il giovane uomo trascorre i suoi giorni dentro un campo di fortuna, tirato su di fronte alla sua vecchia prigione, con in tasca i 130euro del sostegno accordato ogni mese dalle autorità maltesi.
In questo luogo isolato, situato al margine di un deposito di container, il governo ha fatto mettere una quarantina di tende militari, sprovviste di luce e di riscaldamento, nella quale convivono una dozzina di persone. Quando scende la notte il freddo si fa sentire. In numero insufficiente, i bagni e le docce sono di una sporcizia ripugnante.
La scorsa settimana, la tenda di Awil è stata distrutta dalla tempesta e il giovane uomo ha dovuto cercare riparo dentro una baracca vicina. Su un muro della sala comune, restano attaccate delle vecchie offerte di lavoro su un foglio ingiallito. Gli abitanti del centro hanno teoricamente il diritto di lavorare, ma, a costo della crisi, i posti sono diventati sempre meno. “non so davvero cosa fare” conferma Awil.

Esiliati dal loro paese, questi rifugiati africani si imbattono inoltre in una popolazione locale che li paragona a «piccioni che si fiondano sui nostri chicchi di grano» e li accusano di occupare i posti di lavoro dei maltesi facendosi pagare due volte di meno. Questo fenomeno di ostracismo si spiega, secondo le autorità, con le misure dell’isola, su cui la densità di popolazione è una delle più elevate del mondo.
Secondo il governo, l’arrivo di un solo migrante a Malta equivale a quello di 1 129 in Germania e di 953 in Italia.

(traduzione a cura di Alessandra Sciurba)

Sui centri di detenzione a Malta vedi anche:
Malta e le politiche migratorie dell’Unione Europea. Testimonianze da un’isola – prigione.