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Roma – Dopo gli sgomberi di Piazza Indipendenza e di via Curtatone, comune e regione si passano la palla sulla questione abitativa dei rifugiati: e adesso?

Dopo gli sgomberi di piazza Indipendenza e via Curtatone, successivi ai precedenti sgomberi di Via Vannina e via Quintavalle a Cinecittà, la situazione a Roma resta poco chiara.

Le soluzioni proposte dal comune all’indomani delle proteste portate avanti dagli abitanti dell’ex Ispra – che, ricordiamolo, sono perlopiù titolari dello status di rifugiato e altre forme di protezione internazionale – sono insufficienti. Il comune, in accordo con il Comitato per l’ordine e la sicurezza, ha messo a disposizione otto unità abitative in provincia di Rieti utilizzabili per soli sei mesi per le 107 persone in “condizioni di fragilità”. Così messa, la proposta non si mostra soltanto insufficiente ma poco logica, dal momento che gran parte degli sgomberati lavora, anche se in forma precaria, nel comune di Roma e perderebbe senz’altro il lavoro se fosse costretta a trasferirsi in un altro comune. Inoltre, questa soluzione dividerebbe anche molti nuclei familiari, cosa ovviamente non auspicabile per i minori coinvolti.

Dopo un giro di ricognizione nelle suddette abitazioni e una consultazione, la comunità eritrea ha rifiutato la proposta e il sit-in è andato avanti. Attualmente è istallato in pieno centro, tra il Vittoriano (conosciuto come Altare della Patria, in piazza Venezia) e i Fori Imperiali, nel caldo cocente di fine agosto e la calca di turisti.
Il sit-in è una presenza importante ma ordinata, caratterizzata da una tenda sulla quale i rifugiati hanno fatto sventolare l’ormai celebre striscione “Siamo rifugiati (non) terroristi” e attorno alla quale si sono sistemati uomini adulti e donne, nuclei familiari e bambini con tappetini, coperte, acqua e l’occorrente per passare la notte.

Tra i rifugiati che si preparano alla permanenza in strada, si nota anche la discreta presenza di volontari e attivisti appartenenti alle varie realtà solidali presenti sul territorio romano. Questi vivono e stanno vivendo la situazione a stretto contatto con i rifugiati, non solo apportando materiale e soluzioni pratiche alla condizione precaria della comunità eritrea ed etiope, ma anche dimostrando il sostegno della cittadinanza.

Parlando con loro, si può tracciare il profilo delle persone coinvolte: scopriamo così che quasi tutti sono in Italia da molto tempo e sono/si sentono ben integrati nel loro quartiere e nella città, molti lavorano e tutti i minori vanno a scuola. Tutti, senza eccezione, presentano documenti regolari e la maggioranza possiede lo status di protezione internazionale.

Manifestazione per il diritto all'abitare. Foto di Vanna D'Ambrosio
Manifestazione per il diritto all’abitare. Foto di Vanna D’Ambrosio

Quali sono, quindi, le scuse da addurre se non si tratta di profughi, di immigrati irregolari, di terroristi?
È stato sottolineato che i 450 – 800 secondo le organizzazioni umanitarie – occupavano abusivamente gli appartamenti e le strutture che sono state sgomberate. Seppure questo sia un punto incontestabile, resta vero che la situazione è molto più complessa di quello che potrebbe sembrare in un primo momento.

Lo status di rifugiato prevede l’applicazione di tutte le norme civili, penali e amministrative vigenti in Italia e permette al rifugiato di godere di un certo numero di diritti e doveri che lo equiparano, quasi del tutto, al cittadino italiano, a esclusione naturalmente dei diritti che presuppongono la cittadinanza.

Tra questi, si annoverano: l’accesso al lavoro, il diritto al ricongiungimento familiare, il diritto all’assistenza sociale, il diritto all’assistenza sanitaria, il diritto a richiedere un documento di viaggio equipollente al passaporto, il diritto all’istruzione pubblica, il diritto di circolare liberamente all’interno del territorio dell’Unione Europea (esclusi Danimarca e Gran Bretagna) senza alcun visto per un periodo non superiore a 3 mesi, il diritto a chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza in Italia, il diritto al matrimonio, il diritto a partecipare all’assegnazione degli alloggi pubblici, il diritto al rilascio della patente di guida.

Nella lista non figura il diritto esplicitato del possedimento di una casa, sebbene va da sé che essa viene prefigurata indirettamente all’interno dell’enorme mole legislativa del cosiddetto diritto di asilo.

In particolare, la Direttiva 2011/95/UE (cd. Direttiva Qualifiche) all’art.32 sottolinea che: «1. Gli Stati membri provvedono a che i beneficiari di protezione internazionale abbiano accesso a un alloggio secondo modalità equivalenti a quelle previste per altri cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nei loro territori» e, soprattutto, che: «2. Pur autorizzando la prassi della distribuzione nel territorio nazionale dei beneficiari di protezione internazionale, gli Stati membri si adoperano per attuare politiche dirette a prevenire le discriminazioni nei confronti dei beneficiari di protezione internazionale e a garantire pari opportunità in materia di accesso all’alloggio».

Inoltre, all’art. 23, la stessa Direttiva prevede la necessità di preservare l’unità del nucleo familiare, sottolineando che l’interesse superiore del minore dev’essere sempre garantito, in linea con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989, valutando sia la stessa unità familiare sia il benessere e lo sviluppo sociale del minore. Cosa che, in una situazione come quella degli sgomberati di piazza Indipendenza e via Curtatone, non può essere attualmente garantita.

Di carattere più generale, possiamo citare anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea la quale, all’articolo 34 sulla sicurezza e assistenza sociale, ricorda che: «Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti (…)» o, ancora, all’articolo 18, che: «Il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea».

Vale la pena ricordare che, al di là dell’occupazione irregolare degli stabili, il problema dell’integrazione dei rifugiati è a monte, in quanto l’episodio non ha fatto altro che mettere in mostra le carenze strutturali e pratiche dello SPRAR – ossia del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – che garantisce (o dovrebbe farlo) interventi di accoglienza integrata sull’intero territorio italiano.
Istituzionalizzate con la legge n. 189/2002, queste misure di accoglienza sono gestite dal Servizio Centrale, a sua volta istituito dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno.
Ad esso spettano compiti di coordinamento e consulenza di tutte le realtà locali presenti nel sistema, nonché della formazione e dell’aggiornamento degli operatori che vi lavorano.

Il Sistema è costituito da una rete di enti locali che accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata che dovrebbero fornire vitto e alloggio, ma anche misure di accompagnamento, assistenza e orientamento all’integrazione attraverso la formazione di percorsi individuali di inserimento socio-economico.
Alcuni rifugiati presenti al sit-in hanno lamentato, ad esempio, la mancanza di corsi di italiano – dimostrata anche dalla difficoltà stessa di esprimersi nella nostra lingua – che, in concomitanza con l’assenza di un lavoro o di una situazione abitativa stabili e integrate sul territorio – diventa una mancanza ancora più significativa, che si traduce in una impossibilità comunicativa importante. Ancora, molti hanno sottolineato la difficoltà di trovare un lavoro a ben quattro anni dall’ottenimento dello status, cosa che non è sicuramente del tutto imputabile ai soli rifugiati quanto alle difficoltà di un intero sistema di accoglienza che scricchiola.

In questo quadro, l’inesistenza di una situazione abitativa stabile non è che l’ultimo pezzo del puzzle.
Resta da chiedersi, quindi, quanto di ciò che è accaduto e sta accadendo a Roma sia dovuto a una mancanza di alternative valide ad assicurare condizioni di vita dignitose e accettabili a degli esseri umani che, se ce ne fosse anche bisogno, ricordiamo essere protetti dal diritto internazionale.

Manifestazione per il diritto all'abitare. Foto di Vanna D'Ambrosio
Manifestazione per il diritto all’abitare. Foto di Vanna D’Ambrosio

Il tavolo prefissato tra il Comune, la Prefettura e la Regione in merito alla questione per le ore 12:00 del 30 agosto si è risolto, come la stessa comunità e i solidali temevano, con una serie di proposte inaccettabili tra cui il reiterato tentativo di attuare un “censimento delle fragilità”.

La proposta prevede, ancora una volta, la scelta di trovare una situazione abitativa adeguata per le sole persone considerate in “condizioni di fragilità fisica”, che rappresentano in realtà un’esigua minoranza delle persone in strada. Questa scelta non solo contribuirebbe, di nuovo, a dividere i nuclei familiari e a sfilacciare la comunità stessa, ma sposterebbe il punto focale della situazione verso un assistenzialismo di tipo fisico, lasciando in secondo piano la motivazione economica, nodo principale dal quale si è dipanata la stessa condizione di occupazione dello stabile. La comunità di rifugiati, col sostegno numeroso di una parte della cittadinanza romana, ha nuovamente rifiutato la proposta, pronta a dare battaglia per i diritti legittimi che spettano loro.

Un nuovo sit-in e un nuovo incontro in piazza è stato organizzato per la giornata del 31 agosto, quando circolava la voce di un incontro tra il sindaco Raggi e il ministro dell’interno Marco Minniti.
Incontro che non ha avuto luogo.
Ancora oggi, le varie parti politiche in campo si rimbalzano la palla e nessuno sa di preciso cosa verrà dopo. La situazione di Roma non fa altro che aggiungere un pezzo al caotico e disorganizzato complesso di politiche sulla questione migratoria che, ormai da anni, sembra imbottigliare l’intero paese, se non l’intera Europa.
Non ci resta che attendere ulteriori sviluppi, sperando che questo gioco non si protragga troppo a lungo.