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da La Gazzetta di Reggio Emilia del 19 giugno 2003

Dal Pakistan alla Bassa in regola con 5.000 euro

I racconti degli stranieri costretti a lavorare quasi gratis

Trentacinque anni, pakistano, è arrivato in Italia nel settembre del 2001. Con alcuni suoi connazionali divide un appartamento in affitto nella Bassa reggiana. In Pakistan ha lasciato una moglie e un figlio di 6 anni che – ogni volta che gli parla al telefono – gli chiede quando potrà raggiungerlo in Italia.
Ora lavora a Reggio e non in una falegnameria, bensì in una azienda meccanica. Ma non è questo il problema: per il suo permesso di soggiorno dice di aver pagato qualcosa come 5.000 euro, con tanto di ricevuta. Cosa c’è scritto su quella ricevuta? In pratica che con quei soldi diventava socio di una cooperativa. Una cooperativa creata ad hoc e ovviamente cosa diversa rispetto alla ditta per cui la persona effettivamente lavorava.

Chi ci parla ha già ottenuto il proprio permesso di soggiorno, ma altri suoi connazionali, anche dopo aver pagato ciò che non dovevano se lo sono visti negare.
«Qualcuno di questi» spiega l’avvocato Vainer Burani, che assieme ad altri legali sta assistendo molti stranieri nel redigere i ricorsi contro il diniego del permesso di soggiorno, «si sono visti chiedere dei soldi, nel modo più vigliacco, quando la pratica era già pronta in prefettura e il datore di lavoro doveva soltanto andare a firmare. Se non mi dai quei soldi, io non mi presento».
Altre forme di dazione non dovuta, avvengono in forma più mascherata, quasi da sembrare in buona fede.
E’ il caso, ad esempio, di una giovane badante venuta dalla Romania che, al servizio di un professionista reggiano, si è vista decurtare una busta paga, da 600 euro a 400 euro. I 200 euro mancanti, le ha detto il datore di lavoro, sono per i contributi previdenziali.
«Il problema – spiega Stefano Molteni, uno dei curatori dell’indagine di Aq16 – è che in molti casi, all’Inps non risulta nulla. In pratica non c’è alcuna pratica istruita per il tal lavoratore che pure dice di essersi visto trattenere i contributi. Ammettendo che vi sia la buona fede del datore di lavoro – dice ancora Molteni – qualora il lavoratore cambi azienda chi ci garantisce che quei soldi precedentemente trattenuti vadano a buon fine».