Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 8 ottobre 2003

Un diritto di voto contro Bossi di Cinzia Gubbini

I tempi sono maturi per concedere il diritto di voto amministrativo agli immigrati». Gianfranco Fini alza un vespaio nella Casa delle libertà, attacca la Lega e sposa la linea dell’Udc. Ma sulla Bossi-Fini non ci sono dubbi: è una buona legge, che ha anticipato le tendenze europee. Forse presto la revisione del sistema delle quote: non più numeri, ma professionisti

«Per me i tempi potrebbero essere maturi per la concessione del diritto di voto amministrativo agli immigrati: ma non scordiamoci di quello che già è stato fatto. La legge Bossi-Fini ha concesso diritto di cittadinanza a 650 mila immigrati». Queste le parole-scandalo pronunciate dal vicepremier Gianfranco Fini, intervenuto ieri a Roma per concludere la due giorni organizzata dal Cnel «Le politiche dell’Ue per l’immigrazione: diritti fondamentali, integrazione sociale, cooperazione allo sviluppo». Non che il vicepresidente sia salito sulle barricate a pugno chiuso, ma il solo riferimento al voto amministrativo – oggetto di una campagna battente da parte dei Ds e della Cgil – è bastato per scatenare polemiche a non finire in una Casa delle libertà sempre più suscettibile. E Fini non si è tirato indietro, rendendo evidente che il suo non era un riferimento accidentale bensì un preciso messaggio alla parte della maggioranza leghista ormai invisa ai nazionalalleati. Nel pomeriggio ha diramato una nota in cui non solo conferma tutto, ma addirittura dice: «Mi sembra sia ora che la Lega diventi cosciente che non essere cittadini italiani non significa essere cittadini di serie B». Insomma, non male per uno che ha legato il suo nome a quello di Bossi su una legge che il 15 ottobre andrà al giudizio della Corte costituzionale per la cifra record di quasi 300 eccezioni di costituzionalità sollevate dai magistrati. In effetti, il tono scelto da Gianfranco Fini è stato per alcuni versi sorprendente: mai come ieri si era sentita una presentazione tanto buonista della legge Bossi-Fini, su cui il vicepremier ha imperniato tutto il suo discorso nonostante, visto il tema del convegno, ci si sarebbe aspettati qualche parola di più sulle intenzioni italiane in seno all’Ue.

Persino il tema della sicurezza, immancabile nelle parole della destra quando si parla di immigrazione, ieri è diventata «non solo la sicurezza, legittima, richiesta dagli autoctoni ma soprattutto quella che chiedono gli immigrati che bussano alle porte d’Italia». Su queste premesse sarebbe nata, un anno fa – il 10 ottobre si «festeggerà» infatti il primo anniversario – la nuova legge sull’immigrazione che, dice Fini, «ha bonificato la palude», cioè i guasti prodotti dalla Turco-Napolitano. Con un ammirevole capacità di revisionismo storico, che tanto è di casa, il vicepremier ripercorre la decisione della maggioranza di «prendere in mano la questione». Non l’hanno fatto mica perché su questo era basata buona parte della campagna elettorale, ma perché «i dati del Dipartimento di sicurezza parlavano di ben un milione di persone, forse più, senza alcun diritto». E non li chiama clandestini, bensì «sans-papiers». «Bisognava agire», spiega Fini anche per combattere la xenofobia crescente nel paese, che lui definisce «infezione».

E non c’è stata solo la «svolta» sul diritto di voto, in altri un altro caso Fini ha espresso un giudizio interessante: il termine di sei mesi concesso all’immigrato per trovare un altro lavoro in caso di licenziamento «è stato pensato nell’ambito di un’economia che tira – ha detto – In una situazione di economia stagnante si potrebbe pensare a forme più flessibili».

Tuttavia, c’è poco da illudersi. Su questioni fondamentali, come ad esempio la scelta di legare l’ingresso al lavoro, con la formula del contratto di soggiorno Fini non fa un passo indietro, anzi, forte dell’involuzione europea ribadisce: «La nostra è tutt’altro che un’impostazione tardocapitalista, e il fatto che in Europa sia in discussione una risoluzione che vuole legare l’ingresso al lavoro dimostra che l’Italia è un paese all’avanguardia». E persino sulla questione del diritto di voto, nel pomeriggio ha specificato che dovrebbe essere concesso agli immigrati dotati di carta di soggiorno, che è come dire a nessuno. Neanche una parola sulle tante critiche sollevate da parte del terzo settore, del mondo cattolico e dei sindacati sulla filosofia di base della legge e soprattutto sulla politica del governo del tutto assente su tematiche essenziali quali l’educazione, la casa, la concertazione con il mondo dell’associazionismo (tutti i tavoli sono stati bloccati). E neanche sul problema posto ieri dai rappresentanti dell’area del sud del Mediterraneo (Tunisia, Marocco, Algeria) che hanno sottolineato come gli accordi bilaterali dovrebbero tenere in maggior conto i loro interessi e come essi stessi siano ormai diventati paesi di transito. Il vicepremier risponde soltanto al direttore generale di Confindustria, Stefano Parisi, che ha contestato il sistema delle quote «basato sui numeri», perché «gli immigrati non sono numeri ma persone», per questo «vogliamo vedere i curricula». Il vicepremier Fini si è detto, ovviamente, d’accordo annunciando che «forse tra pochi mesi» ci potrebbe essere una revisione del sistema delle quote. Come già accade in altri paesi europei, l’ingresso in Italia potrebbe essere riservato solo a quelle persone che assicurano professionalità appetibili per il mercato.