Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

A cura di Assunta Sarlo

Stranieri: se il diritto è di carta

Tratto dalla rivista Il Diario

F.S. il suo nome vero non lo vuole neanche dire: perché potebbero riconoscerla e un contatto ripetuto con la burocrazia le ha insegnato che è meglio di no. Eppure, lei che è moldava, vive in Italia da otto anni e mezzo, fa la mediatrice culturale, si muove per lavoro negli enti pubblici della civilissima Emilia: dopo tanti anni di regolare residenza e di un manifesto livello di integrazione che l’ha portata a fare da consulente in vari enti si è vista rifiutare la carta di soggiorno, quel documento che, dovrebbe, dopo sei anni di permanenza, fare di uno straniero un ospite meno precario di questo Paese. Motivo del diniego: F.S., che pur guadagna tre volte di più del reddito richiesto (4557 euro, ovvero l’assegno sociale), che abita in una casa corrispondente ai requisiti ed è in possesso di un permesso per lavoro «che consente un numero illimitato di rinnovi», è una co.co.co. Cioè è un normale esempio di lavoratore flessibile degli anni 2000. E così la questura le ha detto no: non perché la legge in linea di principio lo proibisca, ma perché prima di dare un titolo di soggiorno a tempo indeterminato è meglio essere tre volte severi… F.S. non farà ricorso: costa troppo, ha già dovuto penare, ora le manca poco più di un anno e chiederà la cittadinanza italiana: «Scriva anche questo, quanto tempo, quante complicazioni per ottenerla».
Carta di soggiorno: Iside Gjiergi ce l’ha, ma è veramente tutto merito suo, di un’ostinazione che l’ha accompagnata da quando – il 5 o il 6 marzo del 1991, i giorni del grande esodo albanese – con la sua famiglia sbarcò a Brindisi da una nave partita da Durazzo che si chiamava Lirija, ovvero libertà. Aveva 17 anni allora, ora è una giovane avvocatessa che lavora a Lecce: quando le hanno negato la carta di soggiorno, ha fatto ricorso al Tar e quella e altre pronunce hanno fatto sì che una circolare del ministero degli Interni che stringeva di molto le maglie per la concessione della carta di soggiorno venisse ritirata.
Storie, due tra mille, essendo la carta di soggiorno la cenerentola degli istituti in materia di immigrazione: pochi ce l’hanno, molti non la chiedono neanche o addirittura non la conoscono, altri se la vedono rifiutare con un tasso di discrezionalità che varia da questura a questura, persino i dati scarseggiano o sono difficili da reperire. Il Dossier statistico dell’immigrazione 2002 della Caritas (il prossimo che dovrebbe riportare numeri nel frattempo aumentati vedrà la luce tra pochi giorni) raccontava che a fine 2000 erano quasi 750 mila gli stranieri in Italia che potenzialmente ne avevano diritto e sottolineava «una fondata preoccupazione per la mancata incentivazione della stabilità del soggiorno». A Milano 15 mila stranieri hanno la carta di soggiorno: la platea dei potenziali beneficiari, cioè dei residenti già dal 1996 – racconta dalla federazione dei Ds Gabriele Messina – ammonta a circa 125 mila persone.
Perché parlare adesso della carta di soggiorno è presto detto: l’idea di Gianfranco Fini di concedere il voto amministrativo agli stranieri va nella direzione di rendere più stabile e più «pesante» la loro presenza in Italia. Buona idea se non fosse – ed è la sostanza, al di là di ciò che si muove sul tavolo della politica – per la quantità e l’iniquità delle condizioni poste: An pensa a un diritto a richiesta, ritiene che chi voglia esercitarlo debba dimostrare di avere reddito sufficiente, un permesso che consenta «un numero indeterminato di rinnovi» da almeno 6 anni e di non essere stato rinviato a giudizio per reati che prevedano l’arresto obbligatorio o facoltativo, ovvero moltissimi. Alcune di queste condizioni sono appunto quelle che la legge Turco-Napolitano prevede per l’ottenimento della carta di soggiorno: la legge Bossi-Fini non le ha modificate ma ha portato da 5 a 6 gli anni di residenza necessari per richiederla. La carta di soggiorno ha conosciuto vita dura sin dal primo giorno: ciò che dovrebbe essere un punto d’arrivo quasi automatico per chi soggiorna regolarmente in questo Paese da anni si è tradotta, a partire dal 1998, in una sorta di slalom, di lotteria irta di ostacoli normativi e burocratici. Capiterà così anche per il voto? Resterà un diritto difficilissimo da esercitare? Non è improbabile, sia nel caso in cui venisse esplicitamente collegato al possesso della carta di soggiorno, sia se dovesse, alla fine, passare l’elenco di condizioni voluto da An.

Si fa fatica a crederlo, ma all’inizio ci fu anche un problema di moduli per le richieste: banalmente nelle questure non c’erano. Fu necessario anche attendere il regolamento di attuazione della legge Turco: il risultato, scrisse l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione nel suo contributo al rapporto 2001 della Commissione per le politiche di Integrazione, è stato che «nella migliore delle ipotesi» il rilascio delle carte di soggiorno è cominciato nel 2000, ovvero un anno e nove mesi dopo l’entrata in vigore della legge che le istituiva. Se si vuole un dato si sappia che dei 15 mila stranieri che a Milano ce l’hanno ben 7.800 l’hanno ottenuta nel corso del 2002. E poi l’attesa: la legge prevede che il tempo di rilascio sia al massimo di novanta giorni, a Milano si parla di sei-otto mesi, così a Bologna, ancora di più altrove come a Napoli dove tra sanatoria e riduzione della durata dei permessi, grazie ancora una volta alla Bossi-Fini, le questure accumulano ritardi su ritardi. Già basta questo per essere disincentivati dal richiederla se si pensa che nei mesi di attesa lo straniero subisce tutte le limitazioni che derivano dell’essere senza documenti, a cominciare dalla possibilità di uscire e entrare in Italia.
Iside Gjiergi tutto ciò forse non sapeva, quando ha domandaato la carta di soggiorno né sapeva che il suo caso – siamo nel 2001 – avrebbe fatto da battistrada per molti, soprattutto studenti, che si erano visti dire di no dalle questure. Anche a lei dissero di no: «In quel momento io stavo per laurearmi: contemporaneamente lavoravo come interprete al tribunale di Brindisi e di Lecce e guadagnavo molto di più dell’importo dell’assegno sociale che è una delle condizioni previste per ottenere il documento. Dopo un anno e mezzo di attesa la questura disse che non poteva darmi la carta perché nei 5 anni precedenti non avevo avuto un lavoro continuativo e dunque un permesso che consentiva un numero illimitato di rinnovi. Così infatti prescriveva una circolare del ministero. Nel maggio del 2000 il mio ricorso è stato accettato dal Tar del Lazio, la circolare è stata ritirata, ma anche dopo la sentenza a Brindisi ho avuto problemi… Poi mi sono trasferita a Lecce e proprio quando stavo per ottenere la nomina di un commissario ad acta perché l’ordinanza venisse applicata è arrivato il documento…Ma quanti si possono permettere di fare ricorsi costosi quando solo avviarlo costa oltre 300 euro, quanti sanno come fare e a chi rivolgersi?». L’avvocatessa Iside ha naturalmente ragione: per una come lei che ha poi assistito molti stranieri compreso il fratello incappato in un diniego perché il suo contratto di disegnatore elettronico è a tempo determinato, cento buttano la spugna. Molti prima di cominciare.
Tutti, raccontano da Torino l’avvocato Massimo Pastore e dal Servizio assistenza immigrati della Caritas di Milano l’avvocatessa Elisabetta Cimoli, da Bologna l’avvocatessa Nazzarena Zorzella si scontrano con un’interpretazione restrittiva della legge che si traduce nel far le pulci su ognuno dei requisiti. Del lavoro abbiamo detto: se è in nero e quanto lavoro straniero è in nero l’ostacolo è insormontabile, se è occasionale, secondo quel modello di flessibilità così caro al Governo, molte questure storcono il naso. «E pensare», commenta Gabriele Messina «che l’economista Tito Boeri ha calcolato che la durata media del rapporto di lavoro di un immigrato a Milano è di sei mesi». Spesso il problema è l’alloggio, soprattutto se la carta si richiede anche per i familiari: Fethi Trabelsi ha per anni, per conto del consolato tunisino, aiutato i suoi connazionali nel rapporto con la Questura di Milano. «Ma quanta gente ha un contratto regolare di affitto? E quanti hanno i metri quadri necessari per ottenere la carta di soggiorno? Basta che ti nasca un altro figlio e il computo può sballare… Si parla di un mondo che non esiste». Messina rincara la dose: «Chi chiede il ricongiungimento familiare deve dimostrare di avere un alloggio adeguato. Qual è il motivo logico per fargli rifare tutto daccapo?» Ancora Iside, bravissima a rintracciare i cavilli: «Se chiedi la carta anche per i familiari devi riottenere nel tuo paese d’origine i documenti che attestano lo stato di famiglia. Irragionevole perché c’è già il ricongiungimento a dimostrarlo, nella pratica complicatissimo: pensa per chi viene dal Pakistan o dallo Sri Lanka». Oppure accade come ai suoi genitori: nonostante il figlio abbia un reddito sufficiente a garantire per loro (per estendere il beneficio ai familiari servono 9.114 euro l’anno), la questura ha detto di no al rilascio della carta di soggiorno. Senza motivare. Al Servizio immigrati della Caritas milanese risultano casi legati ai documenti:una donna ivoriana cui per motivi anagrafici il suo Paese non rinnova il passaporto non ha potuto ottenere la carta perché alla questura non sembra sufficiente il possesso di una regolare carta d’identità. Per non dire del problema dei precedenti penali: spesso sono denunce di poco conto poi archiviate, ma rintracciare i decreti o le assoluzioni non è sempre semplice e richiede assistenza legale.

Molto altro ci sarebbe da raccontare, ma a proposito di diritti che restano sulla carta, dicono di più due ultime storie. Quella raccontata da Trabelsi diventerà un ricorso alla magistratura: un muratore tunisino in Italia dal 1998, vittima di un incidente sul lavoro che lo ha reso invalido al 100 per cento, ha avuto riconosciuta la pensione ma non la carta di soggiorno perché nell’ultimo anno in cui ha trascorso mesi in ospedale ha un reddito inferiore a quanto richiesto. E poi il caso estremo di Pordenone. Tre stranieri si sono visti ritirare il documento perché non hanno perso il lavoro: in barba alla norma che non prevede nulla di tutto questo, ma forse in ossequio all’era del rigore che porta il nome di Bossi e di Fini. È successo nel maggio scorso, Diario ne aveva riferito: 5 mesi dopo quella carta così faticosamente conquistata non è stata loro ancora restituita.