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da Il Manifesto del 14 giugno 2004

Se moglie e buoi sono dei paesi altrui di Cinzia Gubbini

Si sono incontrati a centinaia di chilometri da casa, nel paese che hanno scelto per ricominciare una vita; si sono piaciuti e il caso li ha portati a un azzardo doppio: lavorare in Italia e metter su famiglia con una persona di diversa nazionalità. Amarsi tra stranieri in un paese straniero significa mettere in discussione continuamente quel fardello pesante che chiamiamo identità. Per Nazim e Lui Jin – lui del Bangladesh, lei cinese – è stata un po’ una lotta, ma l’amore ha fatto di più. Sarà che si assomigliano: poco attaccati alle rispettive religioni, aperti a nuove esperienze; e soprattutto con una gran voglia di sfondare.

Nazim ha cominciato in Italia vendendo frutta in una bancarella, ma intanto accumulava esperienza e amicizie. Finché non ha deciso di candidarsi a rappresentante degli stranieri nel suo municipio, e ha vinto. Complice proprio Lui Jin, che per il suo compagno ha fatto una pubblicità sfrenata. «Se non l’avessi conosciuta penso che sì, sarei stato molto diverso», dice Nazim. I due vivono insieme e il loro rapporto è basato sulla parità: «Lavo, stiro, cucino. Faccio tutto. Se avessi sposato una donna del Bangladesh, come fanno tanti miei amici che tornano per prendersi la moglie scelta dalla famiglia, sarebbe stato diverso. Da noi – donna a casa e uomo al comando. Ma con Lui Jin non era possibile». Lei, in effetti, è una dal piglio deciso. Ha 30 anni ed è praticamente cresciuta in Italia, dove la sua famiglia ha un ristorante che ha fruttato abbastanza per acquistare appartamenti e negozi a Shangai. In Cina per affari Lui Jin in questi giorni è in Cina per sbrigare affari. «Lei vuole che ci trasferiamo a Shangai – spiega Nazim, sputando un rospo che ha in gola – lì certo non avrei problemi di soldi e lavoro. E poi Shangai è una città aperta, non è un paesino cinese, dove certo non potrei vivere. Però non me la sento. Dovrei imparare di nuovo la lingua e tutto il resto. Una fatica immensa». Forse questo è l’ultimo fosso che non decideranno di saltare insieme. Ma molti altri sono stati superati. Come quando Lui Jin andò in Bangladesh a conoscere la famiglia di lui: «All’inizio mia madre voleva che Lui Jin andasse in moschea a pregare. E io a dirgli “mamma, è buddhista”. Poi si è abituata, anche perché Lui Jin è intelligente, sa come farsi voler bene». Certo, le tradizioni sono state rispettate: «Non potevamo dormire nella stessa casa senza essere sposati e così, appena arrivati, è stato chiamato l’imam e abbiamo fatto una cerimonia. Lì a casa. Quindi teoricamente siamo sposati, anche se non risulta in Italia». Un aspetto che non preoccupa la famiglia: chi emigra si emancipa prima di tutto da mamma e papà. Nasser, comunque, vorrebbe che la sua relazione con Janet, peruviana, che dura da ben 11 anni, fosse finalmente formalizzata.

Anche Nasser è del Bangladesh, ma è molto più posato rispetto a Nazim. Ha una quarantina d’anni, fa il pizzaiolo in un rinomato ristorante romano e per lui esiste solo una cosa: il lavoro. Però adesso ha anche voglia di una famiglia. Per farlo, sarebbe bene che Janet si convertisse all’islam, ma lei nicchia. Per Nasser è solo una formalità, un modo per fare le cose «per bene»; d’altronde Janet è cattolica ma non praticante: «E’ vero – spiega Janet – però ci tengo alla religione. Comunque sono andata diverse volte in moschea, ho anche iniziato a studiare il corano». Ha fatto anche di più. Dopo poco che stavano insieme sono stati uniti in matrimonio da un imam. In Sicilia, dove erano andati a trovare alcuni amici. Ora manca solo il timbro del comune italiano, l’ultimo passo, e Nasser vorrebbe fosse tutto in regola, davanti alla comunità e soprattutto alla sua coscienza. «Alla fine lo farò, perché lui ci tiene tanto – dice Janet – però preferirei che ognuno rimanesse della sua religione». Janet ha conosciuto Nasser dopo un mese che era in Italia. A presentarli, un cugino di lui che in quel periodo frequentava una peruviana, di cui Nasser conserva una pessima opinione («non era molto seria»). All’inizio, lui non ci pensava proprio a mettersi con Janet: «i peruviani sono un po’ tutti ladri», sentenzia ancora con decisione. «Ma poi ho capito che lei era diversa. E’ una donna meravigliosa: lavora molto, è buona, davvero non la cambierei con una donna del Bangladesh». Reciproca la stima: «Nasser mi piace perché è una persona molto seria, non si ubriaca, lavora molto… da questo punto di vista i musulmani sono meglio dei cattolici, sono più rispettosi, sarà perché credono di più». Ma l’esperienza di Janet è fatta di luci e ombre: «Io consiglierei di non sposare una persona di un paese diverso, quando si vive già in un paese straniero. E’ dura, passano gli anni e te ne accorgi. Le abitudini sono diverse, e anche la lingua: quando stanno tra di loro non capisci cosa dicono. Un po’ ti dispiace». Le differenze culturali possono mettersi di traverso, soprattutto quando arrivano i figli. A quel punto spesso uno dei due si deve adattare.

E’ successo così per Hassan e Giorgiana, lui bengalese lei rumena. Hassan ha 34 anni, lei 22: da sei mesi hanno un figlio. Tra loro parlano inglese, perché si sono conosciuti – in un bar dove lui lavorava – che Giorgiana era appena arrivata in Italia. Dopo due anni lei si è accorta di essere incinta e hanno deciso di sposarsi, convertendosi lei all’islam. «Bastardo è una parola bruttissima – spiega Hassan – e così sarebbe stato visto mio figlio se non ci fossimo sposati. Avrebbero detto, di chi è il figlio?». Conversione nella notte La storia della conversione di Giorgiana è particolare: «Un giorno mi sono svegliata, e ho sentito che mio figlio sarebbe nato quella notte. Sono corsa al negozio per comprarmi una vestaglia da indossare in ospedale. Poi ho detto ad Hassan: chiama l’imam. L’imam è arrivato, mi sono convertita e ci siamo sposati». Lei è ortodossa, ma dice: «Non esistono tanti dei, ma uno solo. Pregare Allah è come pregare il mio dio». Ma il loro rapporto è molto sereno e basato sulla fiducia reciproca: «Come vedi vesto in blue jeans e t-shirt, e continuerà ad essere così, non indosserò mai il velo. Non ho mai indossato neanche il sari, come fanno le donne del Bangladesh», dice Giorgiana. «E’ chiaro – fa lui – se le piace una cosa se la mette, sennò no». I due hanno le stesse idee su come deve essere gestita una famiglia: «non so se tornerò a lavorare – dice Giorgiana – comunque accetterò solo un lavoro part-time. Prima di tutto mio figlio». Non va così liscia in altri casi. Ad esempio pare che tra uomini maghrebini e donne dell’est Europa si creino spesso situazioni molto difficili, una volta nati i figli. «Conosco diverse donne polacche sposate con tunisini o marocchini o egiziani, il cui matrimonio una volta nati i figli è andato a rotoli», spiega Anna Adamczyk, mediatrice culturale della Casa dei diritti sociali, anche lei polacca. «A un certo punto avevamo anche pensato di mettere su un gruppo di auto-aiuto, poi non se n’è fatto più niente». Secondo l’analisi di Anna, gli uomini del Maghreb non tollerano che i figli crescano totalmente al di fuori dei precetti del corano: «I maggiori conflitti nascono quando è ora di scegliere la scuola. Le donne dell’est hanno idee abbastanza precise sull’educazione dei figli, e vogliono la scuola pubblica e un’educazione laica. Ma anche gli uomini del Maghreb hanno idee abbastanza precise, soprattutto sulle figlie femmine». Iniziano i litigi, e pesa non poco il fatto che queste unioni difficilmente vengono legalizzate: a volte la storia finisce con il rapimento del figlio. Alla fine, da queste chiacchiere tra innamorati dai quattro continenti emerge una verità semplice ma essenziale: se si condivide un progetto di vita, non ci sono differenze culturali o terremoti identitari che reggano.

Tra Azad, Bangladesh e Estelita, Filippine, ad esempio fila tutto liscio come l’olio. Non fanno altro che chiamarsi «amò», alla romana, e la loro attenzione è tutta concentrata sul piccolo Eros, due anni. «Per noi il bambino è tutto – dice Estelita – da anziani? Andremo dove andrà lui, quindi probabilmente rimarremo in Italia. Lui crescerà da italiano ed è giusto che sia così». Prima di conoscere la sua compagna, Azad era un po’ sbandato. E’ arrivato in Italia che era un ragazzino, senza dir niente ai suoi genitori che per due anni non lo hanno neanche voluto sentire per telefono. All’epoca divideva la casa con un ragazzo italiano, la mattina presto usciva «senza neanche fare colazione» – abitudine che gli è costata un’ulcera – per andare a una pompa di benzina e aiutare la gente a fare il pieno, racimolando qualche mancia. Ora è stato assunto da quella stazione, ha comprato una casa e sfoggia un cellulare con computer annesso. Tutto merito di Estelita, dice. Lei, ex colf di una ricca famiglia romana, ha circa dieci anni più di lui e gli ha fatto mettere la testa a posto. «Spendevo troppi soldi, e mi curavo poco», dice Azad, che ha conosciuto Estelita tramite amici in comune incontrati a un concerto. Anche se lui è musulmano e lei cattolica, le differenze sono minime: «Siamo entrambi asiatici – dice Estelita – e quindi ci capiamo. La famiglia, ad esempio, è molto importante. Ma abbiamo altro in comune: se siamo venuti in Italia è perché vogliamo costruire un futuro, migliorare le nostre condizioni, mettere da parte i soldi». «La mia vita la vedo come una scala – spiega Azad – e ogni giorno segno un gradino, un successo. Devo arrivare fino in cima, voglio avere tutto». Estelita lo frena: «Chi ha troppi soldi è cattivo e la perfezione non esiste». Incontro fra culture Stessa corrispondenza tra Karolina e Roland. Lei croata, lui colombiano lavorano entrambi nel sociale e il loro amore è sbocciato otto anni fa durante una mostra sull’immigrazione a Roma. Adesso hanno fondato un’associazione che si chiama Suamoz, come la città del sole sudamericana, e la loro vita è una continua ricerca sull’incontro tra culture. «Certo, siamo esercitati all’osservazione e alla comprensione dell’altro, questo forse ci aiuta a stare insieme – dice Karolina – dentro la nostra casa c’è il mondo, alla nostra tavola si parlano tante lingue diverse». Karolina è laureata in lettere, Roland è musicologo. Lei è arrivata in Italia per studiare qualche mese e mentre era qui è cominciata la guerra in Jugoslavia. Roland è arrivato in Italia nell’86 ma aveva già viaggiato molto per le sue ricerche. Vengono da due paesi che più diversi non si può, eppure i paralleli non mancano: Roland parla dell’omologazione della cultura spagnola e della religione cattolica rispetto alla cultura indigena, Karolina dei diktat comunisti e di come è cresciuta innamorata di Tito più per convenzione che per convinzione. «Anche se siamo nati a 15 mila chilometri di distanza – dice Roland – ogni tanto ci troviamo a condividere ricordi comuni. Le feste, quel gioco che ti regalavano per Natale a cui tenevi tantissimo». Differenti sì, ma pur sempre esseri umani.