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Una barca per l’Europa

Sulle spiagge di Lampedusa i turisti non si accorgono di niente. I clandestini arrivano di notte

“Siamo i guardiani dell’Europa. Se non li fermiamo noi, chi altro lo farà?”. Sono da poco passate le due di notte. Romeo Cavallini scruta il mare dal porto di Lampedusa. Per i tanti turisti italiani che ogni estate passano le loro vacanze in questa piccolissima isola tra l’Africa e l’Europa, Lampedusa significa spiagge incontaminate, cene a base di pesce, acqua cristallina. Ma per un milione di persone che in Libia aspettano un passaggio su una piccola imbarcazione, Lampedusa racchiude tutte le speranze di una vita migliore.
Due giorni prima del nostro arrivo sull’isola, l’Italia e la Libia hanno raggiunto un accordo sul controllo congiunto del traffico illegale nel braccio di mare che le divide. Dalla Libia riferiscono che la notizia ha seminato il panico tra i tanti in attesa: il tempo per compiere la traversata sta scadendo. Ultimamente le condizioni meteorologiche sono state particolarmente cattive a Lampedusa; neanche i traghetti hanno potuto fare le loro corse regolari dalla Sicilia.
Ma in quest’ultimo mercoledì di settembre non c’è un alito di vento. Il mare è piatto e la luna è piena. Il peschereccio blu si trovava a venti miglia dalla costa quando è stato intercettato dall’elicottero della guardia costiera, un’ora e mezzo fa. Subito le imbarcazioni della guardia di finanza e della guardia costiera hanno preso il largo. Poco dopo le due e mezza di notte, riusciamo a vedere a occhio nudo l’imbarcazione che si avvicina. “Come vi avevo detto”, commenta Romeo Cavallini. “Appena passa il cattivo tempo e torna il sereno, loro rispuntano”.
Siamo una quindicina sul molo, tra poliziotti, operatori del centro di accoglienza e piloti degli elicotteri. Il peschereccio si avvicina. Sento il rumore dei guanti di plastica che vengono indossati; un ragazzo della guardia di finanza si mette la mascherina. “Non si sa mai”, mi spiega. Il peschereccio, che non supera i 10-12 metri, si ferma per alcuni minuti a una ventina di metri dal molo. È illuminato dal chiarore della luna. Il capo della guardia costiera discute con i suoi su dove farlo attraccare. Tutto si svolge come al rallentatore, in un’atmosfera irreale, quasi senza suoni.

Sotto gli ombrelloni
Nel peschereccio sono tutti in piedi, stretti stretti, con lo sguardo rivolto nella stessa direzione. Ci stanno fissando, i volti illuminati dai lampioni del molo. Alcuni sono seduti sul tetto. Una barca, con centinaia di occhi che ci guardano, come un unico organismo vivente. E noi guardiamo loro. Passano cinque, forse dieci minuti, prima che il peschereccio, lentamente, entri in porto.
Il giorno prima avevo incontrato un gruppo di turisti italiani sulla spiaggia, sotto gli ombrelloni. Giorgio è di Modena, da otto anni trascorre le vacanze estive a Lampedusa, e mi spiega come il flusso di immigrati e rifugiati rovini la fama di Lampedusa. Dà la colpa alla stampa, che esagera. “Mica, si vedono! Io ho passato tanti giorni qui, e non li ho mai visti. Per vederli bisogna andare al molo di notte, e io di notte dormo”; mi spiega sorridendo.
Dal molo si alza un odore pesante, di sudore, di vestiti bagnati. “C’è un bambino di due anni qui!”, urla uno dell’equipaggio, quello che aveva aiutato ad attraccare la barca. Il bambino viene portato a terra. “Due anni? Ma se non avrà neanche due mesi”, urla un altro.
gp