Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sciopero dell’aiuto e responsabilità individuale

Riflessioni sulla lettera di Andrea Segre

Foto: June Rainbow, Centro Baobab - Roma 2015

di Alessandro Stoppoloni

Credo che la lettera di Andrea Segre pubblicata sulle edizioni locali del gruppo l’Espresso e ripresa anche da MeltingPot lo scorso 31 dicembre colga un punto fondamentale. L’analisi che viene proposta mi sembra molto convincente, ma allo stesso tempo vorrei aggiungere qualcosa alle conclusioni. Utilizzare i soldi delle tasse dei “Paesi ricchi” per aiutare una persona del Gambia che è costretta ad andare via dal suo Paese può essere una buona idea, ma non risolve né la nostra “crisi strutturale” né il problema delle “diseguaglianze intollerabili” presenti nella nostra società in particolare e nel mondo intero in generale.

A mio avviso solo dando una forte rilevanza alla responsabilità individuale delle persone si potrebbe riuscire a ottenere dei risultati tangibili. Infatti fare una donazione spesso corrisponde ad allontanare mentalmente il problema (qualunque esso sia) affidandolo a un’entità che dedica le proprie energie a combatterlo e che come tale sembra essere più efficace di noi.

Le due settimane in cui ho lavorato come dialogatore (ossia i ragazzi e le ragazze che in strada cercano di fermare i passanti e di ottenere delle donazioni) per una ONG hanno rafforzato questa mia convinzione. Una delle risposte di rifiuto più comuni che ho ricevuto era “lo faccio già” o “dono già ad altre organizzazioni”. Fatta la tara ed esclusi quelli che non dicevano la verità molte delle persone rimanenti mi davano la sensazione di avere già la coscienza a posto e di fare già tutto ciò che era in loro potere in base alle condizioni economiche in cui si trovavano.

Una volta mi capitò di fermare una ragazza vicino alla sede centrale dell’università “Sapienza” di Roma. Lei mi disse subito che non avrebbe fatto donazioni e poi aggiunse che comunque i suoi 10 o 15 euro al mese non avrebbero spostato nulla. Io le dissi che probabilmente era così, ma aggiunsi che, secondo me, le nostre azioni quotidiane, molto più dei nostri soldi, costituiscono il terreno sul quale agire. Se la donazione viene vista solo come una liberazione dalla sensazione di dover assolutamente fare qualcosa per risolvere un problema di coscienza essa non può che avere un effetto limitato perché il ragionamento di cui è frutto non porta a un effettivo cambiamento nei nostri stili di vita. Risposi quindi alla ragazza che avrebbe potuto benissimo non effettuare la donazione, ma che la cosa più incisiva che avrebbe potuto fare era cambiare il proprio modo di vivere, sempre che lei lo ritenesse opportuno e necessario.

La povertà di alcune aree del mondo è infatti causata almeno in parte dal nostro modo di consumare e, soprattutto, di sprecare. Lo spreco (di cibo, di acqua, di energia, di materie prime) sembra infatti essere uno degli elementi costitutivi della nostra società, complice la sensazione di poterci approvvigionare di tutto facilmente, a basso costo e quasi in qualunque momento. Perché non partire proprio da qui? Fare una donazione attraverso un bonifico o un sms è molto rapido e semplice; modificare un atto che compiamo quotidianamente da anni è decisamente più complicato. Iniziamo a sprecare meno e poniamoci come obiettivo il non sprecare nulla. Cerchiamo di riflettere in modo critico su quelli che consideriamo i nostri “bisogni”. Arrabbiamoci per come vanno le cose in Asia, in Africa o in America Latina, ma anche nel nostro quartiere o in una periferia della nostra città o in un Paese vicino di cui però non sappiamo nulla. Anziché mettere subito (e soltanto) mano al portafogli iniziamo a informarci (e a informare), impariamo altre lingue, affrontiamo le nostre diffidenze e cerchiamo di capire perché si è arrivati a una certa situazione in un certo posto. Mi rendo conto che è molto più faticoso, ma un simile atteggiamento potrebbe portare a essere finalmente protagonisti di un cambiamento tangibile. L’individuo si sentirebbe coinvolto e responsabile in prima persona, smettendo così di percepirsi come un semplice spettatore impotente di fronte ai problemi e alle tragedie con cui dobbiamo quotidianamente confrontarci.