Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Pestaggio di un poliziotto serbo nei confronti di una persona migrante (NNK)

Serbia. Una storia di sistematica violenza

Testimonianze sullo sgombero del centro di transito di Sombor del 24 aprile

Start

È una mattina come tante, fatta di profumo di fiori del giardino, caffè caldo e raccolta in ampie valigie di vestiti di vario genere, di raccolta dell’acqua nelle taniche del van e di preparazione dei kit igienici. Le mattine a Subotica non sono assopite, ci si muove velocemente e in simultanea, ognuno sapendo cosa deve fare.

Sono in Serbia, al confine con l’Ungheria, da nove giorni. Mi trovo sul campo con No Name Kitchen, organizzazione non governativa, un movimento indipendente che si trova lungo i Balcani per promuovere aiuti umanitari e azioni politiche. Ogni giorno della settimana, andiamo in diversi luoghi nei quali le persone in movimento trovano rifugio temporaneo e mettiamo a disposizione ciò che abbiamo. Prima di tutto, quindi, la nostra solidarietà e il nostro riconoscerci come tutti esseri umani.

Le attività che svolgiamo sono diverse e coprono soprattutto l’urgente bisogno e la necessità di beni primari quali vestiti adatti alla stagione, acqua potabile, kit per l’igiene personale, un sistema innovativo per farsi le docce, cibo. Inoltre, c’è la famosa “barber station”: la possibilità, per chi lo desidera, di una macchinetta per tagliare capelli e barba, con uno specchio. La dignità umana è anche potersi tagliare i capelli ma è, come spesso accade, condividere un pasto assieme seduti per terra.

Con noi, sul campo, viene sempre un’altra organizzazione di medici. Questa si occupa quindi di fornire assistenza medica di base, di urgenza e in alcuni casi di accompagnare persone in gravi condizioni in ospedale, dopo che queste sono state rifiutate dalle strutture.

È il 24 aprile, sono seduta sulla sedia di legno del tavolo della cucina, ho una tazza di caffè in mano. Il cellulare vibra, vedo una notifica e la apro. “C’è stata un’eviction. È terribile, hanno preso tantissime persone. Siamo al Sombor Transit Camp”. Sento il petto spaccarsi e sgretolarsi in mille pezzi, ma senza cadere a terra, rimanendo sospesi in aria. Iniziamo a parlare in maniera concitata assieme alle altre persone in casa: decidiamo di andare per raccogliere testimonianze di ciò che è successo. Ci proponiamo in tre, prepariamo il tè caldo, prendiamo il van e guidiamo per poco meno di un’ora.

Arriviamo ad una grande cancellata, aperta, che porta ad un viale alberato attorniato da un giardino verde. Nel giardino ci sono diversi gruppi di persone sedute per terra, tanti altri sono nel campo da basket, stanno giocando a qualche gioco. Parcheggiamo in un posto libero, tiriamo fuori il tè e, in pochi minuti, lo spazio si occupa di una cinquantina di persone. Si versano il tè caldo nei bicchieri e anche noi iniziamo a sorseggiarlo in compagnia. Chiediamo informazioni su cosa sia successo quella mattina ed arrivano sempre più persone, chi con le mani nei capelli, chi con le lacrime, una decina di persone ci mostra contemporaneamente video e foto.

Una decina di minuti trascorrono così. Poi, vediamo un’auto della polizia serba percorrere il viale e fermarsi dove abbiamo parcheggiato. Ci chiedono cosa stiamo facendo, noi rispondiamo che stiamo fornendo assistenza, che quell’area è aperta e si può stare. Ci viene detto che il van non si può parcheggiare lì, ma “poco più fuori”. Quindi, saliamo e guidiamo il van, scortate dall’auto della polizia, fino al punto in cui ci è concesso parcheggiare. Ritornare, a piedi, dove stavamo chiedendo informazioni, ci richiederà più di venti minuti.

A quel punto, riprendiamo a parlare. Ci attendono, raggruppate, sempre più persone. Mi guardo attorno e vedo uomini adulti, ragazzini, e un paio di bambini che avranno fra i sette e gli otto anni. Camminano nello spazio circostante con gli infradito. Non ho il coraggio di guardare verso i miei piedi, che calzano delle scarpe tecniche da montagna per il freddo.

Decidiamo quindi di raccogliere una testimonianza con una persona fra di loro. Mentre due di noi continuano a conversare con gli altri, mi allontano per la testimonianza, qui di seguito riportata.

Il 24 aprile si è verificato un violento sgombero nel centro di transito di Sombor.

L’intervistato è un giovane di vent’anni proveniente dalla Siria.

L’intervistato riferisce di essersi trovato con altri due uomini provenienti dalla Siria. Alle 6.30 del mattino, l’intervistato ricorda di essere stato svegliato dal rumore dell’arrivo di un gruppo di uomini in uniforme nel Centro di accoglienza. Secondo l’intervistato, il gruppo di uomini in uniforme era composto da 20 membri, vestiti con uniformi blu scuro con la bandiera serba sulla parte superiore del braccio, descrizione che corrisponde all’uniforme solitamente indossata dagli agenti di polizia serbi. L’intervistato ricorda che tre di loro indossavano uniformi nere con il distintivo della bandiera serba sul braccio sinistro e il volto coperto da un passamontagna nero, descrizione che corrisponde all’uniforme solitamente indossata dalla polizia speciale antiterrorismo serba. Secondo l’intervistato, il gruppo di uomini in uniforme è arrivato con 2 veicoli Skoda bianchi, 2 fuoristrada descritti come jeep Land Rover e 3 grandi furgoni. L’intervistato riferisce di aver identificato i grandi furgoni come veicoli utilizzati dalla polizia serba per prelevare le persone e sfrattarle.

L’intervistato afferma che gli agenti di polizia sono stati violenti fin dall’arrivo: “sono arrivati e hanno iniziato a picchiare tutti, soprattutto quelli che cercavano di scappare o di fuggire”. L’intervistato afferma: “la polizia è entrata nel campo correndo e ha iniziato a picchiare tutti con i manganelli”. Il testimone ricorda di aver visto persone correre e urlare per poi essere fermate dagli agenti di polizia e infine picchiate brutalmente con calci sull’addome, gambe e testa. L’intervistato aggiunge: “un giovane, so che è minorenne, è caduto a terra e un agente lo ha raggiunto. È stato colpito almeno dieci volte con il manganello. Ha cercato di proteggersi la testa con le mani”.

L’intervistato riferisce di aver visto tre persone che accompagnavano il gruppo di agenti di polizia e assistevano al pestaggio. Queste persone, secondo il testimone, indossavano una fascia azzurra sulla parte superiore della spalla, descrizione che corrisponde a quella indossata dagli agenti di FRONTEX.

L’intervistato ha definito queste tre persone “soldati dell’intelligence“. Secondo il testimone, gli agenti di polizia hanno usato una violenza costante nei confronti delle persone nel Centro di accoglienza, compresi donne e minori. L’intervistato ricorda di aver visto alcuni agenti di polizia forzare persone e trasferirle in bus.

Secondo l’intervistato, il numero di persone prese dagli agenti di polizia è di circa 80 persone. Il testimone ricorda che, tra queste, una famiglia è stata colpita con il manganello e dei genitori con i loro due figli sono stati spinti dentro uno dei bus. L’intervistato riferisce di aver visto gli agenti di polizia spingere senza il loro consenso tutte queste persone all’interno dei bus, che sono stati descritti come sovraffollati: “c’erano più di due persone in un sedile e i furgoni avevano due livelli”.

Secondo l’intervistato, gli agenti di polizia, oltre a picchiare brutalmente le persone, hanno anche spaccato e distrutto porte di fortuna costruite con teli di plastica e legno. L’intervistato riferisce anche che alcuni telefoni e caricabatterie sono stati distrutti. Il testimone afferma che le persone che sono state spinte con la forza all’interno dei furgoni non hanno potuto portare con sé i propri effetti personali.

L’intervistato riferisce che alle persone fermate dagli agenti di polizia non è mai stato comunicato il luogo in cui sarebbero state portate. L’intervistato ricorda di sapere dove si trovano ora le persone sgomberate perché è riuscito a contattare uno di loro che si è nascosto un cellulare. “Sono stati portati a Presevo, a 7 ore di viaggio da qui”, conclude.

Quindi, questo è quello che succede in una struttura ufficiale governativa: l’arrivo, alle prime luci dell’alba, di polizia e altri corpi speciali col viso coperto da balaclava e kalashnikov, presumibilmente anche l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. I venti uomini in uniforme prendono a calci e pugni le persone che risiedono nella struttura, ufficialmente e secondo le normative definite dallo stesso governo serbo. Tutti corrono, urlano. Ottanta persone vengono prese, stipate in un bus, senza la possibilità di prendere con loro oggetti personali o sapere dove verranno portate. Fra queste persone, una famiglia con due bambini piccoli.

Questo è ciò che accade, spesso impunemente e in maniera indiscriminata, senza alcuna spiegazione o preavviso per le persone coinvolte. Forse perché la capacità massima del centro è stata raggiunta, forse per altro, non si sa. Colpisce ancora di più che queste azioni e tattiche di violenza e violazione siano state adottate specificatamente in una struttura ufficiale.

Quel giorno, tornata a Subotica, cerco su internet notizie di ciò che è successo. Tutto tace. Violenza perpetrata sistematicamente ed indiscriminatamente, privazione di diritti umani fondamentali.

Decidiamo di pubblicare il report e i video che ci sono stati inviati 1.

Due giorni dopo la pubblicazione nelle piattaforme social, una notizia esce, il cui titolo fa: “l’Ombudsman serbo ha avviato un’indagine sulla violenza della polizia contro le persone migranti2. L’articolo cita esplicitamente Medical Volunteers International, l’organizzazione non governativa di medici con la quale siamo assieme sul campo. In particolar modo, l’articolo evidenzia il fatto che sono stati pubblicati dei video su internet della violenza perpetrata dalla polizia.

Quindi, qualcosa si è mosso. La decisione di andare, quel giorno, ha avuto qualche effetto in termini di investigazione di corresponsabilità di tattiche e pratiche che sono sistematiche.

Ma questo qualcosa che si è mosso, si è mosso perché ha cura dell’accountability dei corpi di polizia nei confronti delle persone migranti? Si sarebbe mosso pubblicamente, anche senza la pubblicazione di video e di testimonianze da organizzazioni indipendenti?

Al momento, lo stesso campo ufficiale è stato svuotato, dopo operazioni speciali contro i “trafficanti“. Ma questa è un’altra storia.

  1. Qui e qui
  2. Qui l’articolo

Lucia Bertani

Vivo a Treviso. Sono laureata in cooperazione internazionale e protezione dei diritti umani, con tesi sull’esternalizzazione dei confini europei, violazioni di diritti umani lungo la rotta balcanica ed accountability. Scrivo di dinamiche di militarizzazione dei confini, di pushback e riconoscimento di agency delle persone migranti. Sono stata reporter di violazioni di diritti umani nei confronti di persone in movimento lungo il confine serbo-ungherese.