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L’inquietante corso per operatori dell’accoglienza della Caritas di Bolzano

Un ciclo di "formazione" costato 22mila € affidato ad una società che fornisce supporto psicologico a militari, forze dell'ordine e civili coinvolti in eventi ad alto rischio

Bolzano – Leggo quest’oggi (24 dicembre ndr.) sul Corriere dell’Alto Adige del corso di formazione organizzato per operatori delle strutture di accoglienza per richiedenti asilo organizzato dalla Caritas.
Incuriosito, visito la pagina fb e il sito internet della società che ha tenuto il corso di formazione, la Copsiaf.
Tra i clienti che hanno seguito corsi di formazione della società figurano: Guardia di Finanza di Milano, 7° Reggimento Carabinieri Trentino Alto Adige Laives, Polizia Penitenziaria, Scuola Allievi Agenti Polizia Penitenziaria Verbania e Caritas Diocesi Bolzano – Bressanone. Un accostamento quantomeno bizzarro, soprattutto dopo aver letto vision e mission della società.
Figura poi un seminario di “Psicologia del Combattimento”, in cui la parte teorica “prevede l’insegnamento di: teorie, tecniche e strumenti per prevenire, riconoscere e gestire un’aggressione, cenni di psicofisiologia, vittimologia, aggressività e violenza, difesa e sicurezza personale, gestione del post evento”. Quello che però
mi lascia perplesso è il contesto in cui l’azione violenta dovrebbe prefigurarsi, ovvero “un ambiente non controllato, di fronte a molteplici scenari non familiari e con persone che non conosciamo (…)”.
Questo passaggio mi sembra molto poco attinente al lavoro sociale.

Lavoro da diversi anni in ambito sociale, prima con persone senza dimora, poi con richiedenti asilo, ora con entrambi e nel corso di questi anni ho vissuto anche alcune situazioni critiche, di forte stress, momenti di violenza. Questi ultimi si contano sulle dita di una mano e non è una questione di fortuna, ma di preparazione e prevenzione e, allo stesso tempo, capacità di instaurare una relazione di fiducia reciproca e di riconoscimento con le persone. È fondamentale, infatti, conoscere la persona e saper interpretare correttamente anche il suo linguaggio non verbale, non solo per prevenire momenti di crisi, ma soprattutto per vedere e considerare la persona, non come ospite, “utente”, inquilino, richiedente asilo, ecc… ma come persona, individuo con le sue necessità, bisogni, desideri, aspirazioni, dubbi, domande, pensieri e proposte.

Ho lavorato anche con la Caritas. Per due anni e quattro mesi sono stato un operatore sociale nella struttura di accoglienza “Casa Aaron” a Bolzano.
“Casa Aaron” ospita 130 persone nell’ex albergo, poi struttura dell’Azienda dei Servizio Sociali, “Bagni di Zolfo”, in via Merano 90/A.
Nel corso di quell’esperienza lavorativa ci sono stati anche alcuni momenti difficili. Ricordo l’episodio in cui un ragazzo dal vissuto fortemente traumatico, dopo provvedimento di allontanamento definitivo da parte del Commissariato del Governo, rientrò in struttura e in uno scoppio di rabbia distrusse l’ufficio: sedie, tavoli, computer, finestra. Il tutto durò pochi secondi.
Gli altri colleghi in servizio e io facemmo l’unica cosa sensata a nostro avviso in quel momento, mettendoci in sicurezza, ovvero uscendo dalla struttura e attendendo l’arrivo delle forze dell’ordine, sul ciglio della statale per Settequerce, tra l’asfalto rovente e i meleti rigogliosi. La collocazione della struttura Casa Aaron non consentiva, infatti, di mettersi in sicurezza al 100%.
Nella sua furia il ragazzo però non aveva sfiorato nessuno di noi e questo non per caso. Sebbene non fossimo riusciti ad aiutarlo come avremmo dovuto ad affrontare le sue difficoltà e a favorire il suo inserimento nella società, anche nella rabbia estrema, il ragazzo conservò un bagliore di lucidità “riconoscendoci”. Questo perché, chi più chi meno, avevamo instaurato con lui una relazione.

Devo purtroppo ammettere che il peggio venne dopo. Rimanemmo una settimana con la finestra rotta (i vetri pericolanti li staccammo noi). Chiedemmo di poter avere almeno delle finestre infrangibili in ufficio e passarono due mesi, con una triste trattativa tra l’equipe e i superiori, prima di vederli montati. La ditta organizzò poi una supervisione, solo per i presenti e per i parzialmente presenti durante l’evento.
Il rimando del team rispetto a questa supervisione non fu positivo, ma non ne venne organizzata un’altra o un altro momento di rielaborazione con una persona diversa, come richiesto dal team.

Personalmente ho avuto più problemi a rielaborare la distanza tra i vertici (responsabili vari, direzione, ecc…) della ditta e il team che l’episodio di devastazione dell’ufficio. Per precisione e dovere di cronaca tengo a precisare che l’unico episodio di violenza che nel corso di quei due anni e mezzo coinvolse fisicamente un ospite e un operatore, vide proprio quest’ultimo mettere le mani
addosso per primo alla persona.

Ora, non lavoro più alla Caritas, ma per quanto mi riguarda spero organizzino sempre più corsi di formazione per gli operatori delle strutture di accoglienza per richiedenti asilo e per tutti gli altri servizi e mi auguro che, qualora i collaboratori reputino fuori luogo tali corsi, abbiano la capacità e la risolutezza di esprimere il
proprio dissenso o eventuali critiche. Sento però ancora oggi il dispiacere e l’amarezza che derivano da rifiuti per formazioni proposte da noi operatori in passato: su tutte una formazione in materia di etnopsichiatria nel 2015, con un professionista di Roma, contatto tra l’altro individuato e contattato da una mia ex collega, bocciata però per ragioni di natura economica.

Resta da parte mia, in quanto cittadino e professionista impegnato in ambito sociale, la perplessità rispetto ad un corso di formazione appaltato a un’agenzia di professionisti nell’ambito della sicurezza. Sembra quasi che ci si voglia appiattire sulle posizioni securitarie tanto in voga ultimamente per rassicurare il cittadino
medio, che si sente minacciato da quelli che sono e saranno i nostri futuri vicini di casa. La domanda che sorge, inoltre, è perché tale corso sia stato proposto solo agli operatori delle case di accoglienza per richiedenti asilo? Gli operatori e le operatrici della struttura residenziale per detenuti ed ex detenuti, ad esempio, non possono trovarsi in situazioni di rischio analoghe? E quelli che ospitano persone
senza dimora? Queste sono domande che forse dovrebbe fare un giornalista.
Non avendole poste, le pongo io. Forse i richiedenti asilo sono più “pericolosi”? Dispiace perché il messaggio che passa è proprio questo.

Spero che in futuro per gli operatori impegnati nell’accoglienza vengano organizzati e proposti corsi di formazione anche in ambito legale, momenti per potenziare la loro capacità di instaurare una relazione significativa con le persone. Questo perché penso che questi siano molto più utili, sia per accompagnare in
maniera più consapevole le persone nel loro percorso di integrazione e inserimento nella nuova società, sia per fornire agli operatori e alle operatrici maggiori strumenti per prevenire eventuali momenti di tensione o di violenza.

Alessio Giordano