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L’insostenibile leggerezza del commento sui migranti

«…le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre.»
(Carlo Levi, Le parole sono pietre)

Negli ultimi giorni il Mediterraneo è stato protagonista indiscusso della stampa europea, con l’ennesima tragedia a schiumare di sangue le onde di quella che è divenuta la più pericolosa frontiera del mondo contemporaneo. Buona parte dell’informazione ha come suo solito informato i fatti a caldo, inseguendo in modo grottesco l’estetica del titolo e ammorbando l’atmosfera di rappresentazioni della sofferenza svuotate di ogni seria riflessione.

Contemporaneamente migliaia di spettri parlanti, con la loquacità tipica dell’anonimato, hanno invaso di commenti i siti dei grandi giornali d’Europa. Mai come durante la settimana passata, infatti, la questione migratoria ha suscitato opinioni e giudizi da poche centinaia di battute: quasi a suggerire che uno dei crocicchi più complessi dell’odierna geopolitica si possa risolvere a colpi di sobrio pragmatismo.

Gli ultimi affogati nel Mediterraneo sono stati così il bersaglio immobile degli internauti di mezza Europa. Navigando in questo mare di sentenze, scorrendo pagine e pagine di commenti ai fatti del 19 aprile, si rimane infine colpiti dall’univocità dei pareri e dall’asfissiante ridondanza dei punti di vista. E poco importa che le lingue siano diverse o strettamente imparentate perché non conoscono il disagio della traduzione le boutades, i punti esclamativi, i caratteri tutti maiuscoli.

Nei quotidiani spagnoli, inglesi, francesi, italiani, olandesi, belga, scandinavi e tedeschi l’elenco dei termini più diffusi per raccontare la tragedia di centinaia di persone non lascia spazio alla varietà: “ISIS”, “terroristi”, “terrorismo”, “Islam”, “HIV”, “Boko Haram”, “tasse”, “contribuenti”, “rimpatrio”, “chiusura”, “blocco” e affini si sono letteralmente sprecati negli ultimi giorni. Ma anche sorvolando sulle singole parole, sempre suscettibili di facili estrapolazioni, una quantità impressionante di commenti alla stampa europea, o meglio a quella parte d’informazione che a livello comunitario ha maggior rilevanza, ha presentato tendenze comuni.

La difesa degli interessi nazionali è stata la ricorrenza più fortunata: il freddo calcolo economico da tempi della crisi (con tanto di equazioni) ha infatti oltrepassato anche le più ripide barriere linguistiche. Molto diffuse sono state anche le invocazioni di “precedenza nazionale”, il popolare “non sono razzista ma” che inserisce l’accoglienza in una piramide di valori alla cui sommità siedono gli interessi della propria famiglia ed eventualmente della patria. Si sono sprecano i commenti inneggianti all’assedio, all’invasione, alla criminalità dilagante dovuta ai migranti, al presunto terrorismo che migliaia di profughi porterebbero con sé, anche nolenti, come una specie di malattia. In molte, troppe, opinioni si ritrova infine la violenza di un razzismo frutto della più banale ignoranza: un’insipienza che rivive negli strafalcioni grammaticali e nelle oscenità sul colore della pelle, sulla cultura, sulla presupposta razza di chi arriva dal mare.

Merita una breve analisi il panorama italiano. Sull’onda delle proteste contro la corruzione dilagante della classe politica, infatti, ha dominato nei siti nazionali una vera e propria traslazione del problema. Morti e rifugiati sono diventati il guadagno di un “sistema corrotto”, il frutto di un complotto piduista, la miniera d’oro delle cooperative rosse e della criminalità organizzata. In questa fiumana di dichiarazioni sommarie contro la politica e la “casta”, si è persa la dimensione umana delle tragedie dei barconi e del fenomeno migratorio in generale. La questione dei rifugiati viene dunque rimossa quando sembra se ne parli maggiormente e ogni citazione rimane priva di una qualsivoglia sostanza.

E proprio questo allontanamento, non estraneo a movimenti politici trasversali di recente fattura, porta infine a teorizzare non-soluzioni tra le più insulse: il blocco navale, i campi nei paesi di partenza, il famigerato “aiutiamoli a casa loro” ed altre ipocrisie similari.

Ma non ragioniamo per sommi capi. La rete è sì uno spazio virtuale quotidiano per una parte dei cittadini europei. Non tutto il mezzo milione di abitanti, però, batte su altrettante tastiere. Neanche è possibile affermare che l’opinione pubblica europea, questa nebulosa nella quale vige il principio d’indeterminazione, sia orientata verso un determinato atteggiamento nei confronti di quanto successo. Ciò detto, è altrettanto vero che vi siano sacche d’intolleranza dominate da eccessiva semplificazione e profonda ignoranza nei confronti del fenomeno migratorio.

Per questo motivo pensare ai commentatori occulti come a perdigiorno dal tasto facile è riduttivo: esistono luoghi, virtuali quindi reali, caratterizzati da un substrato sensibile alle menzogne sulle migrazioni e alle sofisticazioni del linguaggio. Una parte della sfera pubblica europea, infatti, non nasconde di temere sempre più lo “straniero”, maturando ostilità più o meno marcate nei suoi confronti. Le destre europee, i movimenti neonazisti e neofascisti, le fazioni più conservatrici dei centri-sinistra continueranno perciò a rappresentare la proiezione di sentimenti xenofobi. E fino a quando vi sarà atmosfera favorevole, le istituzioni non muoveranno un passo verso il cambiamento radicale delle politiche migratorie, optando per decisioni politicamente meno dispendiose quali il rifinanziamento di Frontex, l’irrigidimento delle norme comunitarie, la militarizzazione dei confini, la creazione di nuovi capri espiatori e il rifiuto delle responsabilità.

Il lavoro da fare è enorme. L’unica invasione che rischia l’Europa è infatti quella dell’intolleranza, dell’indifferenza e delle atrocità che ne seguirebbero. Intolleranza che già si manifesta nei campi di detenzione, nella criminalizzazione del “clandestino”, nelle vittime di polizia, nei suicidi nella detenzione: tutti esempi lampanti di come questo continente triste non abbia voluto né saputo ascoltare le voci di chi bussa alle sue porte. Indifferenza, corrosiva e sottile, di chi ignora invece l’istinto naturale dell’empatia, magari giudicando a mezzo di una tastiera e perdendo quello che si può comprendere solamente dall’intensità di uno sguardo o dal timbro di una voce.

Leggendo i commenti all’ultima tragedia nel Mediterraneo appare tutta l’urgenza di un nuovo linguaggio che distrugga alla base slogan menzogneri e speculazioni elettorali: una forma del parlare che getti le basi per un dialogo sincero con i popoli che entrano nella Fortezza.

Pensiamoci in misura anche maggiore durante i festeggiamenti antifascisti, dato che la Resistenza è stata, contro l’indifferenza e l’intolleranza, prima di tutto un atto di empatia nei confronti degli oppressi, dei deboli, degli ultimi.