Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 31 marzo 2005

Regina Pacis, la strana morte di un giudice

di Antonia Massari

LECCE
Era il 15 marzo di cinque anni fa quando ai carabinieri di Melendugno si presentò una scena davvero raccapricciante: l’uomo giaceva vicino l’abitacolo della sua automobile, un’Alfa 33 rossa, con l’addome dilaniato da quattro colpi di fucile da caccia. Gli intestini erano in parte rovesciati sull’asfalto, alla caviglia destra era legata una fune, tra le mani stringeva ancora gli occhiali da vista. Per il resto, poche altre tracce e soprattutto nessun testimone. L’avvocato Oronzo Potì, 59 anni, da qualche tempo giudice di pace, era morto solo come un cane. Se n’era andato tra le rocce friabili della scogliera del mare di Roca, una piccola frazione balneare del basso Salento. Era morto così solo che il suo caso, poche settimane dopo, fu archiviato come suicidio. E siccome anche i suicidi necessitano di un movente, in molti lo rinvennero in un drammatico episodio verificatosi poco prima della sua morte.

Dieci coltellate nell’Oasi di Lodeserto

Il giudice Potì, mezz’ora prima di morire, era nell’Oasi della Madonna di Roca, una struttura della fondazione Regina pacis, diretta all’epoca da don Cesare Lodeserto, il prete salentino oggi accusato di sequestro di persona e violenze dalla procura di Lecce. Per l’ennesima volta Potì era andato a trovare la sua giovane compagna rumena, Beatrice Vasiliu, 26 anni. Dalla loro relazione, due anni prima, era nata una bambina, ma Beatrice e il giudice di pace s’erano lasciati già da qualche tempo: sei mesi prima lei lo aveva denunciato per maltrattamenti ai carabinieri, i quali l’avevano affidata al centro di don Cesare, mentre il tribunale dei minorenni, a sua volta, affidava la bambina alla madre. Dopo la separazione, Oronzo Potì era solito andare a trovare la sua ex famiglia nell’Oasi della Madonna: incontri di routine, strazianti scene da un matrimonio distrutto, magari qualche diverbio, ma, fino ad allora, niente di più. Quel pomeriggio, però, l’incontro andò diversamente: accecato dall’ira, Potì accoltella la compagna dieci volte, tentando di ucciderla.

Nel centro, a quanto pare, ci sono soltanto due persone. Ognuna, a proprio modo, prova a fermare Potì: Lorenza Simeoni, al secolo suor Candida, e una cittadina irachena, Marya Youkama. E’ quest’ultima, in particolare, che riesce ad impedire l’omicidio: prima inveisce contro Potì, tentando di farlo desistere, poi si frappone tra lui e la donna, provando a disarmarlo. In seguito affermerà di essere effettivamente riuscita nel suo intento: «L’ho disarmato, ma, per far questo, sono rimasta ferita alla pancia». Nel frattempo suor Candida si precipita al telefono per avvertire don Cesare Lodeserto, che si trova, in compagnia del tenente dei carabinieri Giovanni Naselli, nel vicino cpt.

Il sacerdote l’ha confermato esattamente quattro mesi fa, il 30 novembre 2004, quando per la seconda volta è stato ascoltato dagli inquirenti: «Nel marzo del 2000 – dice – mi telefonò suor Candida, persona preposta alla struttura denominata Oasi Madonna di Roca» e mi informò che poco prima una donna rumena, ospite di quel centro, era stata accoltellata dal marito. Telefonai immediatamente al 112, chiedendo l’intervento di una loro pattuglia e dell’autoambulanza. Subito dopo mi recai presso il centro con il tenente Naselli, che si trovava con me al Regina pacis. Al mio arrivo notai un’autovettura di colore rosso che si allontanava in direzione di Torre dell’Orso. Non c’erano altre auto che la seguivano».

Sembra l’automobile di Potì: il giudice sta fuggendo dal centro in direzione di Torre dell’Orso. Tra il momento dell’accoltellamento e la telefonata di don Cesare al 112, sembra che siano passati soltanto pochi minuti: il centro, infatti dista dal Cpt all’incirca un chilometro. Don Cesare e il tenente Naselli riescono a intravedere l’automobile rossa che fugge, tanto che don Cesare precisa: «Non c’erano altre auto che la seguivano». Mezz’ora dopo il corpo del giudice è ormai privo di vita.

A testimoniarlo è lo stesso don Cesare: «Dopo pochi minuti – continua Lodeserto – mi telefonò il maresciallo Martina, comandante della stazione dei carabinieri di Melendugno, il quale mi riferì che avevano rintracciato l’aggressore a Torre dell’Orso, privo di vita. Mi recai anch’io con il tenente Naselli in quella località e constatai la presenza dell’autovettura rossa che avevo già notato in precedenza. L’auto presentava la portiera anteriore sinistra aperta. Ricordo che vi era un fucile poggiato sul piantone anteriore sinistro dell’autovettura, con il calcio all’interno del veicolo e con la canna in prossimità del corpo esanime dell’uomo, che giaceva supino sul marciapiede, a brevissima distanza dall’auto». Si tratta, più o meno, della stessa scena descritta dai carabinieri. Più o meno. Perché gli stessi carabinieri fanno qualche confusione: all’inizio raccontano che il fucile si trovava tra le gambe del giudice. Poi precisano che si trovava con il calcio all’interno dell’abitacolo e la canna rivolta verso l’esterno, versione suffragata dai rilievi fotografici. Non riferiscono neanche della fune legata alla caviglia, a eccezione del maresciallo Martina, che descrive dei pezzi di corda di misure differenti. A questo punto occorre riepilogare: Potì fugge dal centro e in pochi minuti si suicida sulla costa con un fucile da caccia. Quattro colpi all’addome. Non ci sono testimoni. Nell’auto i carabinieri rinvengono anche un pugnale da sub ma non riferiscono se, per caso, sia sporco di sangue. Il pm Donatina Buffelli della Procura di Lecce, poche settimane dopo, archivia il caso come suicidio.

Legittimi sospetti

Perché un uomo che decide di suicidarsi si spara all’addome e non, per esempio, alla testa o al cuore, che sono per antonomasia i centri vitali? E soprattutto: è plausibile che Potì sia riuscito a uccidersi con un fucile lungo un metro e 34 centimetri, esplodendo, per di più, ben quattro colpi? L’avvocato della famiglia Potì, Silvio Caroli, chiede immediatamente di approfondire la questione. «Quando i familiari si sono rivolti a me ho chiesto che il caso fosse acquisito come omicidio a carico di ignoti. La pm ha rigettato la richiesta: trattandosi a suo avviso di un suicidio, non era il caso di avviare indagini preliminari. Successivamente il procuratore generale la ha ordinato di iscrivere il caso come omicidio a carico di ignoti. La pm esegue l’ordine e, nello stesso giorno, chiede al gip l’archiviazione. Allora presento un’opposizione: ci rivolgiamo al gip, che ordina una serie d’indagini. Bisogna verificare se si tratti di omicidio o suicidio ed è necessario ascoltare sia le persone intervenute subito dopo l’accoltellamento, sia quelle che hanno visto il cadavere. Forniamo i numeri di telefono del giudice e della sua compagna per verificare chi li avesse chiamati in quel frangente. La compagna è stata ascoltata due volte, ha persino detto di non sapere chi fosse questa suor Luisa, cioè quella che ha avvertito don Cesare. Per il resto ha confermato l’accoltellamento». Ad eccezione del maresciallo Martina, però, i carabinieri non sono mai stati ascoltati: «Non si è potuto procedere in quanto il tenente Naselli presta servizio a Giulianova, in provincia di Teramo, mentre il tenente Campione è in forza al comando di Campobasso».

Non sembrano distanze inaccessibili. Così come non è poi lontana suor Candida, che nessuno ascolta perché è a Roma. Di Marya, nel frattempo si sono perse le tracce, mentre Beatrice Vasiliu sembra essersi trasferita in Svizzera. Insomma, morto Potì, spariscono quasi tutti. «Trovo incredibile che queste persone non siano mai state ascoltate: sulla ricerca dell’autore del delitto non è stata fatta nessuna indagine. All’inizio lo posso capire: si pensava fosse un suicidio. Ma poi…».

Un suicidio inverosimile

Poi succede che una perizia balistica esclude si possa trattare di suicidio: il fucile semiautomatico può esplodere al massimo tre colpi. Per il quarto, bisogna ricaricare: Potì, dopo tre proiettili nell’addome, con quale forza avrebbe potuto ricaricare un fucile lungo un metro e 34 centimetri? Non è l’unico interrogativo: «Che senso ha la corda ai piedi?», continua l’avvocato Caroli, «perché nessuno ne parla, almeno all’inizio? E poi il coltello: qual è, quello con cui ha tentato di uccidere la moglie? E allora perché i carabinieri non accennano a un coltello insanguinato? E che fine ha fatto il pugnale con cui ha aggredito la moglie, visto che la donna irachena dice di averlo disarmato?». «Se ben ricordo – dice uno dei carabinieri – mi fu consegnato da Marya Youkhama…». Ma in tanti hanno i ricordi confusi. I carabinieri sostengono di non aver spostato nulla. Giuseppe Barone, l’uomo incaricato di prelevare il cadavere, invece dice: «Pioveva, la salma e era già coperta da un lenzuolo bianco, e i carabinieri maneggiavano un fucile da caccia». Barone, peraltro, non rammenta alcuna corda. Siamo sprofondati nel più classico dei gialli. Nei giorni scorsi, il pm Buffelli, ha nuovamente richiesto l’archiviazione: «Ci opponiamo – conclude l’avvocato Caroli -. L’indagine è parzialmente completa. Ora sappiamo che si tratta di omicidio e bisogna riavviare le indagini, con tutti i limiti della scena del delitto, che mi sembra manipolata. Ma dobbiamo provare a cercare l’autore, ascoltare tutte le persone che fino ad ora non sono state sentite». E se il procedimento giudiziario dovesse essere intrapreso, sarebbe il quinto ad avere come scenario di partenza lo stesso luogo: il Regina Pacis. Un record.