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Regolarizzazione – Chi ha ottenuto il rifiuto in base a precedenti penali può richiedere l’esame della domanda in base alla nuova sentenza della Corte Costituzionale?

Si tratta di un quesito collegato ad una notizia commentata recentemente in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 del 18 febbraio 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 7, lettera c), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e dell’art. 1, comma 8, lettera c), del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195 (Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari), convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002, n. 222, nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla presentazione di una denuncia per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 cod. proc. pen. prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza.
La Corte Costituzionale non ha dovuto fare un grosso sforzo interpretativo per dichiarare la illegittimità delle norme che relativamente alle colf, alle “badanti” e ai lavoratori delle altre categorie, impedivano la regolarizzazione in assenza di una semplice denuncia o, comunque, in assenza di una condanna definitiva. La violazione del principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva stabilito dall’art. 26 della Costituzione, come pure la violazione dell’obbligo (art. 3 Cost.) di trattare tutti i cittadini nello stesso modo – quindi di presumere tutti innocenti fino a sentenza definitiva -, erano fin troppo evidenti.
Ma ora ci viene giustamente chiesto cosa può fare il ragazzo di cui al quesito.

Premettiamo alcune considerazioni di carattere generale per tentare di fornire una risposta al quesito in oggetto.

Di fronte ad una sentenza di questa portata il Governo dovrebbe sentire il bisogno di rimettere mano a tutti i provvedimenti di esclusione dalla regolarizzazione che, a suo tempo, erano stati emanati; si precisa però che già si è fatta molta fatica a far ottenere il permesso di soggiorno a chi aveva fatto ricorso ed aveva ottenuto delle ordinanze di sospensione da parte dei Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) i quali, avendo rimesso la questione alla Corte Costituzionale, in attesa della regolarizzazione avevano intanto disposto che il provvedimento fosse sospeso e che fosse rilasciato il permesso di soggiorno valido per lavoro. Anche per queste persone non è stato sempre facile ottenere il permesso di soggiorno e andare a lavorare in regola, figuriamoci per chi non ha fatto ricorso!
Il Ministero dell’Interno dovrebbe sentire la necessità di rimettere in gioco queste pratiche e, quindi, dovrebbe osservare d’ufficio un precetto affermato dalla Corte Costituzionale, accettando (sia pure a malincuore) il fatto che quelle norme che erano state applicate per escludere gli interessati dalla regolarizzazione sono illegittime; il governo dovrebbe teoricamente dare disposizioni agli uffici affinché si disponga il riesame di tutte queste pratiche che dovrebbero, quindi, essere “riesumate” e teoricamente determinate con quell’autorizzazione che originariamente era stata negata. È però vero che gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale non sono assolutamente automatici, ma hanno anche un relativo valore retroattivo, quindi quando la sentenza della Corte Costituzionale abroga una legge ciò ha una portata retroattiva, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, per tutti quei rapporti che non possono intendersi come esauriti. Questo significa che la sentenza della Corte Costituzionale, sempre secondo la Corte, dovrebbe avere effetto su tutti quei rapporti per i quali non sia intervenuta la decadenza dall’azione giudiziaria o la prescrizione o il cosiddetto giudicato; ciò a dire tutte quelle questioni che ancora possono essere messe in discussione, ovvero tutte quelle controversie che ancora sono in atto o che possono ancora essere attivate in quanto non siano decorsi i termini di impugnazione. Quindi nelle situazioni ancora pendenti (non ancora definite), è possibile rimettere in gioco l’interpretazione precedentemente adottata e, secondo la sentenza della Corte Costituzionale, ottenere una diversa soluzione.
Tuttavia in caso di un provvedimento di rifiuto della regolarizzazione per il quale non sia stato fatto ricorso, e per il quale non vi sia un ricorso pendente, non possiamo dire che l’effetto della Corte Costituzionale sia automatico; possiamo però consigliare all’interessato di fare una richiesta formale di riesame – inoltrata presso l’ufficio competente, ossia l’UTG presso la Prefettura che a suo tempo aveva emanato il provvedimento di diniego di regolarizzazione – in cui si fa presente che, eccettuata la denuncia per un reato di modestissima entità, tutte le altre condizioni per la regolarizzazione c’erano e ci sarebbero tuttora. Eventualmente potrà essere fatto ricorso contro un eventuale rifiuto di riesame o contro la conferma di esclusione dalla regolarizzazione, ma ci auguriamo che ciò non sia necessario. La soluzione più opportuna e più corretta da parte del governo dovrebbe essere, giova ripeterlo, quella di rimettere in gioco d’ufficio tutte queste pratiche negli uffici periferici e di riesaminarle alla luce di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale.
Ci permettiamo però di dubitare che il governo valuterà l’opportunità di disporre un esame di questo genere; sarà pertanto onere dei diretti interessati tentare di rimettere in gioco la partita inoltrando delle formali istanze di riesame della pratica.