Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 19 gennaio 2010

Se lo sciopero dei migranti spiazza i sindacati di base

Cobas, Cub e SdL non sono ancora pronti ad incrociare le braccia

Starci, oppure no. Starci, «ma con modalità da definire». Starci, ma solo per un’adesione di facciata. Insomma, ma come si fa ad aderire a uno sciopero senza scioperare? Questo dilemma – perché tutti sono d’accordo nel dire che a Rosarno è accaduto l’indicibile, e ci mancherebbe altro… – sta mettendo in imbarazzo tutte le organizzazioni sindacali. Sono loro ad essere a stretto contatto con il mondo del lavoro, eppure sono proprio loro che forse non riescono a cogliere quanto questo mondo sia più composito rispetto alle realtà pur importanti dove il sindacato ha ancora spazi di agibilità. O, se non altro, a non cogliere la portata storica del primo sciopero degli immigrati in Europa.

Passi per la Cgil, che sbianca solo a sentir parlare di «sciopero dei migranti» per il primo di marzo (un lunedì, poi!), ma i sindacati di base come stanno reagendo all’idea di declinare il concetto di sciopero in forme, diciamo così, più sportive e coinvolgenti di quelle tradizionali? Anche loro ci stanno ragionando (decine di assemblee sono convocate su tutto il territorio), ma anche loro frenano, distinguono e puntualizzano. Sono prudenti, temono l’effetto boomerang e per ora si limitano a drizzare le antenne per captare cosa si sta muovendo nel sottobosco sempre più agitato che invece preme, forse anche ingenuamente, per un’azione forte, antirazzista, e una volta tanto anche sopra le righe (l’idea è nata nella Francia di Sarkozy ma ormai sta raccogliendo adesioni anche in altri paesi europei); la scorsa domenica, a Milano, durante la presentazione del Comitato Primo Marzo, senza di noi, in una sala piena anche di stranieri, si è fatto vivo il comitato spagnolo, sono stati presi contatti con i greci, e diverse iniziative in preparazione in tutta Italia hanno cominciato a tingersi di giallo (il colore simbolo della giornata antirazzista).

Eppure, a più di quaranta giorni dal primo marzo, i Cobas pronunciano un no argomentato ma abbastanza deciso. «Non abbiamo ricevuto alcuna sollecitazione dai nostri iscritti dell’industria e della grande distribuzione – spiega Vincenzo Migliucci – quindi significa che per ora non è arrivato un segnale chiaro in questa direzione da parte dei lavoratori. Noi stiamo preparando uno sciopero generale per il 12 marzo per sollevare il problema della disoccupazione e della crisi, è un percorso che tiene insieme le lotte dei precari, lo sfruttamento del lavoro e anche il razzismo». I Cobas per il prossimo 6 febbraio hanno anche organizzato una giornata nazionale dedicata ai diritti dei lavoratori stranieri, con «carovane itineranti» che andranno a denunciare localmente i luoghi del capolarato e del lavoro nero. Bene. Tutto condivisibile, ma basta questo darsi da fare per scansare l’appuntamento del primo marzo? «In questo momento – ribadisce Migliucci – lo sciopero del primo marzo è un’iniziativa che non riusciamo proprio a mettere a fuoco, e poi c’è il rischio che venga percepito come una sorta di mobilitazione separatista, e sarebbe molto grave».
Abdel Larhzal, marocchino che vive in Italia da 22 anni, è il rappresentante della Cub a Gallarate (provincia di Varese, terra con la più alta concentrazione di leghisti del mondo). Ci tiene a precisare che parla solo a titolo personale – perché il 30 gennaio gli iscritti di tutte le comunità straniere si ritroveranno per decidere se aderire o meno allo sciopero del primo marzo. Abdel ha le idee chiare, fin troppo, quindi, se qualcuno ha solo bisogno di una ventata di ottimismo, si rivolga altrove. «I sindacati e i partiti in questi anni ci hanno deluso comportandosi con noi stranieri in modo vergognoso – dice soppesando le parole – e poi dobbiamo renderci conto che siamo lontani anni luce dalla Francia. Personalmente io non sono d’accordo con uno sciopero soft perché non servirebbe a nulla». Detta così, sembra una resa. «Non siamo pronti, il mio non è un segnale di resa solo perché noi non abbiamo nemmeno iniziato la battaglia. Dobbiamo raccogliere i pezzi e avviare un lungo percorso». Eppure intorno ad Abdel qualcosa si muove. «Le persone che ho contattato sono tutte favorevoli allo sciopero, lo vogliono fare, devo ammetterlo». Quanto a Rosarno, Abdel taglia corto: «Quella è solo la punta dell’iceberg, non fatevi impressionare, persone che mangiano e che dormano fra i topi, sfruttate, sottopagate, sono dappertutto sotto i nostri occhi, qui, ogni giorno». Appunto. «Ma dico che non siamo pronti».

Triste ammetterlo, ma a vent’anni dai primi fenomeni migratori in Italia «tutte le realtà, politiche o sindacali, sono tremendamente indietro nell’organizzazione dei migranti». Parte da qui la riflessione di Mario Prati (SdL Milano), che un’idea comunque ce l’ha per cominciare a ragionare in positivo verso il primo marzo.

«Bisognerebbe essere capaci di organizzare uno sciopero nazionale contro il lavoro nero e la precarietà selvaggia – dice – e allora potrebbero scioperare insieme bianchi e neri, non possiamo permetterci che una iniziativa dei migranti venga percepita con ostilità dai lavoratori italiani. Dovremmo far passare il concetto che tutti gli sfruttati pari sono, dobbiamo muoverci con le assemblee. Poi, bisognerebbe vincere la diffidenza della Cgil, e fare un’operazione, diciamo così, di verità: chi lo dice apertamente che le cooperative bianche o rosse fanno man bassa di questi lavoratori sfruttati e sottopagati? Nessuno. Perché non usciamo da questa ipocrisia?». Dunque, riassume Prati, coinvolgere il precariato, e muoversi con azioni decise sul campo. «Con le ronde, per esempio». Le ronde?! «Sì, bisogna far esplodere le situazioni laddove lavorano gli sfruttati, basta andare nei centri logistici di un qualunque hinterland. Bisogna mettersi lì davanti, intervenire, denunciare le situazioni scandalose all’ispettorato del lavoro, e poi andare a presidiare anche l’ispettorato del lavoro, che non fa nulla. E lì che i migranti sono schiavi. Se ne stanno isolati, divisi in gruppi, i marocchini da una parte, i filippini dall’altra, e se capita di riuscire a bloccare la produzione con qualche lotta, quando scende la notte arrivano altri cento stranieri e per 50 euro finiscono il lavoro. Queste sono le situazioni che dobbiamo fare esplodere, da qui al primo marzo».
Mancano quaranta giorni. Sono pochi. Ma sono anche tanti.