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Dalla guerra al limbo

Parlare di futuro con i rifugiati di Samos

Foto: Ekathimerini

di Elettra Repetto

Isola di Samos, Grecia – Mi chiamano per mostrarmi un video. Sono bambini feriti, sanguinanti. Sembro essere la più impressionata. Non voglio vedere. Questi video mi ricordano con chi parlo, mi ricordano che cosa hanno visto i miei studenti.
I miei studenti sono ragazzini da 11 a 17 anni provenienti da Siria, Afghanistan, Pakistan ed Eritrea che ora convivono a Samos in un rifugio per minori non accompagnati.
Sono ragazzini entusiasti e arrabbiati, pieni di vita e di energia che urlano e sbraitano, si lamentano senza fine per cose che io considero inezie, sono adolescenti come tanti. Nel mio convivere con loro spesso mi dimentico che i loro paesi sono cumuli di macerie, che le loro famiglie sono sotto le bombe, o ci sono rimaste sotto le bombe, lasciandoli soli a camminare verso l’Europa. Spesso me ne dimentico.

Fino a quando non vedo un video o improvvisamente mi dicono, quasi a mettere alla prova la mia soglia del dolore e dello stupore, quasi a vedere se so confortarli, se so trovare il modo e le parole, che tra l’Afghanistan e il Pakistan ci sono stati nuovi scontri e nuovi morti e i loro sguardi sono adulti come non mai e pieni di desolazione.

Ricordano e immaginano cose che io non ho mai visto. E io non so trovare le parole, non so trovare gesti adatti. Non so cosa significa sgusciare fuori da casa mia coperto di polvere e ferite. Non sono sicura sopravviverei a vedere la mia famiglia sterminata dai Talebani sotto ai miei occhi. Non so cosa significa essere pestato dalla polizia di ogni frontiera. Non so cosa vuol dire doversi procurare documenti falsi, saltare su una macchina piena di sconosciuti, sperando che non esploda, per scappare e salpare poi verso l’Oltre, su una barca di fortuna, lontano. Non so cosa può significare lasciare mio figlio scappare da solo, non sapendo se vivrà, se vivrò per sapere se è salvo. Non riesco ad immaginare cosa possa essere camminare per migliaia di km, in fuga, mai accolti, mai a casa, sempre emarginati e nascosti.
Questa vita di completa incertezza mi è sconosciuta e spesso mi dico che io, in questi viaggi, sarei morta, inghiottita dalla sabbia o stuprata in qualche angolo di terra in guerra.

D’altra parte, in quanto donna questo è quello che mi sarebbe capitato. Dolore su dolore: la storia insegna che donne e bambini sono i più fragili e dunque le vittime tra le vittime. Anche qui, anche nei campi rifugiati: stupri, induzione alla prostituzione e sparizioni di bambini sono un fatto che la polizia e le autorità non sanno evitare e che sembrano ignorare. Gli stessi enti internazionali continuano ad organizzare brainstorming su come proteggere donne e bambini e poi non sanno implementare nessuna delle misure sulle quali spendono ore a confrontarsi. E donne e bambini rimangono soli.
E questi volti che ho di fronte sono proprio di bambini e di bambine, che prima di arrivare in questo rifugio hanno vissuto in tende, in un campo tra spazzatura, violenza e sporcizia. In coda. Per il cibo, la doccia, i vestiti.

Parlano di esplosioni, di nuove lotte tra etnie. Si guardano e si dicono a vicenda che ora sono al sicuro qui in Europa, e mentre se lo dicono io penso a cosa davvero hanno vissuto, cosa stanno ricordando adesso. Non so come dire loro che andrà bene, perché non so loro dove finiranno. Non so parlare loro del presente che avranno qui, non sono certa di cosa succederà perché chi sceglie le politiche di accoglienza non pensa mai ai bisogni degli individui, ma ad interessi economici e alla possibilità di una rielezione. Così le belle parole dei documenti che proteggono i diritti umani e nello specifico quelli del bambino e del rifugiato, rimangono spesso ideali a cui tendere, mai realizzati. E mentre mi chiedo che ne sarà di loro, mi rendo anche conto ti non sapere se la loro famiglia morirà sotto le bombe. Non lo so. Non lo sanno. E non so neppure di che colore saranno le bombe che distruggeranno quella che un tempo era la loro scuola, o un ospedale, o la macchina della loro famiglia. Verrà dall’Occidente che ha paura di investire fondi in progetti di accoglienza ma non in caccia bombardieri? Verrà dall’Occidente che teme così tanto il terrorismo da lasciare poi migliaia di persone in situazioni di sicurezza precaria, senza dignità e senza istruzione? La mancanza di cultura, rispetto e conoscenza è esattamente ciò che serve per generare odio e disuguaglianza.
E così quando i miei ragazzini sbraitano e si lamentano e urlano, a volte li giustifico.

Quando mi dicono che non vogliono imparare l’inglese e io dico loro che nessuno parlerà Urdo or Pashtu in Olanda o in Germania e che per andare a scuola avranno bisogno dell’inglese, quando voglio che parlino bene inglese per non sembrare così d’Altrove, così estranei come sono, perché l’equità e l’eguaglianza sono ancora utopie e vorrei proteggerli come posso, almeno facendo loro capire cosa le persone chiedono loro, e insegnando loro a chiedere, a volte penso che non hanno tutti i torti quando non sembrano così felici di imparare un’altra lingua.
Semplicemente se non sono loro a cambiare, ad adattarsi, saranno sempre loro a rimetterci, e non voglio pensare che tutti questi ragazzini saranno sempre gli ultimi.

Non posso andarmene da quest’isola pensando che non avranno mai la possibilità di scegliere qualcosa di meglio, qualcosa che vogliono e non solo il meno peggio. La morte o l’emarginazione sociale.