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Brindisi – Visita al CPT di Restinco

A cura dell'On. Alba Sasso e del Dott. Rocco Canosa, psichiatra e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della ASL 4 di Matera

Di fronte a noi, ad una distanza di circa quindici metri dall’ingresso si erge orizzontalmente un’alta grata, che racchiude:
– a destra, perpendicolarmente al muro di cinta, le strutture murarie;
– a sinistra, container dismessi, che fino a pochi giorni prima ospitavano gli immigrati
– centralmente, un cortile all’aperto.
Si oltrepassa l’alta e lunga cancellata attraverso un cancello ovviamente chiuso a chiave.

Chi ci accoglie ci presenta gli operatori del Centro.
Insieme ci rechiamo nella palazzina degli uffici, sistemata a sinistra dell’ingresso principale, al di qua della cancellata interna.

Il Centro è gestito, in regime convenzionale, dal gennaio del 2003 dalla Cooperativa “Fiamme d’Argento”, fondata da ex Carabinieri.
In questo momento sono presenti 55 persone (25 donne e 30 uomini, tutti maggiorenni).
Circa il 20% – a detta dei responsabili- proviene dal carcere.
La percentuale di rimpatrio si aggira intorno al 30%. Non ci vengono forniti, però, dati certi.
Il personale è costituito da:
– 10 operatori di “contatto”
– 5 infermieri
– 4 medici
– 1 psicologo
– 2 mediatori culturali
– 2 economisti
– 1 magazziniere
– 1 interprete

I turni degli “operatori di contatto” che – a detta dei responsabili – non hanno un profilo professionale specifico, sono così organizzati, in numero ed ore:
– n.3 dalle ore 8 alle 14
– n.3 dalle ore 14 alle 20
– n. 1 dalle ore 20 alle ore 8

La retta giornaliera per il servizio prestato è di Euro
26.70

La giornata tipo è così organizzata:
– Sveglia libera
– Dalle ore 9.30 alle ore 10.30: colazione
– Dalle 10.30 alle 13: terapie e udienze di convalida
– Dalle 13 alle 14: pranzo
– Dalle 14 alle 16: riposo
– Dalle 16 alle 19: barbe e capelli e risposta alle richieste (sic!) di guardare la televisione
– Dalle 19 alle 20: cena

Dopo aver preso visione della convenzione, ci rechiamo nell’ambulatorio medico.
Il medico e l’infermiera di turno, ad una nostra specifica domanda rispondono che il 90% dei reclusi assume sicofarmaci, prevalentemente ansiolitici, specialmente nei primi giorni di permanenza.
In questo momento sono, inoltre, in trattamento ambulatoriale presso il SERT e il Centro di Salute Mentale di Brindisi, rispettivamente, un eroinomane ed una persona affetta da psicosi.
Si è verificato, inoltre, un caso di pediculosi del capo, ora in terapia.

Gli operatori affermano che si gli stranieri commettono, con un a certa frequenza, atti autolesionistici, ma non sanno specificare la quantità.
Un operatore ricorda con raccapriccio che un immigrato, alcuni mesi orsono, è riuscito a smontare una molla del letto, con cui si è procurato una vasta ferita da taglio all’addome.
Ci mostrano tutti i registri in loro possesso (consegne infermieristiche, terapia ecc.), ma non è possibile ricavarne alcun dato sintetico.
Non sanno darci dati quantitativi sulle diagnosi, né sui trattamenti.
Dal diario quotidiano presente nell’ambulatorio leggiamo per caso che qualche giorno prima c’è stata una rissa con feriti medicati presso l’Ospedale di Brindisi.
La maggior parte degli operatori affermano che molti degli “ospiti” hanno sentimenti di rabbia che i medici cercano di trattare con psicofarmaci; altri sostengono che gli atti autoaggressivi sono un mezzo per essere ricoverati in ospedali e di lì poter fuggire.

L’ambulatorio è una stanzetta di pochi metri quadri dove a mala pena ci stanno un lettino da visita, una scrivania ed un paio di armadietti per i farmaci.
Sono presenti in larga quantità ansiolitici (benzodiazepine come Valium, Rivotril, Minias, EN), ma anche neurolettici (Nozinan) per il trattamento delle psicosi ed il Farganesse, vecchio antipsicotico ormai in disuso, ma con effetto potentemente sedativo.
Assolutamente insufficiente l’attrezzatura per le medicazioni (alcune garze sterili sono conservate in un armadietto sito in un’altra stanza degli uffici).
Manca completamente l’attrezzatura, anche la più elementare, per un’emergenza cardiorespiratoria (pallone AMBU, cannule orofaringee, bombola dell’ossigeno ecc.).
Il defibrillatore è un oggetto sconosciuto.

Dopo una rapida occhiata alle stanze degli uffici (una palazzina su due piani sufficientemente decorosa), entriamo nel recinto, accompagnati da poliziotti ed operatori.
Subito siamo avvicinati da due giovani immigrati, i quali si lamentano che da tre giorni manca l’acqua calda e chiedono di ritornare nei container, dove almeno potevano farsi la doccia.
Le strutture in muratura accolgono le persone divise per sesso.
La sezione donne e quella uomini sono architettonicamente identiche. Attraverso una porta centrale si accede ad un lungo corridoio sul quale si affacciano le stanze.
Ogni stanza, di circa 40 mq, contiene 8-10 posti letto a castello (ogni “castello” e costituito da due letti sovrapposti). Attualmente vi sono molti letti vuoti. Sono totalmente assenti tavoli e sedie.
In una stanza un armadietto di ferro è posto per terra di traverso e funge da tavolo. Solo alcune stanze sono dotate di armadietti. I reclusi mangiano per terra o sui letti.
Per conservare un minimo di privacy alcuni “chiudono” lo spazio tra in due letti sovrapposti con lenzuola ed asciugamani in dotazione nel kit di ingresso.
I bagni sono sei per circa 60 posti letto. Alcuni sono totalmente privi di porte. Nessun bagno è provvisto di chiusura all’interno, oppure di chiusura, apribile dall’esterno solo dal personale in caso di necessità.
Le docce sono 4, poste tutte una vicino all’altra, senza soluzione di continuità. Sono sprovviste di tendine. Non scorre acqua calda.
Lo spazio dell’antibagno è totalmente allagato da ore, per cui i vani dei bagni sono difficilmente raggiungibili. Sembra che perda un rubinetto ma nessuno è in grado di ripararlo.
Le pareti delle stanze, ma soprattutto quelle dei corridoi, sono sporche ,scrostate, spesso ricoperte di scritte incomprensibili.
La sezione delle donne appare un po’ più ordinata, ma è strutturalmente: sovrapponibile a quella maschile. Stesso squallore, stessa inumana mancanza di rispetto per la riservatezza personale.
Totalmente invisibili sono i presidi antincendio all’interno della struttura.
Nella sezione donne c’è una porta che stranamente si può aprire liberamente dall’interno: azioniamo il maniglione di apertura e davanti a noi si para uno spettacolo imprevisto: un campo di calcio regolamentare con terreno di gioco in erba sintetica, in ottime condizioni. Non è stato utilizzato per
un po’ di tempo – dicono i responsabili del Centro- perché vi sono stati dei tentativi di fuga, possibile per la recinzione relativamente bassa.
Aggiungono che i reclusi talvolta giocano a calcio.

Siamo avvicinati da una giovane donna ucraina, la quale, in lacrime, ci racconta che dopo tre mesi di permanenza in Italia, in possesso del biglietto aereo, stava per ritornare in patria. Il permesso di soggiorno, però, da qualche giorno non era più valido.
Fermata dalla Polizia, è stata condotta nel Centro di Restinco. Orà, però, il suo rimpatrio diventa problematico, poiché gli accertamenti richiedono i loro tempi. Nel frattempo non può utilizzare più il biglietto aereo per il
ritorno.

Chiediamo dove mangiano i reclusi. Gli operatori ci rispondono che , con i cibi forniti da un servizio di catering, pranzano nelle loro camere, anche se esistono al piano superiore due sale-mensa. Chiediamo di vederle. Sono due enormi saloni, provvisti di decine di tavoli e centinaie di sedie, tutti e tutte ben fissate al pavimento. Uno straniero venuto con noi afferma di non averne mai conosciuto l’esistenza.
Chiediamo il perché non siano utilizzate e dopo nostra insistenza e con grande imbarazzo gli operatori e i poliziotti ammettono che cercano di evitare tutte le situazioni in cui possono verificarsi “assembramenti”, da
loro giudicati potenzialmente pericolosi.
Anche per questo i permessi per guardare la televisione sono centellinati. La stanza della televisione è anch’essa enorme.
Gli stranieri reclusi la guardano in piedi (non c’è l’ombra di una sedia) e il televisore è fissato nel muro con una struttura blindata. “In altre occasioni è successo che gli immigrati l’hanno fatta a pezzi” – sostengono i responsabili del Centro, il cui timore è il rischio di aggressioni e di
risse per il verificarsi della compresenza di una moltitudine di persone. Per questo motivo evitano la presenza di ogni oggetto “mobile” (tavoli, sedie), che potrebbe essere usata – a loro dire- come arma.

In nessuna parte è affissa la comunicazione dei diritti e dei doveri dell’ospite del Centro, in varie lingue.
Nell’andare via raccogliamo lo sfogo di un operatore di contatto, il quale ci dice di non farcela più a lavorare in un clima di tensione, dove loro rischiano l’abbrutimento, nel ruolo, di fatto, di carcerieri.
Altri operatori dello staff affermano di aver proposto dei “piani di trattamento” (così da loro chiamati): attività semplici come tornei di carte, lettura di giornali, puntualmente bocciate “per motivi di sicurezza”.
La visita si conclude alle ore 13.40.

Andiamo via con la mente invasa da brandelli di storie disperate, da occhi che implorano aiuto, da sguardi che sprizzano rabbia, ma non da sorrisi. La loro espressione, dura da accettare, è di rimprovero.

Considerazioni
Il Centro di Permanenza Temporanea di Restinco riproduce tutte le caratteristiche dell’istituzione “totale”: l’isolamento dal mondo esterno, la mancanza di riservatezza, che mette in profonda crisi il senso di identità personale, la situazione di vita concentrazionaria, che annulla
l’individualità, la violenza sui corpi (i bisogni fisiologici espletati in pubblico), il consumare i pasti per terra a mo’ di animali, l’essere osservati e sorvegliati continuamente nel recinto all’aperto come scimmie allo zoo, vivere, insomma, in condizioni simili a quelle del carcere e dei
manicomi, sono tutte situazioni, le quali ,non solo ledono la dignità umana, ma inducono reazioni di frustrazione e di rabbia, alla base dei disturbi psichici, degli atti autolesivi e degli episodi di violenza.

In tali situazioni si stabilisce un circolo vizioso tipico della dinamica carceriere/carcerato.
Il timore delle fughe e degli atti violenti provoca un aumento della sorveglianza da parte del personale, che si traduce, inevitabilmente, in restrizioni delle libertà personali degli stranieri. Nello stesso tempo, il senso di frustrazione legato ai trattamenti costrittivi subiti, innalza il livello di risentimento e di rabbia che
possono manifestarsi in atti violenti auto- ed etero- aggressivi. Tali comportamenti, a loro volta, provocano un’ulteriore limitazione, da parte di chi sorveglia, delle possibilità di una vita decente nel Centro.

Da un punto di vista psicologico la permanenza fino a sessanta giorni in un luogo di reclusione comporta un trauma psichico importante, in soggetti già fortemente provati dall’esilio volontario, dallo sradicamento dalla loro
terra.
Il recluso di un CPT vive una situazione psicologica caratterizzata da:
– sensazione di vulnerabilità
– sentimento di impotenza o perdita del controllo sulla propria vita
– sentimento di incertezza e timore per il futuro
– alterazione della capacità di controllare la realtà
I sintomi clinici sono i più svariati: ansia, depressione, senso di incapacità personale, disturbi del sonno, incubi, psicosomatosi sono i più comuni. Sul piano comportamentale i gesti autolesivi sono l’espressione sia della rabbia per aver fallito nella realizzazione di un’impresa, sia di un senso di colpa per essersi dimostrati personalmente incapaci a raggiungere l’obiettivo: fuggire da una situazione di miseria e di disperazione per una vita migliore.

Il CPT di Restinco non rispetta in molte parti la normativa vigente la quale prevede che la struttura sia costituita da tre settori. Più precisamente:

1. un primo settore, situato nelle adiacenze dell’ingresso della struttura, deve essere destinato agli uffici di direzione del centro, a quelli destinati ai servizi infermieristici e alle sale colloquio ;
2. un secondo settore deve essere destinato agli alloggi per gli stranieri, e deve essere composto da camere in grado di assicurare un comfort compatibile con la dignità della persona e delle sue esigenze fondamentali.
Le camere devono avere una capienza di 4-6 posti letto, essere dotate di servizi igienici adeguati e, ove possibile di un apparecchio televisivo. Se la struttura lo consente, devono essere individuati limitati ambienti destinati ad ospitare eventuali nuclei familiari (con o senza figli minori);
3. un terzo settore deve essere destinato alla socializzazione e alla vita in comune.In ogni centro parte degli ambienti esterni devono essere predisposti per attività sportive e deve essere allestita una sala comune dotata di televisione dove gli stranieri, in particolare modo nel periodo invernale, possano intrattenersi e una sala mensa, di tipo self service, separata dai locali destinati alla cucina o alla presentazione dei cibi in caso di servizio di catering.
La predisposizione di ulteriori sezioni all’interno del complesso dovrà essere valutata ai soli fini della sicurezza degli ospiti e di quello degli operatori. In tutta la struttura deve inoltre essere assicurata e garantita
la sicurezza antincendio e la gestione delle emergenze, “sia prevenendo la possibilità del loro verificarsi, sia assicurando l’immediato e pronto intervento degli addetti al fine di scongiurare ogni pericolo per l’incolumità dei singoli e la riserva dei luoghi”.

Dalle carenze macroscopiche rilevate e prima descritte si può dire che il Centro di Permanenza Temporanea di Restinco è fuorilegge.

Gli stranieri del CPT vivono, dunque, in uno stato di detenzione, non solo amministrativa e in una condizione psicologica ad alto stress emotivo.
E’ come se si sommassero la condizione carceraria e quella manicomiale.

Il meccanismo psicologico che si innesca è ancora più perverso. L’esistenza del carcere è giustificata dal fatto che bisogna irrogare una pena ed un trattamento rieducativo a partire dalla commissione di un reato. Il manicomio si giustificava poiché la società doveva difendersi dal “matto
pericoloso”.
Ma i clandestini dei CPT non hanno commesso nessun reato, né sono folli. Per tali motivi, queste strutture, oltre che disumane, sono ingiuste.

Non c’è bisogno di scomodare la psicologia, per comprendere che un’esperienza in un Centro di detenzione qual è il CPT segna negativamente una persona per tutta la vita.
Forse domani, di fronte ai danni commessi sulla pelle di tutta questa gente disperata, dovremo pentirci e chiedere loro scusa. Ma sarà troppo tardi.
Oggi siamo ancora in tempo per vergognarci sanamente dei crimini di pace che stiamo commettendo e correre subito ai ripari.