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da Il Manifesto del 3 luglio 2004

Assedio alla Cap Anamur di Pablo Trincia *

Trentasette naufraghi di origine africana, tutti uomini, di età compresa tra i 17 e i 30 anni, attendono ormai da tre giorni che il governo italiano si decida su cosa fare di loro. Nessuno sa chi siano. Né che aspetto abbiano. Né da dove vengano. Gli unici testimoni della loro storia sono i membri dell’equipaggio della Cap Anamur, che anche ieri – dopo una lunga ed estenuante trattativa con le autorità italiane – hanno dovuto rassegnarsi a restare in acque extraterritoriali al largo di Porto Empedocle. «Veniamo dal Darfur, siamo sudanesi», avrebbero detto i naufraghi al personale di bordo della nave che il 20 giugno scorso li ha salvati non lontano da Lampedusa mentre andavano alla deriva sul loro gommone in panne. «La guerra ci ha tolto tutto e siamo fuggiti. Non sappiamo più nulla delle nostre famiglie». Avrebbero attraversato il Sahara con mezzi di fortuna, nella notte, prima di arrivare – stremati – in Libia, dove qualcuno li ha messi su un canotto fatiscente intascandosi tutto quello che avevano e sparendo nel nulla.

«Sono stato con loro negli ultimi giorni, fisicamente stanno abbastanza bene», racconta Martin Hilbert, reporter freelance che collabora con l’emittente tedesca Wdr, e che si trovava a bordo della Cap Anamur. «Ma soffrono di gravi ed evidenti traumi psichici. Raccontano di aver assistito a scene di orrore in patria. Il viaggio li ha sfiniti e il mare stava per portarseli via. Capita spesso di vederli piangere – chi sommessamente, chi ad alta voce e dimenandosi – raggomitolati nelle coperte distribuite dal personale della Cap Anamur. Ma la tragedia li ha resi uniti. Tutte le sere mangiano insieme un piatto frugale a base di riso, fagioli e piselli, oltre al latte e al pane che viene loro distribuito».

Nelle prime ore della mattina di ieri, navi della Guardia Costiera, della Polizia e della Marina Militare Italiana si sono posizionate a poche decine di metri dalla Cap Anamur. Alcuni dei naufraghi, raccolti sul ponte della nave, hanno cominciato ad aggrottare la fronte e a dare segni di sconforto. Quando poi è sopraggiunta la barca della Guardia di Finanza, con a bordo uomini vestiti in tenuta anti-sommossa e accompagnata da un elicottero, sulla nave è scattato il panico. «Molti tra i naufraghi sono letteralmente corsi sotto coperta – continua Martin – erano terrorizzati. Per loro dev’essere stato troppo. Vedere una nave da guerra, sentire il fragore assordante dell’elicottero sopra le nostre teste deve aver risvegliato in loro brutti ricordi. Dai piani inferiori provenivano urla disperate e invocazioni. C’era chi gridava Jesus!! o Allah!!! Solo dopo molti tentavi i membri dell’equipaggio sono riusciti a calmarli».

«Non hanno acciacchi fisici, sono giovani e stanno abbastanza bene», racconta Elias Birdel, presidente dell’organizzazione Cap Anamur. «Ma l’impressione è che dentro di loro ci sia un male oscuro che li accomuna. Forse credevano che raggiungere l’Europa valesse il rischio di un viaggio così lungo e pericoloso. Ma ad accoglierli hanno trovato una nave da guerra. Non dev’essere stato incoraggiante per loro». Come presidente, Birdel è anche il portavoce della Cap Anamur. Ieri, nel primo pomeriggio, si è incontrato con una delegazione della società civile italiana accorsa sulla nave “Pinta”, proveniente dal porto di Sciacca e diretta verso la nave con beni di prima assistenza.

«Siamo indignati per l’arroganza con cui ci hanno trattato le autorità italiane», spiega deciso. «Sono arrivati ad inviare le navi della Marina Militare per paura di una nave umanitaria e di trentasette naufraghi indifesi. Dicono che abbiamo tardato troppo, che eravamo con i profughi a Malta prima di venire in Italia. Sono pronto a spiegare e a documentare tutto, ma nessuno mi vuole stare a sentire».

Il presidente della Cap Anamur racconta gli ultimi mesi di attività della sua nave. La Cap Anamur avrebbe lasciato la Germania il 29 febbraio scorso, facendo scalo a Rotterdam, Lisbona e Las Palmas. Ha proseguito verso l’Africa, dove l’organizzazione ha diversi ospedali e progetti di assistenza umanitaria. Si è fermata a Freetown, in Sierra Leone, a Monrovia, in Liberia e nella Walvis Bay, in Namibia. Da lì è tornata indietro, entrando in acque mediterranee, alla volta di Aqaba, nel Mar Rosso. Ma un guasto al motore avrebbe costretto l’equipaggio a girarsi e attraccare a Malta per alcune riparazioni. Dopo alcuni giri di rodaggio, e solo dopo aver lasciato le acque territoriali maltesi, la Cap Anamur si è imbattuta nel gommone in panne con i trentasette profughi a bordo.

«Li abbiamo trovati il 20 giugno, non lontano da Lampedusa – continua Birdel – Abbiamo deciso di portarli lì, ma ci siamo accorti che non potevamo. A Lampedusa possono attraccare solo navi della lunghezza massima di 80 metri. La nostra è di poco inferiore ai cento. La nostra ricerca è continuata, abbiamo pensato ad altri porti, ma non andavano bene. Alla fine abbiamo pensato a Porto Empedocle e ci siamo avvicinati. Poco prima, però, abbiamo avvistato un peschereccio in panne. A bordo c’erano undici somali. Abbiamo chiesto loro se volevano salire ma ci hanno detto che volevano proseguire per Malta. La loro imbarcazione era davvero in pessime condizioni e abbiamo deciso di scortarli fino alle acque territoriali dell’isola. Questo spiega il fatto che dopo il 20 giugno siamo stati di nuovo avvistati al largo di Malta. Da lì siamo tornati verso Porto Empedocle, ma le autorità italiane ci hanno negato l’accesso». «Stiamo solo cercando di salvare vite umane», conclude Elias Birdel, «lo facciamo da 25 anni. Non abbiamo alcun interesse a girare il Mediterraneo con 37 profughi a bordo. Attenderemo fuori da Porto Empedocle finché questo pasticcio burocratico non sarà chiarito. Speriamo per il bene di questi naufraghi che il governo italiano, quello tedesco e l’Europa trovino in fretta una soluzione».