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tratto da Migra news

Pinocchio nero. Ma è davvero nero questo Pinocchio?

di Ubax Cristina Ali Farah

Roma – Racconta la canonica storia di Pinocchio lo spettacolo di teatro-danza scritto e diretto da Marco Baliani impegnato volontariamente in un ambizioso progetto volto alla riabilitazione di 20 ragazzi di strada kenioti. Il progetto Acting from the Street, promosso a Nairobi da AMREF (African Medical and Research Foundation), si inserisce all’interno del Progetto Bambini di Strada e prevede, dopo il debutto a Nairobi nel mese di agosto, l’esibizione dei ragazzi in Italia con quattro spettacoli, due dei quali già realizzati a Roma, mentre per l’8 e il 9 settembre il Pinocchio nero si replicherà a Palermo, nella suggestiva cornice dello Spasimo.

È ironico il fatto che ad ospitare l’evento romano sia proprio il Globe Theatre, teatro elisabettiano di recente inaugurazione. Infatti, durante l’epoca coloniale, le forme tradizionali del teatro africano non erano riconosciute come tali dall’occhio occidentale e, poiché erano ritenute oscene ed oltraggiose, furono proibite e soppiantate da edificanti rappresentazioni volte all’evangelizzazione e alla diffusione della cultura attraverso la rappresentazione dei classici europei (p.e. Shakespeare).

La gente si affretta verso i botteghini la sera del debutto ed è amara la delusione nello scoprire che da giorni i posti sono completamente esauriti. Intanto, ad un tavolo poco distante, non si può non notare la lunga fila per ritirare i biglietti omaggio. Fortunatamente non tutti gli invitati sono presenti, così vi sarà qualche possibilità in più per gli aspiranti spettatori. È di buon auspicio l’affluenza del pubblico certamente sollecitata dalla efficace campagna realizzata per dare il giusto rilievo ad un evento così importante.

Prima che i ragazzi entrino in scena, un veloce anticipo: su uno schermo sovrastante il palco vengono proiettate immagini delle discariche di Nairobi abitate dai visi dei ragazzi che sniffano colla. Segue una veloce comparsa di John Muiruri, responsabile del progetto Amref Child in Need Programme e, finalmente, l’arrivo a Nairobi di Marco Baliani ripreso mentre ascolta con attenzione lo stesso Muiruri che lo avverte come in Africa i risultati si raggiungano piano, piano, non con la fretta che caratterizza gli occidentali. Poi l’immagine di Baliani in cerchio con i ragazzi che ricorda loro come il progetto rappresenti una possibilità di riscatto e una lunga sequela di esercizi di equilibrio, di respirazione, di emissione della voce, come ogni buona scuola di teatro occidentale comanda.

Lo schermo si oscura ed ecco davanti a noi Baliani in carne ed ossa, salutato con un calorosissimo applauso. Si dice entusiasta del risultato raggiunto dai ragazzi che, solo due anni fa, non avevano voce, erano chiamati chokora, che significa spazzatura, e non avevano mai visto un uomo adulto, per di più bianco, che li stesse a sentire. Ricorda che non ha fatto tutto da solo, l’hanno aiutato i numerosi volontari artistici che è riuscito a coinvolgere in Italia. Spesso in Africa si fanno cose più sostanziose, di prima emergenza, il suo è invece un progetto che ha l’ambizione di nutrire l’anima. Grazie alle sottoscrizioni sono riusciti ad affittare una casa per i ragazzi, alcuni di loro si sono pienamente ripresi e sono tornati persino a scuola.

«Ho detto loro che se si impegnavano nel progetto che proponevo» proclama con sentito entusiasmo il regista «dovevano smettere di sniffare la colla e così hanno fatto. Un giorno ho cominciato a raccontargli la storia di Pinocchio sotto un albero di mango e i loro occhi hanno cominciato a fremere».

Gli ingredienti per la favola africana a lieto fine ci sono tutti: ragazzi disprezzati ed emarginati, una storia raccontata sotto l’albero e finalmente le luci del palcoscenico e l’Europa. Peccato che, nel documentario e nelle diverse testimonianze riportate, l’interprete keniota sia sempre assente e deve pur esserci se è vero ciò che dice John Muiruri quando parla dello sheng (dialetto di strada a Nairobi), l’unico linguaggio con cui i ragazzi di strada sono disposti a comunicare.

Infine, dopo un affettuoso e sentito abbraccio simbolico al sindaco Veltroni che ha promosso l’evento offrendo la disponibilità del bellissimo teatro, Baliani ha aggiunto:

«A Nairobi è un sogno diventare ragazzi normali e forse ce l’abbiamo fatta. Molto dipende da voi, dalla busta che vi è stata data all’entrata. Sempre che lo spettacolo vi sia piaciuto… non lo fate per beneficenza». La scommessa del progetto è che, nei prossimi anni, lo spettacolo si sostenga da solo e che i ragazzi possano formare altrettanti attori con le tecniche apprese.

Adesso è il turno dei 20 ex chokora che salgono sul palco pieni di energia e di entusiasmo, vestiti rigorosamente di nero. Ha fatto un gran lavoro Baliani per forgiare, tornando ogni due o tre mesi, dei pinocchietti così perfetti. Una mimica da burattino compiutamente riuscita, il gruppo che si muove come un corpo unico, riempiendo tutti gli spazi, con movimenti ed emissione di voce assolutamente coordinati. Poi le frasi che richiamano il libro di Collodi: così almeno nella traduzione che compare sullo schermo perché, tranne rare battute, i ragazzi parlano quasi sempre in kiswahili. Almeno quello.

Questo farebbe felice Ngugi wa Thiong’o poeta e narratore keniota di lingua kikuyu che, dopo un’iniziale produzione artistica in inglese, ha scelto di tornare alla lingua madre, sostenendo la necessità di rifiutare quella «bomba culturale» che è la lingua coloniale, dal momento che «la lingua non è solo uno strumento per descrivere il mondo, ma è il mezzo per capire se stessi».

Nell’Africa Orientale i massicci insediamenti di coloni inglesi hanno provocato forti reazioni contro la cultura e la lingua inglese. Per questo i drammaturghi locali sono molto più radicali nell’attribuire alla colonizzazione la corruzione, i conflitti e le lacerazioni sociali che affliggono la società. Tuttavia non bisogna dimenticare che è stato proprio l’innesto del modello teatrale occidentale sulla tradizione spettacolare autoctona che ha dato vita al teatro contemporaneo in vari paesi africani. Una fusione è per esempio quella che il nigeriano Bode Sowande propone nel suo Ajantala-Pinocchio attraverso un incontro/confronto tra un mito nigeriano e la favola di Pinocchio.

Stupisce quindi che in questo Pinocchio nero così poco si veda l’influenza degli attori, del luogo e della sua storia. Eppure sarebbe stato possibile nutrire lo spettacolo del patrimonio culturale dei ragazzi: si intuisce nella scena commovente nella quale, nel paese dei balocchi, esprimono a turno i loro reconditi desideri per poi ballare insieme con fiammanti scarpette di calcio nuove. O ancora quando, liberi dai meccanici movimenti collettivi di danza, improvvisano liberamente.

Impresso in mente rimane, alla fine, il loro entusiasmo nel vedersi al centro di un teatro in festa e la gioia con la quale, facendo eco a Pinocchio che diventa un bambino vero, urlano a squarciagola il loro nome estraendo un passaporto nuovo di zecca.