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da La Reppublica del 24 ottobre del 2004

I clandestini e l’ ordine pubblico

Basso è il profilo delle politiche migratorie dell’ Europa. Un tempo prerogativa degli Esteri, con qualche contributo del Lavoro, oggi sono, essenzialmente, campo degli Interni e della Giustizia. Né potrebbe essere altrimenti, se le migrazioni vengono viste solo sotto il profilo del controllo, della sicurezza, dell’ ordine pubblico. Naturalmente qualsiasi collettività organizzata deve dotarsi di strumenti adeguati per garantire il rispetto delle regole. Ma le migrazioni sono qualcosa di più di un problema di ordine pubblico e di sicurezza: esse coinvolgono le relazioni tra paesi, il sostegno del benessere dei paesi di arrivo, lo sviluppo di quelli di partenza, le trasformazioni della società. Senza una visione di lungo periodo, le politiche si immiseriscono nella soluzione di problemi contingenti, oggi diversi da quelli di domani. Questa visione non esiste – c’ è invece il grande affannarsi nell’ inventare soluzioni difensive al tema dell’ immigrazione clandestina. L’ ultima trovata è l’ outsourcing del problema: fermiamo i clandestini nei Paesi di origine o di transito, dando aiuti finanziari, logistici, tecnologici per bloccare le partenze (o i tragitti via terra o via mare) e per gestire l’ incomoda presenza dei candidati all’ immigrazione, costruendo “centri di permanenza e assistenza” come ne esistono a centinaia in Europa. I ministri degli Interni, nel loro recente incontro a Firenze, hanno accantonato (per ora) l’ idea di costituire una cintura protettiva nei Paesi del Nord Africa, propugnata da Italia, Germania e Gran Bretagna, per le forti riserve di Francia e Spagna. L’ Italia però prosegue nel progetto di aiutare i libici nella costituzione di un centro, sperando di spostare il problema fuori dei confini, lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere, eliminando o riducendo l’ imbarazzo – e il costo – di rimpatri forzati con ponti aerei civili o militari. I limiti di una simile soluzione alla pressione dei clandestini sono evidenti. Il primo riguarda l’ efficacia.

Con una costa lunga migliaia di chilometri, a nord e a sud, i punti di partenza, quelli di arrivo, le rotte percorse, le modalità di viaggio cambiano in continuazione; l’ intercettazione dei clandestini è difficile; la chiusura dei passaggi più agevoli devia i flussi su quelli più rischiosi, con aumento delle perdite umane. Il secondo attiene alle garanzie per i clandestini trattenuti nei campi di raccolta. Non dappertutto esiste una Corte Costituzionale attenta come la nostra a tutelare il rispetto dei diritti individuali in caso di espulsione, e dei quali non si era fatto gran conto nella Bossi-Fini. Inoltre, tra i Paesi del Nord Africa, solo Tunisia e Algeria hanno sottoscritto la convenzione Onu sui diritti dei rifugiati, anche se è vero che il colonnello Gheddafi, mandante della strage di Lockerbie, è diventato grande amico dell’ occidente e paladino della democrazia. Ma di quali garanzie godranno gli internati dei campi una volta usciti dagli stessi e fuori dall’ ombrello protettivo della tutela europea? La Libia ha dichiarato di avere inasprito le pene per il reato di “immigrazione clandestina”. Cosa significherà, in concreto, per le migliaia di clandestini che passeranno – e si spera usciranno – dal “centro di raccolta”? Tra i 1200 clandestini di Lampedusa rispediti in aereo in Libia tra il 30 Settembre e il 9 Ottobre, la quasi totalità (1113) erano egiziani, cittadini di un forte e potente vicino. Ma cosa avverrà dei cittadini di altri deboli stati Africani, magari invisi al regime del Colonnello? Insomma, il solo sospetto che la frettolosa iniziativa, tutta italiana, del centro di raccolta in Libia, accettato dal regime per rifarsi una verginità in Europa e interrompere l’ embargo (e in cambio di soldi, assistenza, mezzi e tecnologia) si concluda in perdita o riduzione delle sacrosante garanzie di cui ogni essere umano è titolare, invita a diffidare di un progetto affrettato e poco chiaro. Tuttavia è il terzo limite quello che più preoccupa. Esisterà sempre il problema della gestione di coloro che illegalmente entrano in un paese; della determinazione della loro identità e nazionalità; della garanzia che non si sottraggano all’ espulsione; del “riaccompagnamento” alla frontiera (o del “respingimento” dalla stessa); del rimpatrio.

Il grado di civiltà di un paese si misura anche da quanto, i luoghi di trattenimento, assomiglino a centri di residenza; su quanto distino dalla natura di centri di detenzione; da quanto meticoloso sia il rispetto delle garanzie. Il grande limite delle attuali politiche sta nel fatto che le misure di contenimento della clandestinità siano tutte di ordine pubblico. Nel governo, solo il ministro Pisanu (aspramente contestato dalla Lega e An), sembra conscio del fatto che l’ ammissione, in via legale, di poche migliaia di immigrati lavoratori nel nostro paese (che nonostante la crisi ne richiederebbe decine e decine di migliaia) incentiva l’ immigrazione clandestina. Il principio che abili politiche di cooperazione possano convincere più di un Paese a controllare meglio i flussi di uscita è estraneo al Governo, privo di risorse e di volontà politica. Né l’ Unione Europea, né la comunità internazionale nelle sue varie articolazioni, appaiono disposte a prendere iniziative che pongano le spinte migratorie, in entrata e in uscita, nel contesto dello sviluppo del sistema mondiale, con strumenti condivisi per governarle, garantirle, proteggendo i diritti di chi esce, di chi entra, di chi riceve. Questa neghittosa miopia non può durare a lungo: non si governano i flussi migratori solo con i fili spinati, i pattugliamenti, i campi di “trattenimento” e le espulsioni.