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tratto da Migra news

La scuola diventa “Dom”*

di Raphaël Blasselle, fotografo, e Daniele Comberiati

Roma – La prima volta che ci siamo andati era il quattro maggio 2003. Neanche sapevamo dell’esistenza del centro. M. si è mostrato subito molto disponibile. Una lunga intervista, poi la promessa di rivederci presto. E di poter cominciare il lavoro nella scuola. Quello che era successo a via Locatelli ci era apparso subito incredibile: dal 1999 un gruppo di quindici immigrati aveva occupato la scuola, col tempo il numero delle persone si era ingrandito e quando arrivammo là ci vivevano 180 persone. Moldavi, ucraini, russi, rumeni, pakistani: la scuola Locatelli era riuscita ad unire storie e culture diverse, le persone che ci vivevano erano riuscite a collaborare, a risistemare completamente le stanze, a farsi attaccare la corrente elettrica, a rendere quel posto vivibile e accogliente.

M. era indiscutibilmente il loro leader: era lui che si occupava delle relazioni e degli appoggi politici necessari per evitare lo sgombero della polizia, sempre lui si occupava dell’organizzazione interna che, almeno così ci era parso in un primo momento, ricordava lontanamente il modello di vita sovietico. C’erano le riunioni collettive, i turni per le pulizie, le pratiche burocratiche da sbrigare: nella scuola Locatelli vigeva l’idea e la necessità di una vita in comune, ciascun abitante doveva adoperarsi per la sicurezza del posto in cui viveva, ciascuno di loro era chiamato in causa per la sopravvivenza della scuola che significava, in altre parole, la propria sopravvivenza.

«Noi non riusciremmo a vivere come voi» ci hanno detto molti di loro «che vivete da anni in un condominio senza neanche salutare il vicino che abita da sempre davanti alla vostra casa. A noi piace vivere così, tutti insieme»

E c’era da credergli. Nella scuola Locatelli, al di là degli inevitabili problemi che possono crearsi fra persone così numerose e così diverse, al di là di qualche caso isolato di piccola delinquenza o di menefreghismo, la vita insieme sembrava funzionare davvero.

Grazie a M. siamo riusciti a entrare abbastanza facilmente nelle case degli abitanti. M. cercava di facilitarci i compiti, pensava che il nostro lavoro potesse aiutarlo a realizzare il suo sogno: fare della scuola un centro di accoglienza per immigrati, con il sostegno del Comune e della Circoscrizione, riuscire a dare un primo appoggio a quelli che, come lui, come tutti loro, arrivavano in Italia assolutamente disperati.

Molte e diversissime sono le storie che abbiamo ascoltato in quei giorni. O. e N. erano una coppia giovane con una figlia di cinque anni. Lui aveva lavorato nella polizia del suo paese, ma in Italia aveva imparato, e bene, a fare il muratore. Ora stava ristrutturando il loro piccolo appartamento per ricavarne un’altra stanza: O. era di nuovo incinta e avrebbe partorito fra poco.

G. viveva con i pakistani, al terzo piano. Era uno dei pochi della sua stanza che sapeva parlare italiano e inevitabilmente l’intervista l’abbiamo fatta a lui. Ci ha raccontato del suo arrivo in Italia nascosto sotto la stiva di una nave, dei problemi iniziali, della piccola attività commerciale che stava mettendo su, dei problemi con le ragazze. «Lui ne conosce di più di italiane, perché è un bel ragazzo» ha detto ridendo e indicando un ragazzo al suo fianco dagli occhi neri e i lineamenti delicati.

S. aveva più o meno la nostra età. Lo siamo andati a trovare in palestra, insieme a M. Lo abbiamo fotografato mentre si allenava, lo abbiamo intervistato subito dopo. Faceva kick-boxing ed era una delle grandi speranze della palestra di Liberati: aveva vinto i primi otto incontri per ko e si apprestava a fare combattimenti all’estero, in tornei prestigiosi. Durante tutta l’intervista ci è sembrato che M. lo guardasse attentamente, sembrava molto fiero di lui.

P. e R. avevano appena trent’anni, anche se ne dimostravano molti di più. La loro storia era quasi tipica in quell’ambiente. Lei era partita per prima, aveva lasciato in Moldavia marito e figli e aveva trovato lavoro come donna di casa presso una famiglia italiana; lui l’aveva raggiunta qualche tempo dopo. Ora aspettavano i figli: fra poche settimane lei sarebbe ritornata in Moldavia e li avrebbe portati con sé.

L’intervista più difficile era stata con I., l’unico russo della scuola, che viveva in una piccola stanza insieme alla moglie. All’inizio ci aveva accolto con molta freddezza, quasi con diffidenza e pensavamo che nelle sue parole e nel suo sguardo ci fosse un senso costante di sarcasmo, quasi di sfida. Con il passare dei minuti però si è rilassato, ci ha offerto una birra, si è messo in posa per le foto. La moglie continuava ad insistere: voleva assolutamente prepararci qualcosa da mangiare.

Nel mese di maggio 2003 mille altre storie ci sono apparse: una madre che ci faceva vedere contenta la pagella del figlio, una donna timida dal viso dolce e intenso, un vecchio dottore che stava pitturando di azzurro i muri del corridoio. La scuola Locatelli era in continuo cambiamento: a fine estate O. aveva partorito, S. aveva vinto altri due incontri, i figli di P. e R. erano arrivati.

Di tutto quel periodo passato insieme a loro abbiamo deciso di trarne un lavoro, un reportage di fotografie e testi che è diventato la mostra “Dom”, esposta a Roma nella libreria Bibli nel gennaio 2004. “Dom”, che in russo significa casa, nelle nostre intenzioni doveva rappresentare quello che la scuola Locatelli stava diventando per i propri abitanti: un luogo in cui abitare, dove ciascuno ha messo qualcosa di suo.

A fine dicembre 2003 siamo ripassati alla scuola per salutare M. e dirgli della mostra. Abbiamo bussato alla sua porta, una voce in russo ci ha chiesto qualcosa. «M?» abbiamo domandato noi «c’è M.?» «Niet!» ci è stato risposto, ma nessuno ci ha aperto la porta. Abbiamo chiesto ad alcune persone che conoscevamo e che lo conoscevano bene. Nessuno sapeva più nulla di lui. Un uomo ha tirato fuori alcune ipotesi, un altro ha fatto quasi finta di niente.

Abbiamo avuto l’impressione che ci fosse sfuggito qualcosa, la sensazione di non aver capito molto di quello che era la scuola. Forse avevamo visto solo quello che volevamo vedere, forse non eravamo andati al di là del nostro sguardo, forse non avevamo ascoltato tutto.
La mostra l’abbiamo fatta comunque.
Sicuramente non abbiamo capito tutto, della scuola.
Sicuramente, abbiamo pensato, quello che avevamo visto, la voglia degli abitanti, il tentativo di vivere insieme, valeva la pena di essere raccontato.

Vedi anche:

Dom , una mostra