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Io clandestino a Lampedusa [II parte]

Sabato 24 settembre

L’alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos’è: l’aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C’è anche una donna con il pancione della gravidanza.
Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l’altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c’è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C’è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent’anni, ha tutte le unghie smaltate a metà.
La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C’è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. “Bilal”, urla forte una voce. “Tu”, dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.

L’ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l’interprete: “Parli arabo?”, chiede in arabo. “Sì”. “Da dove vieni?”. “Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l’arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra”, risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell’elenco dei ‘Diritti degli immigrati’ scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio.
All’interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto.
Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. “C’è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave”, spiega l’interprete di arabo. “Tu sai cosa c’è scritto?”, chiede la dottoressa, sempre in inglese. “Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla”. Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: “Se sei curdo, parli urdu”. “No, l’urdu è una lingua del Pakistan”. Poi si arrabbiano: “Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi”, promette la dottoressa. “Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?”, le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo.
L’interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. “Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione”, conclude la dottoressa. Dopo l’interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita.
Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.

Centinaia di immigrati sono seduti sull’asfalto in file da dieci tra due baracche prefabbricate e quattro container. “Oggi siamo a quota 447”, avevano detto nell’ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. “Vai in fondo, muoversi, muoversi”, urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp, e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza di urina e fogna. “Seduti”, urla uno dei carabinieri, “Sit down”. “Ma qui in fondo è una schifezza”, dice il collega, un ragazzone con accento napoletano. “Il maresciallo ha detto di farli sedere.
Sit down”, grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti l’interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per la Libia.
Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene chiamato dall’interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un’altra sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L’interprete e i poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi e uomini mormorano di rabbia. “Italiano, puttana, cornuto”, sussurra lo smilzo con la maglietta di Bergkamp.

Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c’è nemmeno l’atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell’ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un’ora perché dopo l’appello si resta in coda per il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una bottiglia di due litri d’acqua da dividere in due senza bicchieri. Un’occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con malattie infettive.
Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull’asfalto o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa deve fare.
Dietro alla mensa-dormitorio c’è qualche materassino lasciato da chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa con l’asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano: “Ehi, ashara-ashara”. Ashara? In arabo significa dieci. “Ashara-ashara”, urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami.
In file da dieci, “ashara-ashara”. È un altro trasferimento: questa volta l’aereo dell’Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera. Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro. “Questo qua è la terza volta quest’anno che passa da Lampedusa”, lo indica un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.

Prima di sera l’ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per quell’inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere.
Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. “Tu sei romeno e parli italiano”, insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e chiede “Ce face?”, come stai. E poi all’orecchio di Bilal sussura: “Pizda, pizda, pizda, pizda, pizda…”, un modo poco elegante usato in Romania e altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel vuoto. Ci riprovano con un’interprete marocchina che alla fine conclude: “Non credo sia romeno. Parla l’arabo, però continua a chiedere che l’interrogatorio sia in inglese”.