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Io clandestino a Lampedusa [IV parte]

Lunedì 26 settembre

Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi sta male. Forse viene dalla prima camerata.
Ma avvicinandosi il lamento prende la forma di una canzone stonata: “Ma quanto tempo e ancora, ti fai sentire dentro, quanto tempo e ancora.”. Viene da oltre il cancello: i carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha mostrato le scene porno sul telefonino. C’è anche il loro appuntato. Sono di spalle e non si accorgono. Si torna a letto.
Ma non si riesce più a dormire perché un’Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che qualcuno si svegli per farli atterrare.

Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l’avviso che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha risposto: “Non io, direttore”. Oppure: “Bukara, domani”.
Oppure: “Non scassare la minchia”. Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da settimane nella gabbia, fanno affari d’oro vendendo a 20 euro schede da 3. Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. “Ho bisogno di aiuto, sono chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare”, dice Bilal in francese, “Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un euro”. Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la stessa grave necessità.
Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal riprova facendo a caso un pò di numeri verdi. All’800-400-400 risponde lo sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato. Invece dopo mezz’ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si inventa perfino una legge: “Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di fare questa telefonata”. A nessuno interessano le angosce di questi immigrati chiusi in gabbia.

La sera, dopo cena, si preparaun’altranotte d’inferno. A Lampedusa sta arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti dell’ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le perquisizioni.
Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo con i capelli grigi e un po’ di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a gesti, senza urlare.

Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È l’unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami dai bagni.
Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di essere aspirate sono state sparate tutt’intorno alle turche. Anche nel mangiare c’è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica. Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne. Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle proteine.

Mercoledì 28 settembre
L’ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a Mussolini un po’ ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. “No”, lo corregge un carabiniere, “quello è il saluto nazista.
Quello fascista è così. Italiani!… La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?”. Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri pomeriggio Bilal l’ha visto portare un malato in braccio, dall’infermeria alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e osserva. Un’altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180 nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto, due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. “Spogliati nudo”, dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura. Lui non capisce.
Resta immobile un minuto intero. “What is the problem?”, urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L’immigrato, pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da mezz’ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo: una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e ciascuno si prende la sua razione di schiaffi.
Quattro carabinieri fanno quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. “Questo ti dà problemi?”, chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all’immigrato magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi immobile, in canottiera.
Passa un’altra fila di immigrati, altro corridoio. Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no, guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo dell’oca e finge di portare una lancia: “Avanti marsh”. Soltanto un carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano nell’aria per mezz’ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne accorge.
È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i capelli dentro un bandana. “Maresciallo”, dice nervosa, “vada di là a vedere cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono”. Il maresciallo volta l’angolo e raggiunge gli altri carabinieri: “Uhe ragazzi, mi raccomando”, dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a dormire sull’asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri festeggiano con una grigliata nel cortile.