Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Repubblica del 1 settembre 2006

L’Europa e le radici delle migrazioni

Le dimensioni assunte nelle ultime settimane dai flussi di migranti che dal Sud del mondo tentano di arrivare via mare sul territorio italiano, e dalle tragedie che regolarmente li accompagnano, hanno riaperto la discussione sui mezzi da porre in opera al fine di arginare tali flussi. Si parla al rifuardo di inastrire i meccanismi di controllo; di rivedere gli accordi già stipulati con i paesi, tipo la Libia, attraverso i quali i migranti transitano; di stipulare nuovi accordi di cooperazione con i paesi di provenienza, in merito soprattutto alle quote massime di migranti che il nostro paese ritiene di poter accogliere da ciascuno. Sono mezzi che possono rivestire una certa utilità, benchè occorra dire che i risultati finali di qualcuno di essi sono stati in passato piuttosto discutibili. Nel 2003, ad esempio, il governo italiano finanziò il rimpatrio forzato dalla Libia, mediante una cinquantina di voli charters, di oltre 5000 clandestini espulsi dall’Italia, il cui personale destino, visti i regimi politici di alcuni dei paesi africani cui furonon rinviati a forza, è rimasto oscuro. Ma il punto centrale, al presente, è che nell’insieme i mezzi in discussione per limitare all’arrivo i flussi migratori in realtà non sfiorano nemmeno i processi socio-economici che li almentano nei paesi d’origine. Si tratta di processi attivati non sa altri che dai paesi sviluppati, Italia inclusa. Essi hanno avuto per effetto la formazione, nei paesi in via di sviluppo, d’una quota enorme di popolazione eccedente rispetto alle possibilità di assorbimento locale dell’economia globalizzata. Ne discende che per una parte di essa, emigrare è rimasta l’ultima speranza.
Fra i processi che concorrono a formare in origine i flussi migratori figurano in primo piano, da diversi punti di vista, le politiche connesse all’agricoltura. I paesi del Nord sovvenzionano le loro produzioni agricole con un miliardo di dollari al giorno. Ciò riduce di per sè la capacità concorrenziale delle produzioni del Sud. Al tempo stesso le organizzazioni internazionali coma la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale impingono ai paesi in via di sviluppo degli obblighi di aggiustamento strutturale, ovvero di risanamento dei bilanci pubblici, per fare fronte ai quali i loro governi spingono al massimo l’esportazione di prodotti di base quali cotone, caffè e cacao, piuttosto che impegnarsi nel far crescere e differenziare le economie locali. A tale fine favoriscono l’automazione e la razionalizzazione di dette produzioni. Però la relativa abbondanza di tali prodotti che ne è derivata, e il fatto che il mercato è controllato per la massima parte da società del Nord, fa sì che i prezzi reali di tali materie prime siano da decenni in fase calante. Risultato: un numero via via minore di lavoratori producono una quantità sempre maggiore di prodotti che all’esportazione spuntano prezzi sempre più bassi. In paesi come l’Etiopia (reddito procapite 120 dollari l’anno) che per tal via sono venuti a dipendere da un solo prodotto d’esportazione – nel caso specifico il caffè – questo circolo vizioso ha contribuito ad emarginare dall’economia èroduttiva milioni di persone.
Un altro fattore di emarginazione economica e sociale di larghe quote di poplazione è stata la modernizzazione di alcuni settori dell’industria e dei servizi operata in diversi paesi da imprese trasnazionali, seguendo criteri organizzativi e gestionali identici a quelli adottati nei paesi da più tempo sviluppati, quali fossero le situazioni e i bisogni effettivi del paese ospitante. Essa ha creato un certo numero di nuovi posti di lavoro meglio pagati, ma nel medesimo tempo ha rapidamente destrutturato le economie locali che davano lavoro a un maggior numero di persone, sia pure meno retribuite. Nell’insieme, in quasi tutti i paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa, l’economia moderna, tecnologica, urbana, pur là dove si espande non riesce ad assorbire che una frazione minima di popolazione. Una frazione assai maggiore di essa perde le fonti tradizionali di sussistenza sia a causa della razionalizzazione delle colture agricole, sia dello sgretolamento dei sistemi economici locali. Ne derivano tanto l’enorme espansione dell’economia informale, dominata da una totale assenza di diritti umani, quanto il parallelo ingrossamento delle fila di coloro che progettano di emigrare a qualunqaue costo.
Va infine menzionato, tra i fattori di produzione dei flussi migratori, il peso del debito esterno che i paesi in via di sviluppo hanno contratto con i paesi e le organizzazioni internazionali del Nord. Paesi come il Camerun, il Kenya, il Niger, la Tanzania, avrebbero un estremo bisogno di destinare la maggior parte del bilancio statale a servizi sociali di base, in primo luogo alla scuola e alla sanità. Sono paesi, va ricordato, dove ogni anno muoiono centinaia di migliaia di bambini sotto i 5 anni che potrebbero essere salvati con cure elementari del costo di pochi euro a testa. E’ invece il servizio al debito che assorbe la maggior parte delle loro risorse. Negli anni ’90, il servizio del debito, ossia gli interessi pagati ai paesi prestatari del Nord, ha assorbito il 36 per cento del bilancio statale del Camerun, contro il 4 per cento destinato ai servizi sociali di base. In Kenya, l’analoga ripartizione è stata del 40 per cento contro meno il 13 per cento; in Tanzania, il 46 per cento contro il 15. E’ anche un effetto di questi squilibrati rapporti se matura nelle famiglie la voglia di andare a cercarsi un paese dove sia semplicemente possibile mandare i figli a scuola, ed evitare che muoiano perchè hanno bevuto qualche sorso di acqua inquinata.
Una politica di regolazione e di utilizzo intelligente dei flussi migratori, nell’interesse sia dei paesi d’origine che dei paesi di destinazione, può essere messa in piedi soltanto dall’Unione Europea. A condizione, ovviamente, che nella classe politica, come nell’opinione pubblica, si diffonda la consapevolezza del fatto che i flussi migratori li abbiamo fabbricati e li fabbrichiamo in gran parte noi, i benestanti del Nord. Ed anche del fatto che se la Ue dovesse mai scegliere la strada di accrescere le proprie fortificazioni per sbarrare la strada ai migranti, piuttosto che quella di fare fronte alle proprie responsabilità, ai suoi confini si continuerebbe a morire. Secondo le stime di un network di oltre cinquecento organizzazioni non governative che ha sede in Olanda e fa di nome United, tra il 1993 e il marzo 2006 le morti documentate di migranti che tentavano di entrare nella “fortezza Europa” sono state 7.200. La maggior parte di esse sono avvenute nello stretto di Gibilterra e nel Canale di Sicilia. Gli esperti ritengono che le morti non documentate siano tre volte tante. Ci si può chiedere se bastano, per motivare la Ue a rivedere i complesso le proprie politiche sull’immigrazione.

di Luciano Gallino