Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sfruttare, criminalizzare, espellere. Ma prima il corso di italiano nel CPT

I volontari al CIE di Via Mattei per insegnare l'italiano in convenzione con l'Università

Dietro alle sbarre, con un decreto di espulsione in tasca, è ora possibile per i migranti detenuti nel carcere di Via Mattei imparare l’italiano, eseguire attività laboratoriali di bricolage, intraprendere vertenze per il recupero crediti sul lavoro, rivolgersi ad un’associazione di tutela dei diritti delle donne e avvalersi dei mediatori culturali. Il tutto in una stanza con banchi cementati al pavimento, in un’aula chiusa a chiave e sotto il controllo delle telecamere. A poche decine di metri ci sono le ronde dei militari con il mitra che impediscono evasioni e rivolte.

Gli interventi sono coordinati dal Progetto Sociale della Misericordia in collaborazione con Cgil (che fornisce anche gli insegnanti volontari per i corsi di italiano in tirocinio con l’Università di Bologna), con alcuni avvocati che gestiscono lo Sportello legale e con l’associazione SOS Donna, nell’ambito di un Protocollo con il Garante delle libertà per i detenuti.
Per un migrante avere la fortuna di incontrare simili opportunità di emancipazione e di integrazione promossi con spirito di cooperazione e di solidarietà proprio in un CIE potrebbe sembrare per certi versi una beffa, o perlomeno un paradosso, dal momento che proprio nei CIE si suggella il suo status di persona indesiderata, di corpo da espellere ad ogni costo, anche spendendo parecchi soldi pubblici.

I referenti del progetto sociale dichiarano di agire nell’ottica della “riduzione del danno”, ossia per cercare di alleviare le sofferenze, lo sconforto e la desolazione della reclusione in un luogo costruito come un carcere di massima sicurezza, presidiato giorno e notte dai militari dell’esercito. Dichiarano anche che le nuove attività “sono anche un deterrente per comportamenti auto ed etero aggressivi”.

Nella presentazione sulla stampa locale (Il Domani di Bologna del 23/9/2008) colpisce l’atteggiamento buonista che anima l’intervento, ma certo non può non trasparire soprattutto l’ipocrisia di un simile progetto, che omette di affrontare il nodo centrale della detenzione amministrativa, ossia perché sia possibile recludere come criminali che debbano scontare una condanna persone che sono invece vittime delle leggi comunitarie e nazionali, che le escludono dalla categoria dei migranti regolari, nonostante in Italia lavorino duramente nei cantieri, nelle botteghe degli artigiani, nei capannoni industriali.

Come è possibile conciliare l’ingiustizia agita sulle vite di queste donne e uomini dal sistema di esclusione e di marginalizzazione rappresentata dal centro di detenzione per migranti con il conforto e il servizio offerto da operatori umanitari e volontari?
In realtà è proprio questo lo scopo dei progetti di umanizzazione dei Centri di detenzione o di “riduzione del danno”: lenire il rimorso, placare le coscienze, confondere la crudeltà di un sistema che sfrutta, criminalizza, espelle.

L’Italia non vuole i clandestini, ma se ci sono li mette al lavoro e li sfrutta, approva leggi perché restino clandestini e poi li insulta, li criminalizza, inventa reati per aumentarne la colpa e spogliarli di ogni residuo di dignità e costruisce carceri speciali in cui eseguire l’estrema punizione, ossia l’espulsione. Poi chiama i volontari per insegnar loro l’italiano prima di dargli un calcio nel sedere.

Dopo dieci anni di maledetta presenza dei CPT nei nostri territori, ridurre il danno dei centri di detenzione per migranti significa normalizzare il confinamento e giustificare il diritto parallelo per gli immigrati.
Accettare l’intervento umanitario significa rinunciare a reclamare il diritto ufficiale.

Redazione Melting Pot Bologna