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CIE, Europa, detenzione amministrativa e diritto mite: una distanza incolmabile?

di Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa

Gustavo Zagrebelsky ne Il diritto mite (1992), contrapponeva all’idea di Stato di Diritto, detentore della possibilità di produrre ed imporre le leggi attraverso la coercizione, quella di uno Stato costituzionale dei diritti, in cui la costituzione fa da sistema di unificazione di una società pluralistica anche attraverso un sistema di valori e principi d giustizia materiale.

Uno sguardo alla normativa sull’immigrazione ed al suo carattere tutt’altro che mite, piuttosto feroce, ci consiglia di cercare di percorrere la linea di ragionamento proposta da Zagrebelsky non senza prima assumere il carattere strutturale di contraddizione che accompagna lo sviluppo della storia e della filosofia del diritto.
Si tratta di una domanda che assilla come un mantra chi opera a confronto con la normativa sull’immigrazione e che continuamente viene riproposta ogni volta che si ha a che fare con un provvedimento che riguarda un cittadino straniero: come possono convivere nello stesso ordinamento principi che garantiscono diritti fondamentali con norme che invece li negano o addirittura reprimono chi li rivendica?

E’ sconsigliabile cercare improbabili risposte utilizzando i semplici strumenti del dottrina giuridica. Non perché non siano fondamentali, ma perché rischierebbero semplicemente di ampliare la portata di questo interrogativo. Questa convivenza infatti, alla luce del diritto, non dovrebbe essere possibile.
Eppure la realtà è ben diversa.

A presidio dei diritti fondamentali sanciti da norme internazionali e trattati, così come dalla carta costituzionale, troviamo infatti, non tanto le istituzioni che avrebbero il compito di farsi garanti di questi principi, ma invece una miriade di associazioni o giuristi che, proprio in virtù della loro continua negazione, si propongono di difenderne l’applicazione. Anche l’enorme produzione della giurisprudenza, di quella amministrativa, così come di quella civile o penale, in materia, che di volta in volta contribuisce a fornire interpretazioni della normativa rispondenti ai principi costituzionali o della normativa europea, ci parla della stessa problematicità. Si finisce davanti ad un giudice per dirimere una controversia che l’amministrazione, nelle sue varie forme, ha risolto in maniera illegittima o comunque restrittiva rispetto a ciò che la legge prevede.
“Avvocato, si può fare questo? Posso chiedere quest’altro? Facciamolo, poi riceveremo un diniego ed in seguito faremo ricorso”. Quante volte chi si occupa di immigrazione si è ritrovato in questa situazione?

Un breve excursus storico tra le vicende che hanno caratterizzato in questi anni l’approvazione di alcuni provvedimenti sull’immigrazione e le dispute che ne sono seguite, possono aiutarci ad inserire alcuni elementi in questa importanti in discussione. Perché l’applicazione della normativa, spesso, è diretta conseguenza non solo della sua formulazione, ma anche e soprattutto delle situazioni che ne hanno condizionato la genesi.

E’ per esempio utile ricordare un’audizione alla Camera dell’ottobre 2008, quando l’allora Ministero dell’interno Maroni, in risposta ad una domanda proposta da un parlamentare, sottolineava come l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare (art 10 bis TUI) fosse necessaria per aggirare gli effetti dell’entrata in vigore della direttiva rimpatri che avrebbe imposto agli Stati di adottare misure graduali per l’allontanamento dei cittadini stranieri privi di permesso, prevedendo l’espulsione coatta immediata nel caso in cui questa fosse strettamente connessa all’esecuzione di una condanna penale.

Successivamente, nel dicembre 2010, una famosa circolare dell’allora capo della Polizia Antonio Manganelli, proprio in previsione dell’imminente scadenza del termine per il recepimento per la direttiva rimpatri, che una volta trascorso avrebbe reso immediatamente applicabili le disposizioni della direttiva, mettendo in mora le modalità di adozione dei provvedimenti di espulsione prefettizia, impartiva ordini alle Questure, esprimendo alcune considerazione piuttosto significative che riproponiamo in corsivo. Dal testo della circolare:
lo straniero colpito da espulsione potrebbe impugnarlo (Non sia mai!)
il ricorso potrebbe essere accolto (addirittura!)
e poi:
vi è una rilevanza strategica delle motivazione
quindi dava alcune indicazioni per poi finire di commentare così:
“per essere idonee a neutralizzare gli effetti del ricorso”….etc etc. etc

Di recente, lo scorso 12 dicembre 2012, il Tribunale di Crotone ha assolto alcuni cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno che si erano resi protagonisti di una rivolta all’interno di un Centro di Identificazione ed Espulsione.
La sentenza, ormai nota, si basava in sostanza sulla considerazione che la condizione di privazione della libertà personale, sia perché illegittima per la mancata convalida da parte di un giudice, sia per le condizioni in cui veniva messa in atto (riferite alla situazione degradata del centro) configuravano una violazione dei diritti fondamentali della persona che, proprio perché commessa da un apparato dello stato, rendeva legittima l’azione di protesta, anche violenta, all’interno del CIE. Assolti per legittima difesa.

Ma pochi mesi, con un documento programmatico dei primi mesi del 2013, il Ministero dell’Interno ha impartito alcune linee di indirizzo riguardanti il sistema dei CIE in Italia.
Oltre a prevederne, come ormai da anni avviene, la costruzione di nuovi, è sembrato evidente il tentativo messo in atto con il documento, di intervenire in particolare su due questioni: la prima, legata alla convalida dei trattenimenti, formalizzando una prassi già abbondantemente seguita proprio per aggirare i problemi connessi ai provvedimenti di convalida: i giudici di pace appunto li dovranno adottare all’interno del CIE.
La seconda legata alle eventuali rivolte. Con un’ eccezionale operazione di ribaltamento della realtà il Ministero dell’Interno propone infatti la creazione di spazi di isolamento in cui trattenere i soggetti più inclini alla violenza. Come se in questi fosse quasi connaturata una attitudine belligerante, una brutalità strutturale ed invece le rivolte e le azioni di protesta non fossero connesse proprio alla privazione della libertà ed alle condizioni disumane del trattenimento, così come avevano sentenziato i giudici di Crotone.

Aver ripercorso alcuni momenti del nostro recente passato è stato utile per provare a fissare un primo punto che anche la teoria proposta da Zagrebelsky sembra in qualche modo condividere. Se cioè “aggiramento” o neutralizzazione” possono far parte del lessico con cui il legislatore propone l’introduzione di disposizioni così importanti per la vita dei cittadini stranieri, appare allora evidente come il campo del diritto sia tutt’altro che tecnico. Si tratta di un campo di tensione incredibile e come tale perciò andrà affrontato.

Ma c’è un altro punto che può risultare interessante per cercare di comprendere meglio la natura dei dispositivi di trattenimento amministrativo e cercare quindi di comprendere meglio la loro distanza incolmabile dall’ipotesi di diritto mite.

Se il legislatore è disposto a sacrificare diritti fondamentali della persona in ragione della lotta all’irregolarità, ma poi i numeri forniti dallo stesso Ministero dell’Interno raccontano di una cifra irrisoria di espulsioni eseguite dall’Italia dopo il trattenimento nei CIE, qual’è allora la funzione di questi istituti?

In primo luogo è utile chiarire che quello della detenzione amministrativa è un sistema che ritroviamo anche nelle legislazioni degli altri Paesi europei.
I centri di detenzione, che assumono diverse denominazioni nei diversi stati, risultano essere quindi un punto cardine ed irrinunciabile delle politiche di controllo delle frontiere dell’Europa.
Nel corso di questi anni la nostra esperienza ci ha fatto percepire i CIE sotto diversi punti di vista. Quello che si è concentrato sul loro carattere disumano e le deprecabili condizioni di vita interne ha avuto certamente una centralità molto importante, soprattutto in termini di denuncia (basti pensare ai molti rapporti di MEDU HRW o Amnesty International). In ogni caso non sembra però sufficientemente in grado di spiegare la vera natura dei Centri di detenzione.

Alessandra Sciurba, nel suo libro “campi di forza”, ha sottolineato come spesso, nella descrizione dei CIE, per enfatizzare il loro carattere violento, si siano richiamati i lager della Germania nazista, facendo un ampio utilizzo della categoria del concentramento. Più correttamente, rileva l’autrice, i CIE sembrano essere non solo spazi “di immobilità senza via di fuga”, strumenti di arbitraria decisione sulla morte, ma fino in fondo parte dei processi di gestione della vita e del suo incontenibile movimento.

Chi si trova a confronto con un cittadino straniero che è stato trattenuto in un CIE e che si trovi però ancora in Italia, avrà certamente l’occasione di scoprire come per i migranti stessi quei centri, non sono molto più che tappe, certamente particolarmente sfortunate, del loro percorso migratorio

Tanto per fare alcuni esempi ricordiamo come a Cassibile, nelle terre della raccolta, fino a qualche anno fa, le porte del CIE si aprivano e si chiudevano con un ritmo scandito dai tempi del lavoro nei campi. A momenti di grande permeabilità, in uscita ovviamente, si alternavano invece grandi retate quando il periodo della raccolta finiva, con il risultato di cancellare il debito contratto dal caporale che doveva più corrispondere ad alcuno la retribuzione pattuita.
Così a Milano, ma anche a Bologna, a Torino o a Gradisca, il livello di affollamento delle celle negli anni dei pacchetti sicurezza e della retorica securitaria, non era tanto proporzionale alla presenza reale di migranti privi di permesso di soggiorno nelle regioni del Nord, quanto piuttosto sembrava strettamente connessa ai tempi dei proclama in nome della lotta alla clandestinità fatti dall’esecutivo, seguiti da grandi retate e comunicati stampa a fare da corollario.

In tutto questo insomma appare difficile poter guardare ai CIE come dispositivi isolati rispetto ad un più complesso meccanismo di gestione dell’immigrazione.
I CIE sembrano essere non solo i “non luoghi del diritto”, come sono stati brillantemente definiti in passato, non semplicemente spesso i luoghi di una seconda ed ingiustificata detenzione per chi per esempio ha già scontato la sua pena in carcere. Ma li ritroviamo quasi come proiettassero la loro ombra anche al di fuori dei loro perimetri. Quando certo vengono informalmente trattenuti i cittadini stranieri in palestre, scuole, stadi o nelle stanze delle Questure, ma anche quando la loro minaccia funzione come dispositivo di ricatto sempre pendente sula vita di chi vede condizionata la sua autorizzazione al soggiorno alla titolarità di un permesso.
In questo caso ci viene in soccorso il concetto di confine. Perché è il confine ad attribuire in diversi modi la qualifica di non cittadini a chi lo attraversa e perché al tempo stesso perchè proprio il confine non sembra mai poter essere attraversato una volta per tutte, ma rincorrere piuttosto continuamente chi lo ne ha fatto l’esperienza, tornando ogni volta a chiedere di saldare il conto.

Ogni volta che uno straniero si trova a rinnovare il permesso di soggiorno, ogni volta che una decisione discrezionale determina il rigetto della cittadinanza o del rilascio di un titolo più stabile, ogni volta che il rapporto dei cittadini stranieri con i loro diritto passa attraverso la negoziazione con l’autorità che dovrebbe garantirli, si ripropone l’esperienza del confine.
Lo sanno bene i tanti operatori e volontari di sportelli che continuamente sono controparte di questa disputa, così come gli avvocati, gli operatori del diritto che si trovano a difendere diritti che dovrebbero invece essere già condivisi ed acquisiti.

C’è poi un altro punto che caratterizza la normativa sull’immigrazione, i particolari dispositivi del trattenimento e quindi la loro ferocia.
La descrizione di ciò che previsto dalla normativa per ciò che concerne i diritti e gli adempimenti dei cittadini stranieri rischia a volte di risultare piuttosto semplificata e lineare.
La realtà invece ci consegna una materialità di situazioni molto più complesse e sfaccettate. Se è vero che la legge Bossi Fini è un grande meccanismo di produzione di clandestinità, è vero d’altro canto che questa produzione di illegalità non si limita all’attribuzione di una condizione in seno ai cittadini stranieri non autorizzati al soggiorno, ma invece si allarga fino a costituire lo spazio per la crescita e lo sviluppo di un vero e proprio mercato del diritto di soggiorno, in cui per evitare di andare incontro all’efferatezza delle disposizioni normative, si possono comprare contratti, residenze, documenti gonfiando le tasche di piccoli faccendieri o grandi organizzazioni criminali. La legge sull’immigrazione è anche questo.

Ci sono due ultime considerazioni che vorremmo poi proporre.

La prima riguarda il rapporto tra inclusione ed esclusione.
Spesso si è detto in passato che le norme sull’immigrazione rappresentavano in qualche modo una forma di laboratorio in cui sperimentare dispositivi che via via sarebbero stati potenzialmente applicati al resto della società.
Questo è vero solo in parte. O meglio, tutto ciò si è realizzato ma non nei termini semplicistici e speculari con cui veniva spesso paventata questa possibilità. Non si tratta evidentemente di essere allarmati per l’introduzione dei CIE o del permesso di soggiorno per i cittadini italiani.
Ciò che invece è vero è che è in corso un processo che ha molto a che vedere con la natura restrittiva di quella produzione normativa.

Per cercare di andare più a fondo ci viene incontro certamente uno sguardo alla dimensione europea.
L’Europa, fino a qualche anno fa, sembrava in qualche modo offrire la possibilità che, sia dal punto di vista del suo contenuto, sia da quello del suo riconoscimento, potesse essere immaginato un arricchimento ed un allargamento del concetto di cittadinanza (non solo giuridico, ma anche filosofico e politico). In qualche modo l’Europa, proprio dispiegando energie che andavano oltre i confini degli stati sembrava offrire una possibilità includente senza precedenti.
In questo quadro, spesso, si è parlato di cittadini e non cittadini, tracciando quasi una linea di demarcazione netta tra chi aveva la cittadinanza di uno stato membro e chi invece no.
Non è il caso di sviluppare in queste poche righe questo ragionamento ma certo è che oggi, di fronte alla crisi dell’Euro-Zona, che ha dato vita ad un processo informale di nuova costituzione dall’alto dell’Europa, possiamo anche vedere un arretramento di questa sua capacità che invece ha lasciato il posto a politiche di restringimento dello spazio della cittadinanza senza precedenti.
Tutte le politiche che hanno seguito il momento del tracollo greco, così come quelle su cui si sta definendo il nuovo assetto dell’Unione, parlano questo linguaggio.
Anche il diritto alla libera circolazione, uno dei pilastri fondamentali del Trattato, nel dibattito in corso, sembra oggi oggetto di preoccupanti attenzioni non solo con riguardo al trasferimento dei richiedenti asilo (Dublino II) o all’attraversamento delle frontiere da parte di cittadini titolari di permessi rilasciati da altri stati membri (Schengen), ma spingendosi fino ad ipotizzare nuovi restringimenti anche per gli stessi cittadini comunitari, a fronte di una crescente mobilità dei giovani europei che si spostano all’interno degli stati, molto più spesso verso quelli in cui la crisi sembra aver avuto un impatto minore sul mercato del lavoro, alla ricerca di occasioni lavorative.

In questo senso, intorno cioè a questo progetto di inversione di tendenza che vede l’Europa di fronte ad un momento di involuzione quanto ai diritti di cittadinanza, è possibile riconoscere il trasferimento ad una generalità di soggetti di quei meccanismi di restrizione adottati nei confronti dei cittadini stranieri negli anni passati.

Ci viene insomma consegnato uno spazio della cittadinanza in cui cittadini riconosciuti come tali, o anche figure non riconosciute come cittadini ma autorizzate a soggiornare nel territorio, così come anche i soggetti per nulla autorizzati, si trovano a confronto con un processo in cui il diritto si afferma come strumento di differenziazione e restrizione invece che come forma di regolazione “mite” dei rapporti sociali.
Se, come ci dice Zagrelbesky, ad un diritto mite non possono che corrispondere rapporti sociali improntati sulla mitezza, mentre un diritto feroce non può che essere codificatore di rapporti sociali feroci, non abbiamo dubbi sul quale sia lo stato di salute oggi del nostro ordinamento giuridico e più in generale della natura dei rapporti economici, sociali e politici della nostra società
In questa vicenda siamo coinvolti tutti, stranieri e non. Si tratta, crediamo, di reinventare insieme una possibilità di essere cittadini in questa Europa che forse passa anche per la rottura di alcune norme che ingabbiano la cittadinanza, non solo penali, ma anche sociali, economiche, finanziarie. Allargando il campo di visuale oltre i confini europei geograficamente stabiliti, per comprendere anche i Paesi euromediterranei, sembra che questa rottura, pur in fase embrionale, sia già in corso.
Sperando che sulla privazione dei diritti fondamentali vincano invece quest’ultimi. Per provare a costruire insieme uno spazio del diritto mite ed aggiungiamo, dalla parte dei cittadini, qualunque sia la loro provenienza.