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Sgombero della Jungle. Un’altra sconfitta dell’Europa dei diritti

di Nicola Scotto, campagna solidale overthefortress

Foto: Nicola Scotto, #overthefortress

Jungle. Questo è il nome che hanno dato al più longevo campo profughi d’Europa. Solo Idomeni, sul confine greco macedone, aveva superato come numero di abitanti la bidonville di Calais.
Giungla. Quasi a voler indicare un piccolo angolo di terra nel cuore dell’occidente in cui qualsiasi tipo di diritto è sospeso, quasi a voler ammettere la sconfitta e l’inadeguatezza dell’Europa a gestire il flusso di rifugiati che si è massificato dall’inizio della guerra in Siria e in Medio Oriente, riversandosi sulle coste del Mediterraneo, ma soprattutto sulla rotta balcanica.

Il campo profughi di Calais contava circa 8.000 abitanti di cui 1.300 erano MIE (Mineurs Isolès Étrangers), minori non accompagnati.

Oggi che il campo è stato sgomberato, provo a tornare indietro di una settimana per ricordare come si viveva nella Jungle prima che l’operazione “umanitaria” del governo francese, ampiamente criticata da tutte le associazioni non embedded, ne decretasse la (temporanea) soppressione.

Sono entrato nell’area poco prima che iniziasse lo smantellamento. I rifugiati bloccati in quel lembo di terra provenivano principalmente da Iraq, Iran, Afghanistan, Siria, Etiopia, Eritrea, Pakistan e Kurdistan. Ad una vista sommaria dall’alto, l’enorme distesa di tende e di piccole auto-costruzioni apparivano un tutt’uno tra loro, dando l’impressione che il campo fosse una vasta area di vita comune. In realtà, addentrandosi nel campo, si scopriva che i ”residenti” si dividevano in comunità a seconda del paese di provenienza e per affinità linguistica, rendendo così il campo diviso in zone diverse, tutte contraddistinte dai propri colori e dalle proprie usanze. A fianco di queste piccole cittadelle etniche si sviluppava un’altra zona, tenuta in sicurezza, dove alloggiavano donne, bambini e soggetti deboli, qui si incontravano anche le scuole e il Pronto Soccorso.
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La situazione del campo, in generale, appariva estremamente grave e precaria.
All’interno mancavano strutture e punti per ottemperare alle più semplici necessità dei rifugiati, tutti i servizi erano sorretti da volontari, lo Stato non solo non ha mai garantito nemmeno delle strutture minime, ma ha sempre creato difficoltà all’arrivo di aiuti e al lavoro delle associazioni. Alcune baracche erano adibite ad ambulatorio medico, ma mancavano attrezzature necessarie per offrire almeno le cure minime per chiunque avesse avuto anche i più semplici problemi di salute.

Molto frequentate e partecipate erano le scuole costruite negli ultimi mesi dagli stessi abitanti della Jungle in collaborazione con le molteplici associazioni che quotidianamente portavano ai migranti aiuti umanitari e materiale, nonché un fondamentale supporto morale e psicologico. La solidarietà a Calais si è sempre espressa in molte forme, tra queste va ricordato il ruolo centrale che hanno avuto le scuole: rappresentavano, infatti, gli unici punti di aggregazione e di socialità all’interno del campo e, quotidianamente, si tenevano lezioni di inglese e francese svolte da volontari. La partecipazione ai corsi era un’opportunità per chiunque avesse voluto apprendere queste lingue, ma anche un modo per i volontari di veicolare informazioni e orientamento legale per richiedere visti d’ingresso e iniziare le procedure di ricongiungimento familiare.
L’Ecole Laique du Chemin des Dunes ne è una dimostrazione.
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Costruita nella parte sud della giungla e considerata un’istituzione all’interno del campo tanto da essere riuscita a resistere alla prima fase di sgombero del sito grazie alle comunità che animavano quel luogo, ha permesso che molti rifugiati ottenessero i documenti necessari a restare e a lavorare in Francia.

Sulle pareti della scuola si potevano osservare disegni che rappresentavano ali, uccelli che si libravano tra le nuvole, rondini. Qui si insegnava a volare, qui si insegnava che niente è perduto, che esiste sempre una strada anche se questa è la più difficile da percorrere. ”A call of Unity” si legge sulle pareti delle baracche, perché solo l’unità, solo la cooperazione rappresentano un approdo, la luce in fondo a questo tunnel di separazione, segregazione e smembramento di qualsiasi tipo di legame affettivo.

I punti di erogazione dell’acqua e i servizi igienici erano sovraffollati e insufficienti per la quantità di persone presenti. La caoticità della vita nel campo, sommata all’assenza di servizi e alla frustrazione dell’attesa, era tale da creare situazioni pericolose, con momenti nei quali il clima di tensione aumentava e faceva scoppiare risse e aggressioni sia ai danni di altri abitanti della Jungle sia di attivisti.
All’interno del campo, però, esistevano forme di microeconomia autogestita portate avanti dagli stessi migranti, tra le tante il ”Kabul Cafè” è stato un esempio di come l’ingegno permetta di sopravvivere alle avversità. Situato nel cuore dell’area afghana, ha rappresentato la grande forza di volontà e l’intenzione da parte di questi coraggiosi viaggiatori di non abbandonare mai quelle che sono le proprio radici. Queste forme di autogestione e cooperazione tra i migranti hanno permesso la creazione di piccoli spazi di autonomia e resistenza vitali alle sussistenza delle comunità.
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Per i migranti Calais doveva rappresentare solo un punto di passaggio, uno snodo da attraversare per raggiungere la Gran Bretagna, la grande meta agognata da tutti gli abitanti del campo. Una breve sosta che in realtà è diventata nient’altro che l’ennesimo muro invalicabile posizionato sul loro lungo cammino: un eterno limbo, un posto di blocco forzato che durava mesi, forse anni, in condizioni di estrema barbarie e senza prospettiva alcuna.

Da qui centinaia di persone hanno rischiato e ancora rischieranno la vita per provare ad attraversare la Manica. Alcuni di loro moriranno, altri subiranno gravi ferite, altri ancora saranno arrestati.

I Lost The Hope”, ”Is this Justice?”, queste sono solo alcune delle strazianti scritte che si potevano leggere sulle umili dimore della Jungle, esprimono chiaramente il senso di sconforto e di arresa che aleggiava tra le migliaia di persone ammassate in pochi metri quadrati. Dopo la notizia dello sgombero data da Hollande lo scorso settembre, tutti qui avevano perso la speranza.
La giustificazione propugnata dal governo francese ricalca quella delle destre xenofobe e razziste: si parla di sicurezza delle persone e diritti (sic!), ma è davvero così?

Di quali diritti parliamo se migliaia di persone sono state trasferite da una parte all’altra della Francia senza tenere in considerazione la loro volontà? A quale sicurezza si riferisce Hollande se l’unica certezza dei migranti è quella di continuare a vivere in condizioni disumane?
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Le motivazioni del governo francese sanno di propaganda elettorale, non convincono nessuno, sappiamo perfettamente che questo non è altro che un modo per provare a nascondere lo scempio che si sta consumando in questi mesi su uno dei confini caldi dell’Europa ”civilizzata” e dei ”diritti”. Le immagini dei pullman e delle file di migranti con il numero identificativo spiegano più di molte parole l’enorme atto di deportazione compiuto, dove anche ai minori non accompagnati, i soggetti più vulnerabili, non è stata garantita una tutela legale adeguata e per alcuni di loro nemmeno l’accoglienza. A molti ragazzi, considerati sommariamente dai poliziotti come maggiorenni, è stata così negata la possibilità di raggiungere i propri familiari che hanno già superato la frontiera.

L’atteggiamento delle forze dell’ordine è indice chiaramente di quanto il razzismo sia penetrato all’interno delle istituzioni, ci dimostra un piano chiaro e preciso, un piano che prevede la criminalizzazione dei flussi migratori, la ghettizzazione e la chiusura totale nei confronti dei migranti.

La tensione dall’inizio dello sgombero è progressivamente aumentata. Negli ultimi giorni ci sono stati scontri e tafferugli con la gendarmeria francese, molti rifugiati hanno abbandonando il sito di loro “spontanea” volontà per raggiungere i luoghi sconosciuti che gli sono stati indicati dalla prefettura francese, ma molti altri non avevano alcuna intenzione di lasciare il campo nella speranza di poter ancora raggiungere l’Inghilterra.
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Tuttavia la polizia francese aveva ricevuto l’ordine tassativo di abbattere il campo e dopo alcuni giorni, tra incendi dolosi, rastrellamenti ed arresti, la resistenza dei migranti che non volevano abbandonare il campo è cessata. Lo scorso marzo, durante l’abbattimento della parte sud del campo si erano già verificati episodi simili con l’incendio delle tende e la denuncia delle associazioni indipendenti di abusi e soprusi delle forze dell’ordine ai migranti.

La distruzione della giungla di Calais è terminata. I governi di tutta Europa hanno deciso nuovamente di ignorare la volontà dei rifugiati e dirottare il “problema” altrove. I rifugiati ora si trovano sparsi in tutta la Francia, alcuni di loro sono accampati a Parigi e tra qualche mese saranno nuovamente a Calais. Molti minori sono rimasti nelle zone limitrofe all’area rasa al suolo senza alcun sostegno se non quello dei volontari.

Ancora una volta l’Europa ha perso e ha fatto vedere al mondo intero che non esiste nessun piano per garantire tutele e dignità alle persone e non c’è nessuna volontà politica a ricercarlo.

Ancora una volta alle porte del vecchio continente si sta consumando una tragedia umanitaria, ancora una volta l’Europa chiude gli occhi, si nasconde, ma stavolta niente potrà sollevarla dalle sue responsabilità, niente potrà cancellare il sangue che sporca i suoi mari e i suoi monti, niente potrà salvarla.