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L’immigrato buono e quello cattivo, per una nuova ontologia dell’essere

Di Nicole Valentini

Nel 2017 un sondaggio condotto dall’Istituto di ricerca politica e sociale Demos restituiva l’immagine di un’Italia ostile e impaurita. Un’Italia nella quale una persona su due affermava di considerare gli immigrati un pericolo per il Paese. Gli ultimi risultati elettorali nazionali ed europei sembrano aver confermato quest’immagine. A due anni di distanza, nonostante molti problemi seri come la stagnazione economica, il riscaldamento globale, l’inquinamento, l’invecchiamento della popolazione, la lenta e inesorabile distruzione della sanità e quella dell’istruzione, nonché una procedura europea d’infrazione sventata per un soffio, molti italiani hanno deciso che il loro problema principale fosse l’immigrazione. Per questo motivo la proposta di politiche immigratorie restrittive, quand’anche impraticabili o lesive dei diritti umani, si è dimostrata essere (almeno nel breve periodo) la carta vincente per accrescere il consenso politico.

In realtà molte delle iniziative politiche di oggi presentano elementi di continuità con le politiche del governo precedente. Ad esempio, il nuovo decreto sicurezza bis con il quale si sono di fatto criminalizzati i salvataggi in mare, non è altro che la naturale continuazione del cosiddetto Codice Minniti del 2017. Anche sotto il governo Renzi infatti l’immigrazione era considerata come un’emergenza da gestire, un’emergenza tanto grave da togliere il sonno all’ex ministro degli Interni Minniti, il quale a proposito della questione migranti affermò di “aver temuto per la tenuta democratica del paese“. Eppure quest’emergenza andrebbe misurata un po’ come si misura la temperatura: ovvero facendo un distinguo tra “reale” e “percepita“. I dati infatti dimostrano che non esiste alcuna emergenza e che il problema sembra essere più di natura politico-sociale che securitaria.

In questi ultimi anni il Mar Mediterraneo si è trasformato in uno dei cimiteri più grandi al mondo (i dati parlano di almeno 18000 vittime annegate dal 2014 ad oggi) e se è pur vero che dal 2016 gli arrivi e i morti in mare sono diminuiti 1, ciò è imputabile unicamente alle nostre politiche europee a causa delle quali migliaia di persone si trovano ora in qualche lager libico, dove stupri e torture sono all’ordine del giorno.

Eppure non è iniziato tutto con la vincita alle ultime elezioni di un governo ultra populista e di certo non si può affermare che si tratti di un problema esclusivamente italiano.
Il tema dell’immigrazione è causa di una forte polarizzazione che ha dato vita ad una sorta di dicotomia estrema in gran parte del mondo Occidentale. Eppure è proprio questo dualismo che contrappone l’immigrato buono all’immigrato cattivo ad averci almeno in parte condotto dove siamo oggi. Un esempio di come ciò sia potuto accadere è rappresentato dal seguente articolo di Repubblica dal titolo “Voghera, commessa aggredita dall’ex marito salvata grazie al coraggio di un immigrato“.

Anche quando infatti, come presumibilmente in questo caso, ci si vorrebbe schierare a favore di politiche più umane, in realtà non si fa altro che corroborare la stessa narrativa: l’immigrato è categoria umana e non individuo, egli è l’eccezione alla norma e come tale va definito. La notizia riportata da Repubblica infatti, non è che una commessa aggredita sia stata salvata, ma che a salvarla sia stata un immigrato. L’immigrato perciò, e qui però sarebbe il caso di aggiungere “povero”, espleta se stesso nella sua azione e lì vi trova compimento, fine e significato.

Non è un caso che nonostante queste persone provengano da Paesi, lingue, religioni e culture diverse, ci si riferisca sempre a loro come ad un insieme omogeneo nel quale le azioni del singolo ricadono su un intero ed inesistente gruppo. Si parla così di “immigrato eroe” quando si vuole fornire un messaggio politico più distensivo ma pur sempre paternalista.
A colei o colui che è emigrato in Italia, non è concesso divenire, salvo divenire forse il singolo caso che possa confermare i nostri stereotipi. Egli deve infatti restare spoglio d’identità al fine di confermare la visione dell’una o dell’altra parte.

Questa narrazione dicotomica da ambedue gli spettri del discorso pubblico attorno al tema dell’immigrazione, non ha fatto altro che eliminare la singolarità dall’individuo conducendo inevitabilmente ad un processo di disumanizzazione del quale oggi vediamo gli effetti.

Prima ancora di gettarci in diatribe politiche infuocate, dovremmo perciò forse fermarci e tornare per un momento ad interrogarci sulla natura stessa dell’essere umano. Un essere umano concepito ontologicamente al di là delle proprie manifestazioni.

Tutti potremmo trarre beneficio da questo passo indietro, perché in fondo tale polarizzazione non solo è lesiva della dignità umana proprio in quanto elimina la dimensione ontologica dell’essere, ma risulta tanto più deleteria in quanto strumento politico affinato e sfruttato a più latitudini per evitare di doversi confrontare con la propria incapacità di fronteggiare i reali problemi che affliggono la società e il suo presente.

  1. Su questo punto controverso è utile leggere l’articolo di MEDU per comprendere che in realtà il rapporto tra migranti che hanno perso la vita nel cercare di attraversare il Mediterraneo centrale e coloro che sono riusciti effettivamente ad arrivare sulle coste italiane è passato da 3 su cento nel 2017 a 32 su cento nel 2019: https://www.meltingpot.org/I-morti-nel-Mediterraneo.html