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Imprigionata, respinta, violata, espulsa

La storia di Leyla dall’Iran alla Svizzera attraverso i balcani e la deportazione in Croazia

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«Sono stata in viaggio verso l’Europa per sei anni e ora mi hanno espulsa. Non riuscirò mai a dirti come mi sento. Sto solo così male».

Sono le parole di Leyla (nome di fantasia) che conosco da ormai più di un anno. Entrambe ci trovavamo nella frontiera tra Bosnia e Croazia; io come solidale, lei come persona in transito. Qualche mese fa mi racconta dell’ennesimo abuso del regime confinario, questa volta però proprio nel cuore della Fortezza Europa: l’espulsione dalla Svizzera e la deportazione in Croazia.

Dopo che No Name Kitchen pubblica la sua testimonianza 1 e grazie al suo instancabile lavoro di denuncia degli abusi ai confini, la storia di Leyla raggiunge una giornalista svizzera che racconta di Leyla e delle multiple violenze subite 2. Dopo l’uscita dell’articolo, mi dice che si sente felice che, forse, grazie alla sua storia queste cose non succederanno ad altre persone nel futuro. Per più di un anno, Leyla non mi aveva mai detto di sentirsi felice.

Leyla è una persona transgender iraniana, attivista per i diritti della comunità LGBTQI+. In Iran, da quando è al potere il governo islamico, migliaia di omosessuali e transessuali vengono perseguitati e giustiziati, perciò, Leyla si attiva su Internet sotto pseudonimo. Nel 2016 viene arrestata per il suo attivismo.

Racconta che rimane in prigione un anno, dove viene aggredita sessualmente, torturata di notte. Grazie alla pressione di organizzazioni per i diritti umani, viene rilasciata.

«Quando sono stata rilasciata, non ero più una persona normale. La mia anima e il mio corpo erano distrutti e ho dovuto fuggire dall’Iran».

Dopo una settimana sulle montagne, arriva in Turchia dove intraprende una terapia ormonale. Rimane nel paese un anno, poi raggiunge la Grecia e la Bulgaria. In Bulgaria ci resta per dieci mesi, poi raggiunge la Bosnia. In Bosnia prova ad attraversare il confine con la Croazia decine di volte, ma viene ripetutamente picchiata, derubata degli effetti personali, respinta e deportata in Bosnia, come accade sistematicamente alle persone in transito che vengono catturate dalla polizia croata. Una violenza che sembrava essersi ridotta dalla seconda metà del 2022, ma che negli ultimi mesi di quest’anno vede riproporsi le modalità brutali che conosciamo.

Durante uno dei game (ovvero i tentativi di attraversamento della frontiera, come lo chiamano in molte persone in movimento), la polizia croata la abbandona nelle foreste bosniache, sola e di notte. Mentre ritorna dalla foresta, alcune persone la fermano, la picchiano, le legano mani e piedi e la violentano. Leyla soffre di una forte depressione, rimane a lungo in ospedale in Bosnia, assume dei fermaci. Inizia ad avere il terrore di provare di nuovo il game, ha paura della foresta e della polizia croata. 

Nel 2022, riesce a raggiungere la Svizzera. Ma quando prova a fare richiesta di asilo, risulta essere un caso Dublino: la Croazia, dove la polizia le aveva prelevato con la forza le impronte digitali, è il primo paese di primo arrivo nella Fortezza Europa per Leyla, perciò secondo il regolamento di Dublino, si tratta dello Stato competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Leyla dovrà essere trasferita là, tornare indietro in un paese in cui non si sente sicura dopo quello che ha passato e come moltissimi altri lì non ci voleva rimanere, tanto meno tornarci.

Dopo essere rimasta in Svizzera per quasi un anno, a settembre 2023 la polizia svizzera la deporta in Croazia. «Ho raccontato loro [alla polizia svizzera] la brutalità della polizia croata. Ho raccontato degli stupri al confine tra Croazia e Bosnia. Sapevano che prendevo quotidianamente antidepressivi ad alte dosi, ma nonostante tutto mi hanno cacciato con molta violenza. Hanno preso tutti i miei vestiti e le mie cose e non mi hanno restituito nulla, tranne il telefono e i vestiti che indossavo».

Prima di essere trasferita, Leyla racconta di essere stata spogliata più volte e lasciata in isolamento per due giorni. Poi viene messa su un aereo privato con altre due persone e dieci agenti.

«Ci hanno trattato come animali. Mi hanno picchiato molto, mi hanno legato mani e piedi a una sedia e mi hanno chiuso bocca e occhi. Sentivo che avrei potuto soffocare da un momento all’altro».

Le hanno lasciate all’aeroporto di Zagabria e hanno dovuto camminare, a lungo. «Non riesco a credere di essere riuscita a uscire viva da quell’aereo, perché ho attacchi di panico ogni giorno e sono svenuta diverse volte durante il viaggio perché ero così stressata». Ma Leyla ha avuto la forza di andare avanti ancora, nonostante tutto, e in Croazia non ci è rimasta. Ora si trova in un altro paese europeo che cerca di ricominciare, ancora una volta. 

Ma quando finisce il viaggio?

Mi chiedo al posto di fornire protezione e cura a un corpo e una mente annientati prima dal suo paese di origine, poi da un viaggio pericoloso e violento, è la stessa Europa a riprodurre le medesime dinamiche di allentamento, abbandono, violenza, umiliazione, dolore dopo il dolore. Un’Europa che dovrebbe accogliere e proteggere. Ma Leyla rivendica la sua voce, fin troppe volte silenziata e rimasta inascoltata, per tutte le Leyla del mondo discriminate e razzializzate. 

  1. Qui la testimonianza di Leyla
  2. Expulsée de Suisse vers la Croatie malgré sa transidentité, une Iranienne raconte son périple, ArcInfo

Sara Minolfi

Laureanda magistrale in Peace and conflict studies all’Università di Torino. Come studentessa, attivista e aspirante ricercatrice, mi occupo di confini e delle persone che li attraversano nonché delle interconnessioni tra cambiamenti climatici, migrazioni e conflitti.