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Ph: Bozen Solidale
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Quattro ore di macchina. Dalla Bosnia ed Erzegovina a Trieste

Un reportage dal viaggio di Bozen Solidale

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Di Matteo De Checchi e Valentina Juric

Bozen Solidale percorre, per la seconda volta in un mese, la cosiddetta Rotta Balcanica. Respingimenti, violenze, torture sono all’ordine del giorno mentre le istituzioni europee continuano a militarizzare i confini e a finanziare le pratiche repressive della polizia croata. 

Dal confine nord-orientale della Bosnia ed Erzegovina si arriva a Trieste in meno di quattro ore, basta fare il pieno alla macchina e il viaggio fila liscio quasi sempre senza intoppi; ovviamente per noi che abbiamo il passaporto “giusto“, perché altrimenti è tutto molto più complicato.

Osservando la monotonia del paesaggio invernale fuori dal finestrino che con il brutto tempo sfocia in desolazione, può capitare di incontrare, mentre si viaggia in auto verso il confine bosniaco-croato nei pressi di Velika Kladuša, carovane di persone, per lo più ragazzi, che camminano per strada o aspettano l’autobus. Se vanno nella direzione opposta al confine croato, si può quasi star certi che abbiano, per l’ennesima volta, provato il “Game”.

The Game” è il nome che viene dato dalle persone migranti che tentano di attraversare una frontiera. Per coloro che transitano in Bosnia ed Erzegovina, la sfida successiva è passare indenni il confine croato senza venire rimandati indietro dalla polizia.

A Velika Kladuša o nella vicina Bihać, quasi tutti i ragazzi che abbiamo incontrato, una volta presa una certa confidenza, ci hanno raccontato dei loro tentativi di superare il Game e la maggior parte di loro ci aveva già provato almeno cinque volte. Tra inglese stentato e traduttori online imprecisi, non sempre è stato facile riuscire a capirsi.

Quello che però possiamo assicurare è che, tra le decine di ragazzi afghani, pakistani, bengalesi e marocchini che abbiamo incontrato, il racconto era sempre lo stesso. Tutti, infatti, ci hanno parlato – e i loro corpi spesso lo testimoniavano – di violenze da parte della polizia croata, che quasi sempre non si limita a respingere le persone che considera irregolari ma, per scoraggiare ulteriori tentativi di ingresso sul territorio croato, fa entrare le persone nei fiumi in pieno inverno, dopo aver sequestrato zaini, cellulari e, a volte, anche i vestiti. 

In un negozietto di alimentari all’entrata del “Lipa camp” vicino a Bihać, Mohamed, un signore marocchino, ci ha raccontato, per esempio, di un amico che ha perso le dita dei piedi dopo che la polizia lo ha fatto stare in acqua nel freddo di gennaio. Storie simili si sentono così spesso tra le persone che sono state respinte in Bosnia ed Erzegovina, che è difficile immaginare siano prive di fondamento. I pestaggi e le violenze sono, purtroppo, solo uno degli aspetti terribili di questo “Game”, che è già di per sé un’esperienza ai limiti della sopportazione, se si considera che le persone migranti in transito sono vestite quasi sempre in modo non adatto e camminano per i boschi e montagne per giorni, spesso senza avere niente da mangiare e con qualsiasi condizione atmosferica.

Il “Lipa camp”, situato nel centro del parco nazionale di Una è stata la nostra prima tappa lungo la cosiddetta rotta balcanica ed è un non luogo pieno di desolazione, dove le persone dormono in container circondati da alte recinzioni. In un territorio estremamente povero, dove le conseguenze della guerra civile di trent’anni fa sono ancora evidenti sui muri crivellati dai proiettili di molti edifici del centro di Bihać, per i bosniaci la convivenza con le persone migranti è una lotta tra poveri. E poiché il problema non è di certo di facile soluzione, l’impressione è che si sia cercato di ignorarlo completamente.

Come? Costruendo un enorme campo a circa 25 km dalla città, nell’assoluto nulla, difficilissimo da raggiungere; lì le persone sono totalmente isolate e per andare in città per qualsiasi bisogno elementare sono costrette a chiamare un taxi. Cinque euro per l’andata e cinque euro per il ritorno, a testa, per persone che spesso non hanno niente in tasca.

Per alcuni che abbiamo intervistato, al campo di Lipa si sta anche abbastanza bene, almeno non piove dal tetto e non fa freddo come nei tanti “squats” sparsi nella zona, dove molti si raggruppano prima di proseguire il viaggio. Per altri invece, è un altro inferno di violenza e furti costanti. Abbiamo provato ad avvicinarci per farci un’idea di come fosse questo posto costruito con i soldi dell’Unione europea e gestito dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), ma non ci è stato permesso.

Il campo di Lipa – PH: Bozen Solidale

Le persone migranti a Lipa se ne stanno lì, in attesa di riprovare ancora, per chissà quante volte, il “Game” e di venire probabilmente nuovamente respinti con violenza in un circolo vizioso. Le autorità bosniache, soprattutto quelle croate e, in generale, quelle europee che di fatto legittimano, sono ben consapevoli di tutto questo avendo, negli anni, dato vita ad una vera e propria guerra di confini contro le persone in movimento. Quello che si vede sul confine nord-orientale ci conferma che per queste persone, i diritti e l’uguaglianza dei trattati e delle convenzioni europee non sono altro che parole vuote, per rassicurare la coscienza di chi è dentro il fortino e certe cose non le vede. 

Dentro Lipa, come in altri luoghi altrettanto poco piacevoli sparsi nella zona di frontiera e che abbiamo visitato quando eravamo in Bosnia, ci sono tante persone che arrivano da anni di viaggi. Partono per i motivi più disparati, chi per guerre, chi per persecuzioni e chi semplicemente perché sogna una vita migliore di quella che gli offre un paese in crisi. Sono persone che spesso si portano dietro traumi pesanti, che nell’indifferenza generale si andranno senz’altro ad appesantire.

Quelli che riescono a “vincere il Game”, arrivano stremati a Trieste, la prima città dell’Italia tanto sognata. Ne abbiamo incontrati molti in Piazza del Mondo dove ogni sera da diversi anni, Gian Andrea e Lorena, insieme a volontari/e ed attivisti/e di Linea d’Ombra, distribuiscono un pasto caldo alle persone transitanti. Nella fila per la cena, la precedenza viene data a chi è appena arrivato. Le abbiamo viste quelle facce. Si tratta di gente stremata da giorni di cammino. Sono “arrivati”? Il loro sogno si è finalmente realizzato? 

Entrando nel Silos, che è un enorme edificio abbandonato vicino alla stazione di Trieste dove trovano rifugio le persone in attesa di ricevere un posto nell’accoglienza, non si ha certo questa impressione. Dentro dormono, anche per mesi, persone di diverse provenienze in pessime condizioni igienico sanitarie. Nonostante l’indigenza assoluta, l’ospitalità non manca e chiacchierando con i ragazzi che ci vivono, riesce quasi impossibile rifiutare una tazza di tè o un pane cucinato alla bell’e meglio. Il Silos è un luogo di vita e tristezza che ripropone, con altre coordinate geografiche, la stessa desolazione dei luoghi che abbiamo visto in Bosnia. 

Lasciare queste persone in una situazione di totale degrado è una scelta politica e non è vero che non si può immaginare un modo e un mondo diverso. La questione migratoria è una problematica complessa e le soluzioni non sono certo facili. Tuttavia, non è ammissibile relegare queste persone negli angoli più nascosti delle città e delle frontiere, pensando che ciò sia sufficiente per pulirci  la coscienza. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia questa realtà.

Bozen Solidale

Bozen Solidale ODV è un’associazione di volontariato nata nel 2018 per monitorare la situazione delle persone migranti e senza fissa dimora sul territorio e dare loro supporto. Oltre ad essere impegnata nel contesto altoatesino, monitora la situazione lungo la rotta balcanica e del Brennero.