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Il genocidio dimenticato dei Rohingya: racconti dal campo profughi di Cox’s Bazar

La testimonianza di Ro Maung Hla Myint, attivista e fotoreporter freelance Rohingya

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Non ho dubbi sul fatto che i Rohingya siano sempre stati uno dei popoli più discriminati al mondo, se non il più discriminato, senza alcun riconoscimento dei diritti più elementari, a partire dal riconoscimento del diritto di cittadinanza da parte del loro Paese, il Myanmar.
Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres

Il campo profughi di Cox’s Bazar, il più grande del mondo, nel sud-est del Bangladesh, ospita quasi un milione di Rohingya, ad oggi una delle più grandi popolazioni apolidi del mondo. Provengono principalmente dallo stato del Rakhine, in Myanmar, e sono di religione islamica sunnita. Non possiedono la cittadinanza birmana dal 1982 1, non possono muoversi liberamente in Myanmar o avere più di due figli, né hanno diritto alla proprietà privata.

La maggior parte di loro è arrivata nello stato bengalese nel 2017, anno in cui si acuirono le violenze nei confronti dei Rohingya 2. Sui crimini commessi dal Tatmadaw, le forze armate birmane, emersero testimonianze atroci da parte dei sopravvissuti: uccisioni di massa e stupri di gruppo 3, villaggi rasi al suolo e le più disparate violazioni dei diritti umani furono compiute in quei mesi. Chi dei Rohingya riuscì ad attraversare il confine si rifugiò principalmente a Cox’s Bazar, nella regione bengalese del Chittagong, e in numero minore nelle vicine Malesia, Thailandia, Indonesia.

Cox’s Bazar è tutt’oggi uno dei campi profughi più densamente popolati al mondo. Riunisce più di 30 campi individuali in appena 24 chilometri quadrati. Le famiglie vivono in alloggi di fortuna, utilizzando servizi igienici e acqua in comune. «Il più affollato di tutti questi rifugi è il Campo 3, con solo 12 metri quadrati disponibili per persona. Ciò equivale a svolgere tutte le faccende e le attività della vita quotidiana in uno spazio di soli 3,5 metri per 3,5 metri – la dimensione di una camera da letto», racconta Al Jazeera 4.

L’intera esistenza della comunità dipende dagli aiuti umanitari, solo una piccola parte dei bambini va a scuola e i Rohingya non sono autorizzati né a spostarsi né a lavorare. Incendi, anche di natura dolosa, sono molto frequenti. Nel 2021, a seguito di un enorme incendio, 15 profughi Rohingya morirono, 400 risultarono dispersi e 45 mila sfollati.

«Anche a gennaio di quest’anno più di 1.200 rifugi nel campo sono stati distrutti da un incendio», ci racconta Ro Maung Hla Myint, attivista, fotografo e fotoreporter freelance Rohingya che vive a Cox’s Bazar da agosto 2017 5.

«Le persone sono rimaste senza una casa, e la situazione nel campo sta peggiorando. Non c’è sicurezza, negli ultimi quattro anni tanti sono morti o sono stati rapiti». Nel 2019 ha co-fondato Rohingya Students Unity for Rights (RSUR) 6, un’associazione che opera nell’enorme campo bengalese, fornendo assistenza alimentare, sanitaria, educativa. In occasione dell’incendio, diedero assistenza agli sfollati, fornendo acqua, pasti, coperte e tutto il necessario alla sopravvivenza durante l’emergenza.

Il genocidio dei Rohingya in Myanmar: cosa accadde e qual è la situazione attuale

Le radici del conflitto interno al Myanmar tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana sono da riscontrarsi nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, quando il Paese acquisì l’indipendenza dal Regno Unito e scoppiò una violenta guerra civile, poiché diverse minoranze etniche – tra cui i Rohingya – e il Partito Comunista di Birmania presero le armi contro il governo centrale guidato da U Nu. Il tentativo fallì, e il neo-costituito governo burmese iniziò a considerare la popolazione musulmana un gruppo ostile al Myanmar. Fu durante la dittatura militare che la persecuzione politica e sociale nei confronti del popolo Rohingya assunse connotati genocidari.

Dopo la fine della dittatura militare, due ondate di violenza investirono lo Stato di Rakhine nel giugno e nell’ottobre 2012, colpendo 12 città. Per mesi, una campagna d’odio e di disumanizzazione fu portata avanti, guidata dal Partito per lo Sviluppo delle Nazionalità Rakhine (RNDP), da varie organizzazioni Rakhine, alti monaci buddisti e diversi funzionari. Durante tutta la campagna d’odio, i Rohingya furono etichettati come «immigrati illegali» 7, «terroristi», o come una «minaccia esistenziale» per il Paese. Nei violenti attacchi del 2012, uomini, donne e bambini Rohingya vennero uccisi, sepolti in fosse comuni, i loro villaggi e quartieri rasi al suolo. La situazione si aggravò ulteriormente nel 2015, quando il governo birmano annullò formalmente le carte d’identità temporanee, ultima forma di identificazione ufficiale dei Rohingya.

Moltissime furono le fughe via mare: solo nei primi tre mesi del 2015, secondo l’Organizzazione non governativa Human Rights Watch (HRW), se ne contarono circa 28.500 8. La stessa ONG ha denunciato come i Paesi confinanti con il Myanmar siano stati ostili nei confronti dei migranti Rohingya, attuando dei veri e propri pushback delle navi: Malesia, Thailandia, Indonesia e Bangladesh sono i paesi che hanno scatenato le reazioni della comunità internazionale per i respingimenti forzati e le violazioni dei diritti umani.

Nel marzo 2017, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite istituì la Missione Internazionale indipendente di accertamento dei fatti sul Myanmar (IIFFMM) 9 per stabilire i fatti e le circostanze delle presunte violazioni dei diritti umani da parte delle forze militari e di sicurezza nel Paese, il cui mandato si è concluso a settembre 2019 dopo la produzione di diversi rapporti. La situazione in Myanmar è tornata instabile dopo il colpo di Stato del 4 febbraio 2021. I militari sono infatti tornati al potere da ormai tre anni, dopo aver arrestato Aung San Suu Kuy e diversi altri esponenti di spicco della Lega nazionale per la democrazia (Lnd).

A fine marzo António Guterres, segretario Onu, si è mostrato preoccupato per le nuove crescenti violenze nel paese, dopo che gli attacchi aerei militari nella parte occidentale del Myanmar hanno ucciso almeno 25 Rohingya, compresi diversi bambini, secondo quanto riportato dai media locali. I Rohingya stanno ancora una volta sopportando il peso dei nuovi combattimenti e degli attacchi aerei militari in Myanmar.

L’ultima ondata di combattimenti da parte di gruppi armati che vogliono rovesciare il colpo di Stato militare del 2021 è scoppiata alla fine di ottobre dello scorso anno. «La giunta birmana ha bombardato indiscriminatamente le aree Rohingya in diversi comuni dello Stato di Rakhine», ha dichiarato Nay San Lwin 10, cofondatore della Free Rohingya Coalition, una rete globale di attivisti Rohingya.

HRW nel mese di aprile denuncia che l’esercito del Myanmar ha rapito e reclutato con la forza più di 1.000 uomini e ragazzi musulmani Rohingya in tutto lo Stato di Rakhine dal febbraio 2024 11.

Fonte: Wikimedia Commons (Camp 26, Cox’s Bazar)

Non solo in Myanmar, ma anche in Bangladesh la situazione sta diventando insostenibile: «Le persone stanno andando via da Cox’s Bazar a causa delle condizioni del campo e di gruppi armati – forse mandati dall’esercito birmano – che nei rifugi compiono violenze e creano caos», ci spiega Ro Maung Hla Myint. «Fuggono in Indonesia, con viaggi di fortuna in cui molti muoiono e non arrivano a destinazione, o in Malesia e in India».

Partono su piccoli pescherecci sovraccarichi, che spesso non arrivano neanche a destinazione: a fine marzo, a seguito del naufragio di una barca vicina alla spiaggia di Kuala Bubon, sulla costa occidentale di Aceh (Indonesia), si sono salvate solo 69 persone, su 150 partite dalla Birmania 12. Il bilancio del 2023 di almeno 569 Rohingya morti o dispersi mentre cercavano di fuggire dal Myanmar o dal Bangladesh è stato il più alto dal 2014, ha dichiarato l’UNHCR a gennaio.

Perché i Rohingya accusano Facebook di essere tra i responsabili del genocidio?

Da anni i rifugiati Rohingya affermano che Meta ebbe un’enorme responsabilità nella diffusione di messaggi d’odio nei confronti della propria popolazione, e chiedono risarcimento. Facebook è attualmente il social media dominante in Myanmar: a febbraio 2022, gli utenti di Facebook birmani erano il 37% dell’intera popolazione, creando una situazione in cui, come definito dall’IIFFMM, nel Paese «Facebook è internet». Secondo l’IIFFMM la crescita e la formazione di gruppi nazionalisti buddisti – tra i più importanti vi è il Ma Ba Tha – ha coinciso con la diffusione di Facebook in Myanmar.

Un’inchiesta di Reuters pubblicata nel 2018 ha documentato e analizzato più di 1.000 esempi di post, commenti e immagini che attaccano i Rohingya e altri musulmani su Facebook 13. Non solo i generali maggiori, ma anche i soldati di grado inferiore utilizzarono Facebook per veicolare i propri messaggi d’odio, mentre nella regione del Rakhine si compivano violenze senza precedenti.

Le analisi sono state ulteriormente rafforzate da un’inchiesta pubblicata dal New York Times nell’ottobre 2018: secondo il quotidiano statunitense, i militari del Myanmar «sono stati i principali operatori dietro una campagna sistematica su Facebook che si è protratta per mezzo decennio e che ha preso di mira il gruppo minoritario Rohingya, per lo più musulmano, del Paese» 14. Il 1° settembre 2017, il generale maggiore Min Aung Hlaing, attuale Primo ministro della Birmania e comandante in capo delle Forze armate dal 2011, scrisse sulla sua pagina Facebook: «Dichiariamo apertamente che nel nostro Paese non esiste una razza Rohingya».

Nel giugno 2018, Facebook riconobbe pubblicamente, attraverso un’audizione di Mark Zuckerberg al Senato statunitense, di essere stata “troppo lenta” nel reagire alla diffusione dei discorsi d’odio in Myanmar durante tutto il 2017. Diversi fattori causarono questa inadeguatezza da parte della piattaforma. Primo fra tutti, l’assenza di content moderator che sapessero parlare birmano: nel 2014, un dipendente di Meta ammise in modo anonimo che in quel momento la società aveva un solo moderatore di contenuti in lingua birmana, che però comunque non lavorava in Myanmar, ma nell’ufficio di Dublino.

Oltre alla mancanza di personale adeguato, la maggior parte delle misure intraprese da Meta si sono rivelate insufficienti e, in alcuni casi, anche controproducenti: nel 2014, la piattaforma introdusse un pacchetto di sticker a disposizione degli utenti per rispondere ai contenuti d’odio, con un’iniziativa denominata “Panzagar”, o “discorso dei fiori”.

Gli algoritmi interpretarono l’uso degli stickers come segni di approvazione del contenuto pubblicato, facendo così aumentare la visibilità dei post che contenevano messaggi d’odio. Secondo un dettagliato rapporto di Amnesty 15 il contributo di Meta nell’amplificazione delle violazioni sui diritti umani contro i Rohingya è stato di natura sostanziale, a causa delle caratteristiche principali della piattaforma – il feed di notizie, gli algoritmi dei contenuti e di moderazione, gli advertising – che hanno portato ad un’amplificazione, distribuzione e promozione di post che incitavano all’odio e alla violenza.

Facebook non è stata però l’unica piattaforma in cui questi messaggi d’odio contro i musulmani Rohingya si sono diffusi: anche su Twitter, durante il 2017, centinaia di messaggi vennero pubblicati con l’intenzione di ritrarre la minoranza Rohingya come migranti illegali “bengalesi”, non appartenenti al Myanmar. Tra i messaggi diffusi, a titolo esemplificativo, se ne riportano alcuni: «Non ci sono Rohingya in Myanmar, sono solo immigrati illegali e terroristi», «Sono bengalesi d’origine, immigrati clandestini e saccheggiatori di terre».

La comunità internazionale conferma le accuse di genocidio verso il Myanmar

Maung Sawyeddollah, che da sei anni vive a Cox’s Bazar, su Al Jazeera attacca Facebook 16, denunciandone le responsabilità nel contribuire all’odio e alle violenze nei confronti della comunità musulmana in Myanmar: «Ho capito che Facebook poteva essere uno strumento di odio per la prima volta nel 2012, quando avevo solo 11 anni. Un gruppo di Rohingya era stato accusato di aver violentato e ucciso una ragazza buddista. Per quanto ne so, quell’atroce crimine non è mai stato risolto. Ma la mancanza di prove non ha impedito alla gente di incolpare tutta la nostra comunità. I discorsi di odio contro la mia gente sono diventati comuni nei post su Facebook».

Questa situazione ha spinto i rifugiati Rohingya a perseguire la giustizia e la via del risarcimento nei confronti di Meta, sia per questioni di principio, che per urgente necessità materiale. Dal 2019 in poi, svariate denunce sono state presentate – in diversa forma e natura giuridica – senza ottenere l’effetto sperato. Nel novembre dello stesso anno il Gambia ha intentato una causa contro il Myanmar alla Corte Internazionale di Giustizia per violazione della Convenzione sui Genocidi.

A novembre 2023 Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi e Gran Bretagna si sono uniti alla causa. Ro Maung Hla Myint, insieme agli attivisti e alle attiviste del Rohingya Students Unity for Right, stanno contribuendo alle indagini sul campo che cercano di trovare prove del genocidio. «Stiamo fornendo loro prove da Cox’s Bazar. In un anno sono venuti tre volte al campo. Siamo fiduciosi, speriamo che il caso si concluda molto presto».

Nel dicembre 2021, decine di rifugiati Rohingya hanno presentato una class action nei confronti di Facebook nel Regno Unito e negli Stati Uniti 17, (Doe v. Meta) accusando la piattaforma di aver consentito la diffusione dell’incitamento all’odio nei loro confronti e chiedendo un risarcimento di più di 150 miliardi di dollari.

Il gruppo di Rohingya che ha presentato il ricorso chiede che venga applicata la normativa del Myanmar, dove sono presenti diverse limitazioni nella condivisione online, a differenza della normativa statunitense che invece offre ampio margine d’azione a Facebook e alla pubblicazione dei contenuti da parte degli utenti, in applicazione della c.d. “Sezione 230”, la normativa statunitense in materia di social network approvata nel 1996. La possibilità che la class action si risolva in un nulla di fatto per i Rohingya è alta. Nonostante ciò, Anupam Chander, esperto di regolamentazione delle nuove tecnologie, considera il procedimento legale come un segnale importante: Facebook può avere ripercussioni sui diritti umani delle popolazioni più a rischio.

Quello dei Rohingya non è però un caso isolato: gli algoritmi di Meta rischiano di creare ulteriori danni sociali in particolare nei contesti del Sud globale, alimentando l’odio, la violenza e la discriminazione nei confronti di comunità spesso già oppresse. L’era delle Big Tech ha permesso alle piattaforme – spesso a causa di regolamentazioni non sufficienti formulate da attori globali e nazionali – di introdurre modelli commerciali basati sulla sorveglianza e sulla propagazione di messaggi d’odio.

Meta manca di dare risposte concrete alla popolazione Rohingya dislocata a Cox’s Bazar, che da tempo chiede forme di riparazione che permettano loro quanto meno di accedere ai servizi essenziali: un tetto, cibo, istruzione. Così come tralascia di dare risposte a tutte le comunità e minoranze a cui è mancata, manca e mancherà una giusta tutela sulle due piattaforme (Facebook e Instagram) che contano insieme più di 2,8 miliardi di utenti attivi mensilmente.

  1. Myanmar: The Rohingya Minority: Fundamental rights denied, Amnesty International (2004).
  2. Myanmar to investigate video of police beating Rohingya villagers – The Guardian (2017)
  3. Un video di Internazionale (2018)
  4. What is life like inside the world’s biggest refugee camp? – Al Jazeera (Agosto 2023)
  5. Segnaliamo Rohingyatographer, un progetto di espressione creativa e resilienza situato nel cuore di Cox’s Bazar. “Rohingyatographer è un collettivo di appassionati fotografi e artisti Rohingya. Uniti dall’amore e dalla dedizione, ci proponiamo di condividere le storie della nostra comunità attraverso l’arte della fotografia e della scrittura
  6. L’associazione è molto attiva sui social, pubblicando aggiornamenti periodici sulle attività a Cox’s Bazar su Facebook, Instagram e X
  7. Impunity in Myanmar: a case of impotence or inaction on behalf of the international community? – Generation for Rights Over the World (2022)
  8. Southeast Asia: End Rohingya Boat Pushbacks – HRW (2015)
  9. Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar – United Nations Human Rights Council (2019)
  10. How is renewed violence in Myanmar affecting the Rohingya? – Al Jazeera (2024).
  11. Myanmar: Military Forcibly Recruiting Rohingya – HRW (9 aprile 2024)
  12. ‘A living death’: Camp conditions push Rohingya to the high seas – Frontier, Myanmar (10 aprile 2024)
  13. Why Facebook is losing the war on hate speech in Myanmar, Reuters (2018)
  14. A Genocide Incited on Facebook, With Posts From Myanmar’s Military – New York Times (2018)
  15. Myanmar: The social atrocity: Meta and the right to remedy for the Rohingya, Amnesty International (2022)
  16. Facebook should pay for what it did to my people, Rohingya – Al Jazeera (agosto 2023)
  17. Qui il link

Albertina Sanchioni

Mi sono laureata in Sicurezza Globale con una tesi sulle implicazioni sui diritti umani degli algoritmi relativi all’hate speech nei social network, con un focus sul caso del popolo Rohingya in Myanmar.
Volontaria dello sportello anti-tratta a Torino, frequento il Master in “Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati” all’Università Roma Tre.