Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Racconti da Idomeni, ai confini della fortezza Europa. 5/10 Maggio 2016

di Simona Talamo (LESS) e Lassaad Azzabi (cooperativa Dedalus)

Angelo Aprile, campo di Idomeni

“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità” (F. De Andrè)

21 maggio 2016 – Binari ferroviari, simbolo del viaggio e del tempo sospeso. Stazioni, simbolo dell’attesa. Si arriva ad Idomeni aspettandosi disperazione e gente bisognosa. E invece ci si trova di fronte ad una umanità accampata sui binari che, proprio come in una stazione, è in attesa di riprendere il proprio viaggio con dignità ed ostinazione.
Resistono e non si arrendono all’ottusa volontà di chiudere le frontiere e con esse la speranza di cambiare la vita propria e quella dei propri figli. Famiglie intere in movimento, uomini, donne, bambini.
I bambini di Idomeni vivono un’infanzia che noi abbiamo dimenticato: liberi, sempre gioiosi e sorridenti e pronti ad inventarsi un aquilone con un sacchetto dell’immondizia e corrergli dietro a perdifiato. Sembrano bloccati nel tempo, inconsapevoli del tempo, che, comunque, passa lo stesso, rubando ogni giorno un pezzetto del loro futuro e dei loro sogni.
Ci sono circa 10.000 persone nel campo di Idomeni, oltre alle altre migliaia che si sono stanziate nei pressi delle stazioni di carburante a pochi chilometri dal confine e che abbiamo visitato: Eko Camp con circa 3.000 persone, BP Camp ed Hara Camp con altre 2.000 persone circa. Ma i numeri sono evanescenti, ogni giorno cambia qualcosa. Molti tentano la fuga attraverso il fiume che scorre lungo il confine, altri si rivolgono agli smuggler, i trafficanti di uomini, che per 800 euro ti portano fino a Belgrado, e che aumentano i lor profitti a mano a mano che la speranza di riapertura della rotta balcanica si allontana; altri ancora intraprendono il viaggio di ritorno verso la Turchia. La maggior parte dei rifugiati sono siriani, sia arabi che curdi, iracheni, afghani ed alcuni pakistani.
Ci sono migliaia di famiglie formate a volte anche da tre generazioni, accampate in tende da campeggio e ripari di fortuna, in mezzo a terreni agricoli, in spazi informali e disagevoli da circa 3 mesi. Mesi tolti alla scuola, a quel diritto all’istruzione che regna sovrano in tutte le altisonanti convenzioni internazionali sui diritti dell’infanzia, mesi tolti al diritto di sognare e costruirsi un futuro dignitoso. Diritti calpestati totalmente, insieme alle vite di persone che non rientrano nelle quote di ingresso previste dagli Stati Membri dell’UE. Come se fosse pensabile l’ipotesi di una umanità in esubero.Qui tutti però continuano a dire “vogliamo andare in Europa”.

Angelo Aprile, campo di Idomeni
Angelo Aprile, campo di Idomeni

La terra promessa che oggi per molti si è trasformata in un inferno. Perché la Grecia è pur sempre Europa, sebbene ne si il fanalino di coda, vittima anche essa dei giochi di potere che la stanno rendendo laboratorio di sperimentazione del peggior scempio degli ultimi decenni, così come ci racconta Giorgio Davos, giornalista indipendente dell’ANSA greca. “Se l’accordo per la redistribuzione dei profughi non entrerà in funzione, la Grecia rischia di diventare un parcheggio di migranti.” ci spiega Giorgio, amareggiato. “Dobbiamo fronteggiare una crisi umanitaria che altri hanno provocato“.
Questa è la solidarietà della democratica Unione Europea. Un democrazia che nasconde lo stesso fango che si calpesta ad Idomeni quando piove e vedi i bambini senza scarpe che corrono a ripararsi. Una democrazia che genera conflitti tra chi è del posto e non ha niente, e chi è arrivato senza trovare niente.
Trascorriamo alcuni giorni con uno di questi bambini, Omar, 8 anni, che viene dalla Siria insieme al padre ad a 5 sorelle. La madre rimasta uccisa sotto le bombe a Homs quattro anni fa. Il fratello maggiore, 18 anni, è riuscito a varcare il confine prima della chiusura della rotta balcanica ed adesso si trova in Germania. L’intera famiglia resiste, bloccata sui binari. Le donne fanno il pane arabo stendendolo su una pietra e ci invitano ogni giorno a condividerlo, come in un rito antico. Il padre è un uomo ancora giovane, col volto molto segnato dalla vita, ma che trasmette fierezza e una speranza che non muore mai. Ci invita ogni giorno a condividere il suo tè. Noi ci sediamo sui binari con loro e ci sentiamo a casa. La chiamiamo la nostra famiglia. Si perché a Idomeni succede così. Pensi di andare tu lì per dare sostegno ed alla fine sono le famiglie che adottano te, facendoti sentire parte di quell’umanità che si riconosce ed accoglie nonostante le differenze. E come noi, ne conosciamo tanti di volontari indipendenti: come Barbara e Marco, due ragazzi italiani con pochi soldi in tasca ma con tanta umanità da donare, venuti in autostop dalla Bulgaria, dove studiano e lavorano, per portare conforto umano ed attenzione ai dimenticati della Terra. Ogni sera e ogni mattina alle 8.00 al Park Hotel di Polycastro, il paese più vicino a Idomeni, infatti la rete dei volontari indipendenti si riunisce per fare il punto della situazione e organizzare il lavoro dei nuovi arrivati. Ragazzi da ogni parte d’Europa, Spagna, Germania, Inghilterra, Olanda, Danimarca, dal Sud America e anche dai Paesi Arabi (residenti nel vecchio continente, naturalmente) arrivati con camion pieni di scarpe, vestiti, cibo e altri generi raccolti con chiamate di solidarietà per questa emergenza. Medici e infermieri indipendenti che prestano sostegno ininterrotto, gruppi di volontari che cucinano per migliaia di persone, un tendone che distribuisce 3000 litri di tè al giorno per tutti, giocolieri danesi, cuochi tedeschi, reporter inglesi…la parte ancora profondamente sana del cuore dell’Europa, che speriamo continui a preservarsi.

Angelo Aprile, campo di Idomeni
Angelo Aprile, campo di Idomeni

Per molti profughi, per quanto riguarda le condizioni materiali, in Grecia l’unica differenza coi campi profughi siriani è solo che “almeno qui c’è la pace e non ci bombardano”, come ci racconta un gruppo di siriani, insegnanti di storia e geografia nel loro Paese. Oggi qui, a piedi scalzi sui binari a raccontare con un’ ironia che ci spiazza le loro storie di drammatica fuga. Domani, non si sa dove, né come… La cosa che più avvilisce tutti è proprio l’incertezza. Non sapere che cosa i governi decideranno sulle loro teste. Tutti ti chiedono “cosa dobbiamo fare?”. Andare nei campi militari o restare qui a idomeni, in questo angolo sperduto di resistenza?
Entrambi hanno le mogli incinte e Saber, divertito, ci informa che tra due mesi la moglie partorirà, “se sarà un maschio lo chiamerò Idomeni, se sarà femmina Idomania”. La cugina, Asma, vignettista e insegnante di inglese, insieme al marito ci fa riparare dalla pioggia e vedere con orgoglio i suoi disegni, immagini che rappresentano la sofferenza del popolo siriano. “Maledetta guerra”: il ritornello che non abbandona i nostri pensieri ed i loro pensieri. La guerra produce individui e famiglie spezzati, frammentati. Le donne, nel loro ancestrale ruolo di madri e mogli tentano di ricomporre ogni volta il labile, ma necessario cordone vincolato alla famiglia, mettendo spesso da parte se stesse e i propri drammi intimi, poiché nei conflitti subiscono spesso violenze inaudite.
Waffa, professoressa universitaria irachena di lingua araba, la sua bellezza mediterranea spicca dietro al velo nero, tutte le mattine insegna arabo ai piccoli del campo. Ci informa che ha intenzione di raggiunger il fratello, residente in Germania da ormai 16 anni. “Mio fratello sta facendo di tutto per farmi andare da lui, solo che non riesce ad avere risposte concrete.” Davanti alla nostra incapacità di rispondere afferma: “sto bene anche qui, mi sento utile magari; finisce la guerra e me ne torno a casa”. Vyan, donna curda con un bambino in braccio e un altro aggrappato alla sua lunga gonna, ci ferma chiedendoci che ne sarà di loro. Abbasso gli occhi come fanno i bambini davanti alla maestra quando non sanno la risposta. Mi dice di un fiato : “mio marito che viaggiava tre giorni prima di me è arrivato in Germania con nostro figlio di nove anni, che va già a scuola, questi due invece stanno qui, senza scuola. Sono due mesi che non ho il ciclo per l’ansia questa è peggio della guerra in Siria. Questa guerra psicologica che non ti da nemmeno l’opportunità di difenderti, subisci senza poter reagire”.
Per cercare risposte, un giorno proviamo ad entrare in un campo militarizzato per verificarne le condizioni, quello di Neokavala, un campo in cui sono fisicamente presenti militari e forze di polizia, in cui il direttore è un militare graduato. Non ci hanno consentito l’ingresso, dicendo che era riservato solo ad associazioni riconosciute. Qui non ci sono volontari indipendenti, ma solo UNHCR, di fatto complice di questo processo, la Croce Rossa Greca, che è del tutto insufficiente: non dispongono di un pediatra, per cui i genitori devono accompagnare i bambini dal medico più vicino (minimo 2km 32 di cammino) e pagare la somma che si aggira intorno ai 25€. Medici Senza Frontiere non ha accettato di occuparsi della parte sanitaria di queste “strutture detentive”. L’altra associazione presente è Save The Children. Ci avviciniamo ad alcuni operatori di Save che mangiano furtivi i loro panini in pausa pranzo dietro al container della polizia, per chiedere alcune informazioni. Ci guardano diffidenti e non riescono a spiegarci quale sia il loro ruolo li, dal momento che, sebbene siano presenti migliaia di minori, non è stata allestita nemmeno una scuola di campo. Cosa che invece è avvenuta in quello spontaneo di Idomeni, dove i volontari indipendenti in collaborazione con i rifugiati hanno allestito due scuole dove si alternano lezioni in arabo, farsi, kurdo, tenute da alcuni profughi docenti nei loro Paesi e lezioni di inglese, tedesco, spagnolo tenute dai volontari anche per adulti. Si improvvisano attività ludiche e partite di scacchi coi bambini. Si fabbricano oggetti coi tappi e si fanno maschere di carta, si cerca di colorare il tempo affinché l’attesa sia meno gravosa.
Un pomeriggio assistiamo ad un concerto di un gruppo di musicisti catalani, insieme ad alcuni musicisti del campo. Bambini, ragazzi, noi volontari tutti assieme a saltare e ridere insieme con una energia che ti scuote dentro, facendoti sentire, nonostante tutto, ancora vivo. Tutto questo nella desolazione e nel vuoto istituzionale, vuoto che si avverte ancor di più nei campi militari. In questi centri riconosciuti (così come in quello non riconosciuto istituzionalmente di Idomeni) le domande di asilo politico e di recollocation possono essere presentate unicamente via skype, durante una sola ora a settimana. Tale procedura è, ovviamente, del tutto fallimentare e non una chiamata è andata a buon fine. E così il diritto all’accesso alla procedura, atto fondamentale per il richiedente asilo, è del tutto annullato e con esso il diritto alla protezione stessa.
Una ragazza siriana di 20 anni ha avviato una petizione on – line affinché si annullasse questa ignobile procedura, ma ad oggi nulla è cambiato. Facciamo parte di un gruppo di volontari che danno informazioni legali, viste le nostre specifiche competenze.
La info tent allestita nel campo sembra più un luogo di ritrovo che uno sportello legale. Non esiste un monitoraggio dei casi, un archivio o un database sistematizzato. Tutto è lasciato all’improvvisazione ed alla buona volontà dei ragazzi che gestiscono il punto informativo, Insieme ad essi ci sono dei rifugiati siriani che fungono da interpreti, ma anche da operatori veri e propri. Tutto è fatto in sinergia e senza spirito assistenzialistico ad Idomeni. Si avvicinano persone con le storie più disparate e disperate. Ognuno si racconta. Diverse persone hanno un parente in un Paese Nord-europeo. Cerchiamo di dare informazioni sulle procedure di ricongiungimento, di contattare associazioni nei Paesi dove ci indicano risiedere i parenti e di passarli a loro. Una goccia nel mare. In realtà qui la cosa più aberrante è l’inibizione della procedura d accesso che, non potendosi svolgere de visu ma solo secondo questo fantomatico sistema skype, di fatto impedisce l’accesso sia alla procedura di asilo, ma anche alla procedura di ricollocazione e la possibilità di ricongiungersi ai loro parenti in Nord Europa. Quindi qualsiasi indicazione viene fornita, rimane sconnessa rispetto alla possibilità di un passaggio di tipo pratico.
Tutto è bloccato. Confini bloccati. Procedure bloccate. Vite bloccate. Numerosi minori stranieri non accompagnati, circa 500 (150 per Save Che Children,) aspettano e ci chiedono informazioni sui lori diritti. Una trentina, ancora prima del nostro arrivo, rintracciati e segnalati da Save sono stati rinchiusi nelle celle dei commissariati, in attesa di essere collocati nelle strutture di accoglienze per minori. Una operatrice di Save ci dici che vengono rinchiusi in cella per “proteggerli” e che è solo per alcuni giorni. Molti ragazzini hanno deciso di non voler subire questo speciale trattamento di “protezione” e si sono organizzati per rimanere compatti. Vivono in gruppo e si tutelano gli uni con gli altri. Moha curdo siriano ex peacemaker curdo, di 17 anni, con il suo sorriso smagliante parla della primavera araba come di una sconfitta.
Abbiamo tutti contro in questo processo di democratizzazione, ISIS, Assad, i turchi, i russi e anche l’Europa. Però non sanno che siamo un popolo resistente che non si arrende mai. Vorrei andare in Germania per poi fare venire la mia famiglia rimasta ad Aleppo”. Altri minori, tutti tra i 16 e i 17 anni, ci ronzano introno come mosche, offrendoci del tè. Cercando una parola di attenzione. Aspettando il pomeriggio per giocare a calcio. Quello che ci rimane impresso è il modo e lo sguardo con il quale ci confortano quasi per la “loro” situazione.
C’è da chiedersi ancora una volta: che fine ha fatto la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia? Infanzia trascorsa tra combattimenti, torture, lutti e fili spinati. Infanzia negata dalla propria terra e da quella che si definisci terre dei diritti.

Angelo Aprile, campo di Idomeni
Angelo Aprile, campo di Idomeni

L’Europa, come l’intera umanità, dovrebbe avere lo stesso pudore che hanno gli occhi di questi ragazzi e la capacità di provare vergogna per la presenza di quei minori soli e dimenticati nella celle della Grecia, culla della civiltà. Molte persone ci raccontano che hanno pensato di tornare in Turchia. Almeno li era possibile lavorare. La Turchia purtroppo però offre lavoro soprattutto ai minori, più vulnerabili e facili da sfruttare. Ce lo testimonia il nostro amico curdo Mohammed, 13 anni ma con una serietà dello sguardo che gliene daresti almeno 30. Mi prende sotto braccio e mi porta a conoscere i suoi genitori. Attraversiamo metà campo ed entriamo in un hangar con due file di tende, quasi tutte della comunità curda. La tenda della madre di Mohammed è tenuta limpida e pulita come un salotto buono. Incredibile lezione di decoro. Chiediamo loro se occorre qualcosa dal magazzino di aiuti. Lei risponde che non le occorre nulla, chiede solo dei biscotti per la bimba più piccola. Mohammed ci rivela che ha sempre sognato di avere un orologio per sapere che ora sia. Ci dice che loro sono stati onorati del semplice fatto che abbiamo visitato la loro tenda.
Il giorno dopo realizziamo quel piccolo desiderio di Mohammed. Penso alle centinaia di oggetti che i nostri bambini dimenticano dopo averci giocato tre minuti ed a quanto quel piccolo orologio di plastica abbia reso orgoglioso Mohammed e sorrido con amarezza, pensando all’iniquità della vita. Mohammed ci racconta che in Turchia lavorava in una sartoria. Lo maltrattavano, lo sottopagavano, lo insultavano. Ma doveva lavorare per aiutare la famiglia. Quando sono arrivati a picchiarlo gli ha sbattuto i soldi in faccia ed è andato via. Parla, parla con un fiume di parole piene di consapevolezza e senso che ti travolgono, racconti di una piccola vita, che sembrano cento vite. E invece di raccontarci quegli orrori penso che avrebbe dovuto studiare e diventare avvocato e così avrebbe potuto difendere il suo fiero popolo curdo. Un popolo che stiamo deportando in Turchia per l’assurdo accordo siglato con l’UE: Un popolo che ha subito talmente tanto da quella Turchia che, anche un bambino di 13 anni si chiede: ma che protezione potrebbero mai darci?
Mohammed ti auguro che il nostro orologio un giorno possa segnare per te l’ora di un giorno nuovo, un giorno in cui i bambini sono solo bambini e non fatti crescere con la forza attraverso le sofferenze.
Continuiamo il nostro percorso quotidiano tra le tende. Ci accompagna Omar, il nostro piccolo amico con lo zainetto in spalla come noi ed il cappellino che ci segue in giro per tutta la giornata. “Posso dare una mano anche io?” aveva chiesto al padre prima di seguirci. Si improvvisa reporter usando la nostra macchina fotografica ed è davvero talentuoso. Ci confida che da grande vuole fare il giornalista. Noi speriamo che il suo sogno si possa realizzare, ha solo 8 anni e ci racconta che a scuola già non andava più nella sua devastata città. Un bombardamento aveva distrutto la sua scuola quando lui era in classe e da allora non vi ha messo più piede per lo spavento. I suoi occhi neri come carboni si accendono di paura quando ti parla di quelle bombe. Quando qualche sera fa sono passati aerei militari su Idomeni si è otturato le orecchie chiedendo poi al genitore se le bombe fossero state sganciate. Forse il terrore gli resterà sempre impresso nella coscienza. Così come a me resterà impresso per sempre nella coscienza il suo sguardo di desolazione e le sue lacrime quando siamo andati via. Il prezzo in fondo non è alto, rispetto a ciò che pagano gli altri. Ma l’unico onere che noi europei dobbiamo sopportare è questo enorme senso di colpa che come un macigno ti porti dentro, facendoti odiare quel libretto rosso scuro che si chiama passaporto e che ti consente di ritornare alla tua comoda vita, lontano dal fango e dalle nuvole incerte di questo angolo d’Europa. Nuvole che a volte portano la pioggia e subito dopo un arcobaleno sulle tende che ti fa persino apparire bello questo delirio e la vita stessa.
L’unico impegno che possiamo mantenere è quello di dare voce ad Omar, a Mohammed, a Moha ed alle altre migliaia di bambini e di persone senza diritti che abbiamo lasciato in attesa, in quella stazione di confine. A testimoniare, con gli altri volontari che, così come noi insieme al popolo di Idomeni ci siamo sentiti una famiglia unica, anche solo per qualche giorno, a dispetto delle dispotiche scelte dei nostri governi, un altro mondo fatto di solidarietà ed accoglienza è ancora possibile.