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Cosa ci lasciano i 100mila di Milano

di Luciano Muhlbauer

Photo credit: Carmen Sabello (Milano, 20 maggio - Nessuna persona è illegale)

C’è fretta di archiviare i 100mila di Milano e non semplicemente perché l’ennesima infamia targata Isis sposta di nuovo il dibattito pubblico verso il tema sicurezza, ma anche perché è più comodo così. Il 20 maggio è stato senz’altro un evento riuscito e, per giunta, in netta controtendenza non solo rispetto alle spinte culturali e politiche che in tutta Europa aprono spazi senza precedenti alle forze e tesi xenofobe, razziste e reazionarie, ma anche al posizionamento assunto dai principali tre poli della politica italiana – destre, M5S e Pd-, schierati tutti, sebbene con toni e intensità diversi, a favore di soluzioni securitarie. E allora meglio non perdere troppo tempo e relegare quella manifestazione nell’angolo delle belle marce festose, al massimo disturbate da qualche rompiballe, oppure esibirla come prova suprema della complicità dei “buonisti” con i delinquenti e gli “invasori”. In ogni caso, si tratta di togliere rilevanza politica all’evento o, meglio, non permettere che dai quei 100mila possa emergere qualcosa di politicamente rilevante e autonomo.

Il 20 maggio dà fastidio a molti, anzitutto per la dimensione e la composizione della partecipazione. I 100mila (o i 60-70mila “reali”) rappresentano sicuramente la manifestazione antirazzista più grossa che si sia vista in Italia negli ultimi vent’anni e il corteo milanese in assoluto più partecipato dai tempi delle mobilitazioni per la pace del 2003. Non è stata una manifestazione segnata dagli spezzoni delle grandi organizzazioni, ma piuttosto da una moltitudine di associazioni e comitati e dalla presenza di persone non organizzate, cioè la cosiddetta “eccedenza”. Ed era una fotografia della Milano così com’è nella realtà, fatta di tanti colori e un po’ meticcia. C’erano gli autoctoni bianchi, molti, e gli autoctoni di seconda e terza generazione e c’erano i lavoratori migranti, le comunità e tanti richiedenti asilo. Non c’era un “noi” e un “loro”, ma uno spaccato di città reale che camminava insieme.

Chi ha partecipato a quella manifestazione voleva anzitutto schierarsi su una questione di fondo, per l’umanità e contro la disumanità, sul fatto che chi fugge da guerre, dittature o condizioni economiche insostenibili abbia il diritto di essere accolto e che non vada ributtato in mare e che i migranti e profughi che arrivano qui non sono invasori o nemici, ma esseri umani come noi. A prima vista può sembrare poco, ma non lo è, specie se accade dopo settimane di campagne mediatiche contro le Ong e un giorno dopo l’aggressione in Centrale e l’inqualificabile ondata di insulti e richieste di annullare il corteo da parte di Salvini e del Presidente regionale, Maroni.

Ma in quel corteo viveva anche la contraddizione che aveva segnato l’evento sin dalla sua gestazione, cioè il fatto che i primi promotori fossero anche esponenti di quel partito, il Pd, che a livello nazionale aveva prodotto la legge Minniti-Orlando sull’immigrazione e la legge Minniti sul decoro urbano, cioè delle norme che si pongono in piena continuità politica, culturale e operativa con la Bossi-Fini e con il pacchetto sicurezza di Maroni. Ne abbiamo già parlato su questo blog e su il Manifesto (vedi Non si può tenere il piede in due scarpe) e quindi non mi dilungo oltre in questa sede, se non per ricordare che la conseguente genericità e reticenza dell’appello “Insieme senza muri” aveva fatto sì che molte adesioni fossero accompagnate da esplicite dichiarazioni di contrarietà alla Minniti-Orlando (ad esempio Cgil-Cisl-Uil, Fiom e Arci) e, soprattutto, che nascesse Nessuna Persona è Illegale, una piattaforma articolata che ha raccolta l’adesione di centinaia di realtà (associazioni, collettivi, comitati, spazi sociali, partiti ecc.) e degli stessi promotori della manifestazione di Barcellona del 18 febbraio scorso.

Grazie alla piattaforma “Nessuna persona è illegale” la manifestazione ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei presenti chiedesse la fine delle derive securitarie, comunque intitolate. Le coperte termiche oro-argento che gli attivisti della piattaforma distribuivano andavano a ruba, così come gli adesivi “No One Is Illegal” e i cartelli “No Minniti-Orlando”, e si potevano trovare ovunque nel corteo, dalla testa alla coda. Se non c’eravate, guardatevi i video e le photogallery che trovate in rete. Insomma, una manifestazione plurale e con molte diversità, ma con una chiara sintonia di fondo sul rifiuto non solo delle campagne d’odio di Salvini e dei fascisti, ma anche di ogni deriva securitaria.

Chi invece era in dissintonia con il sentire comune era il gruppo di esponenti del Pd che, munito di striscione e persino di cartelli inneggianti a Minniti, a un certo punto si è piazzato in testa al corteo, mettendosi attorno a Sala, Majorino, Grasso e Bonino e facendosi beffe delle belle parole dei giorni precedenti, che dicevano “i partiti stanno in fondo” o “i politici non stanno in testa”. Ovviamente, ne è nata una contestazione, peraltro assolutamente pacifica.

In realtà, questo episodio è di scarso interesse in questa sede, ma mi pareva corretto citarlo, poiché l’informazione che conta l’aveva trasformato in una sorta di breaking news, determinando una narrazione della giornata a dir poco tossica, dove da una parte ci sarebbero stati 100mila manifestanti e dall’altra 30 rompiballe che ce l’avevano con Minniti e che hanno “rovinato la festa”.

E quindi, al netto delle narrazioni mediatiche, che cosa ci lasciano i 100mila di Milano? Anzitutto, ci dicono che a Milano c’è ancora speranza. Sì, lo dico così, in maniera terribilmente generica, ma è un fatto che proprio la città italiana più coinvolta nel flusso migratorio non solo resiste ancora al risucchio reazionario, ma è anche in grado di produrre una reazione positiva di massa. E non è nemmeno la prima volta che accade, perché era già successo alla ex Caserma Montello nell’autunno scorso. Certo, le cose possono cambiare rapidamente, quindi inutile far finta che non ci saranno problemi in futuro, ma oggi dobbiamo prendere atto che c’è spazio per lavorare per un movimento antirazzista e dobbiamo agire di conseguenza. E questo non riguarda solo Milano, ma anche le altre città italiane.

Il secondo messaggio che ci lasciano i 100mila è che bisogna parlare chiaro, non essere ambigui. Dire “accoglienza e sicurezza” è una sciocchezza, perché non vuol dire nulla in termini concreti, ma in cambio giustifica tutto e il contrario di tutto. Dire “No Minniti Orlando” non è certo esauriente, ma rappresenta in maniera nitida il rifiuto delle derive securitarie, di quelle delle destre xenofobe e di quelle di chi le rincorre.

Infine, se quello che abbiamo detto ha un senso, allora la rete “Nessuna persona è illegale” deve continuare e allargarsi, come peraltro già annunciato prima del 20 maggio, facendo tesoro dell’esperienza e anche delle molte aspettative suscitate. E senza indugiare.

A Milano da troppo tempo manca un movimento antirazzista autonomo e politicamente rilevante. Forse ora, grazie al lavoro svolto e condiviso, c’è una possibilità. Come al solito, dipende solo noi.