– 1) Migranti economici e richiedenti asilo: una distinzione che non regge.
Il provvedimento di espulsione ed il trattenimento nei centri di permanenza ( CTP) costituiscono pratiche generalizzate applicate nei confronti di tutti i cd. “clandestini”, migranti economici e richiedenti asilo. Molti potenziali richiedenti asilo sono di fatto costretti alla clandestinità, e il carattere strettamente poliziesco delle fasi successive all’ingresso clandestino compromette una corretta istruzione delle richieste di asilo, con il risultato che fino ad ora la Commissione centrale può “vantare” una percentuale di oltre il novanta per cento di dinieghi. E la situazione non sembra destinata ad evolvere favorevolmente con l’entrata a regime della nuova disciplina della procedura introdotta dalla legge Bossi Fini nel 2002, sia per la mancanza di un effettivo controllo giurisdizionale sulle diverse fasi procedimentali, sia per l’assenza di un qualunque effetto sospensivo dei ricorsi contro le decisioni di diniego (dello stato di asilante) e di espulsione.
Non si hanno notizie, peraltro, dell’attivazione degli sportelli di informazione ai varchi di frontiera, nè vi dono dati certi su quante domande di asilo siano state presentate presso questi luoghi: eppure una convenzione al riguardo è stata stipulata alla fine dello scorso anno tra il la Prefettura di Trapani ed il CIR e convenzioni simili avrebbero dovuto essere stipulate in altri porti di frontiera.
Ma sono pochi i richiedenti asilo che si possono presentare ad un varco di frontiera. La stragrande maggioranza di loro è costretta all’ingresso clandestino.
– 2) Sbarchi e naufragi al largo delle coste siciliane
Da tempo, sbarcano nell’isola, oltre alla consueta componente maghrebina di migranti per motivi economici (come la ricerca di un lavoro), un numero crescente di migranti provenienti dalla Somalia, dalla Sierra Leone, dal Sudan, dall’Irak, dal Pakistan, dalla Liberia, dal Ciad, dal Congo, dallo Sri Lanka e da tanti altri paesi nei quali il rimpatrio sarebbe vietato dalle Convenzioni internazionali (oltre che dalla legge nazionale: art.19 del T.U. n. 286 del 1998), a causa delle persecuzioni etniche ed dei conflitti armati in corso. Tutti vengono identificati dai media, e trattati dalle forze di polizia, come migranti clandestini, come è successo persino con una donna somala che nella primavera del 2003 ha partorito a Palermo il suo bambino dopo essere sbarcata a Lampedusa. Solo dopo l’impegno delle associazioni umanitarie siciliane e dei medici che la avevano assistita, la donna ha potuto avere accesso alla procedura di asilo.
Negli ultimi tempi i numeri degli sbarchi clandestini sono rimasti costanti, con una forte impennata all’inizio dell’estate, malgrado i toni trionfalistici dei rappresentanti del governo che ad ogni occasione vantano i loro successi nella “guerra” contro la immigrazione illegale. Si deve ricordare al riguardo che il governo Berlusconi, a partire dal 2001, già prima della entrata in vigore della legge Bossi-Fini , ha approvato numerosi decreti o ordinanze che ne hanno anticipato gli aspetti più repressivi, proprio per quanto concerne il controllo delle frontiere e l’internamento dei cd. clandestini, compresi molti potenziali richiedenti asilo, in centri definiti di accoglienza, ma che in realtà erano (e sono) centri chiusi di detenzione amministrativa. Con gli ultimi decreti “antisbarchi”, approvati dal Consiglio dei ministri lo scorso giugno, e con gli accordi stipulati, o rinegoziati, con i governi della Libia, dell’Egitto, della Tunisia e del Marocco, il flusso dei migranti economici e dei richiedenti asilo non si è certo arrestato, ma è cresciuto enormemente il numero delle vittime delle nuove misure di contrasto: più di trecento morti tra la Sicilia, la Libia e la Tunisia soltanto nel mese di giugno del 2003.
Come effetto dei nuovi accordi bilaterali il limite dei controlli navali praticati dalla Marina militare italiana si è esteso in acque internazionali, fino al “confine” delle acque nazionali libiche e tunisine, con la conseguenze che le carrette del mare cariche di disperati vengono intercettate in alto mare e spesso costrette ad invertire la rotta, dovendo poi affrontare condizioni di navigazione che non sono in grado di reggere.
I controlli più rigorosi da parte delle unita navali ed aeree della Marina italiana hanno avuto come conseguenza il ricorso sempre più frequente ad imbarcazioni medio-piccole che più facilmente potevano sfuggire agli avvistamenti. Ma anche molto più pericolose per gli immigrati costretti ad imbarcarsi con il miraggio dell’Europa sopra carrette del mare che rischiano di affondare ad ogni onda.
Con mezzi di dodici metri, carichi di oltre cento persone, è sufficiente una virata improvvisa, o essere costretti ad affrontare il mare di prua e non correre invece in favore di vento, per rischiare un capovolgimento improvviso. E dopo i naufragi avvenuti in Tunisia nei mesi passati non si hanno mai informazioni certe sul numero dei dispersi e sui tempi dei soccorsi, come se le autorità di quel paese non avessero il coraggio di ammettere i propri ritardi, ritardi che sono costati la vita a centinaia di esseri umani; con la complicità di chi ha voluto normative interne ed accordi bilaterali tanto rigorosi da legittimare prassi come il cd. blocco navale”, in contrasto con tutte le normative internazionali sulla salvaguardia della vita in mare. Per effetto del nuovo comma 9 bis dell’art. 11 del Testo Unico sull’immigrazione , norma aggiunta dalla legge Bossi-Fini, “la nave italiana in servizio di polizia che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti , sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato”. Ed ancora, in base al successivo art. 9 quater, “i poteri di cui al comma 9 bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da navi della Marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale, o da accordi bilaterali o multìlaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza”.
In pratica le autorità navali italiane, possono procedere, e procedono, al blocco ed al respingimento delle imbarcazioni cariche di clandestini già al confine tra le acque internazionali e le acque territoriali dei paesi rivieraschi del nord africa ( in una fascia che oscilla tra le 20 e le 30 miglia dalle coste africane). Quando l’intervento delle autorità di polizia dei paesi del Nordafrica è sollecito ( ma questo avviene solo con la Tunisia) la imbarcazione intercettata viene presa in consegna dalle unità navali tunisine e ricondotta al “presunto” porto di partenza, quando nella collaborazione manca coordinamento e tempestività ci possono scappare i morti, perché le imbarcazioni costrette ad inveretire bruscamente la loro rotta, magari nel tentativo di riprendere il loro viaggio verso l’Italia, possono rovesciarsi o restare a secco di carburante o in avaria in alto mare.
– 3) Due casi emblematici
Nella giornata del 3 ottobre scorso si è appreso dalla stampa locale siciliana che una piccola imbarcazione proveniente dalle coste del nord Africa, era naufragata in acque internazionali a sud di Lampedusa, dopo un primo intervento della guardia costiera italiana, che aveva in un secondo tempo “affidato” le operazioni di soccorso ad una motovedetta tunisina, che aveva poi recuperato 29 naufraghi: dalla notizia, rapidamente scomparsa dagli organi di informazione, risultava certa soltanto la morte per annegamento di un migrante. Nelle stesse ore, altri piccoli mezzi, soprattutto gommoni, facevano rotta verso Pantelleria e Lampedusa ed erano stati avvistati dalle unità della marina italiana che ne “seguivano” i movimenti. Già il giorno precedente, altri immigrati provenienti dal Pakistan, dal Kashmir e dal Corno d’Africa erano sbarcati indisturbati a Lampedusa, eludendo il blocco navale attivato dalla nostra marina a “protezione” delle coste dell’isola.
Sempre nella stessa giornata del 3 ottobre, un’altra imbarcazione carica di migranti si era diretta dalle acque maltesi verso le acque italiane, e mentre ancora si trovava nelle acque internazionali, risultavano in corso “contatti” tra le autorità italiane e maltesi, forse al fine dell’ennesimo respingimento verso il porto di partenza. Anche se è notorio a tutti che a Malta i potenziali richiedenti asilo rimangono internati per mesi in condizioni indegne, senza avere alcuna speranza di accesso alla procedura di asilo.
Questi avvenimenti, ed il tragico stillicidio di vite umane che li accompagna dimostrano sostanzialmente due cose.
Nessun provvedimento di legge, e nessun blocco navale può fermare la legittima aspirazione di quanti fuggono guerre, persecuzioni etniche e religiose, epidemie e povertà endemiche che spesso sono alimentate proprio dalle scelte di politica internazionale dei paesi ricchi.
Da parte del governo si era annunciata la fine dell’”emergenza clandestini”, anche con le pseudo intese concluse nel corso dell’estate del 2003, con i governi di Tunisia, Libia e Malta (intese spesso limitate, dopo le visite dei nostri ministri, ad uno scambio di corrispondenza diplomatica, se non ad affrettate conferenze stampe congiunte). Ma gli sbarchi continuano incessantemente, magari con numeri più bassi, ma con una capillare distribuzione anche sulle coste siciliane (come nel caso di Licata, in provincia di Agrigento ed in altri casi meno noti verificatisi pochi giorni fa nella Sicilia orientale, tra Siracusa e Catania).
Una componente molto consistente degli immigrati sbarcati in Sicilia in queste ore è costituita da richiedenti asilo somali, sudanesi, liberiani e di altri paesi del cento Africa, oltre che da pakistani e irakeni, questi ultimi in forte diminuizione rispetto al passato, ma l’Italia non ha ancora una vera legge sull’asilo ed un sistema di accoglienza degno di questo nome: i cd. centri di accoglienza in realtà sono centri di detenzione amministrativa nei quali, senza la comunicazione di un provvedimento convalidato dal magistrato, rimangono segregati per settimane molti richiedenti asilo. Un’altra componente degli immigrati sbarcati ancora all’inizio di ottobre in Sicilia è costituita da migranti economici nordafricani che potrebbero entrare legalmente in Italia, solo che i flussi dei lavoratori stagionali decisi dal governo fossero previsti anche per le regioni meridionali.
Ma le notizie di stampa che ci riferiscono casi veri e propri di “respingimento” in mare aperto, praticato dalle nostre unità navali, nelle acque internazionali verso il “confine” delle acque tunisine e maltesi, con il ricorrente strascico di morti, dopo quelli delle tante tragedie estive, dimenticate quasi subito anche dalla magistratura, ci fa riflettere sugli effetti perversi, e sempre più evidenti, del decreto firmato dal Presidente del Consiglio Berlusconi il 14 luglio 2003, pubblicato adesso nella Gazzetta ufficiale n.220 del 22 settembre 2003; e quindi in vigore da pochi giorni, ma in realtà operativo a partire da giugno, ben prima della formale pubblicazione della legge.
In base all’art.7 di questo decreto è infatti consentito alle unità della nostra marina militare, “su conformi direttive delle direzione centrale”, allocata presso il Ministero degli interni, procedere al “fermo delle navi sospettate di essere utilizzate nel trasporto di migranti clandestini, anche al fine di un loro possibile rinvio nei porti di provenienza”. Rinvio “possibile” dunque quando sia offerta, in base agli accordi internazionali ed alla concreta situazione in mare, la possibilità di una presa in consegna delle imbarcazioni cariche di clandestini, fermate dalla nostra marina e da questa respinte verso le unità navali degli stati confinanti che operano al limite delle loro acque territoriali.
Ma chi decide veramente se respingere verso il mare aperto oppure scortare verso un porto italiano, l’imbarcazione carica di clandestini?
Quale tutela è offerta ai potenziali richiedenti asilo imbarcati su queste imbarcazioni ? Chi decide sulle loro vite?
Per maggiore precisione, in base all’art. 1 del decreto, “il raccordo degli interventi operativi in mare” è svolto dalla “Direzione centrale dell’immigrazione e delle frontiere”, istituita presso il Dipartimento della pubblica sicurezza. Ancora, secondo lo stesso decreto, “la Direzione centrale esamina con immediatezza gli interventi da effettuare anche sulla base di accordi di riammissione e di intese conseguite con il paese del quale il natante batte bandiera, o da cui risulta partito, nonché gli interventi da effettuare su natanti privi di bandiera e dei quali non si conosce il porto di partenza”.
Ecco, su queste circostanze, sulle modalità di ingaggio della nostra marina nei confronti delle povere barche dei migranti, e sul ruolo di “collaborazione” delle unità navali dei paesi confinanti, circostanze mai del tutto chiarite, già a partire dalle stragi di migranti dello scorso giugno ai confini delle acque tunisine, con centinaia di morti, sino a quest’ultimo “incidente” avvenuto a sud di Lampedusa, sarebbe auspicabile che qualche magistrato italiano riuscisse a fare chiarezza, senza il ricorso alle solite tesi precostituite a favore dell’operato dei nostri mezzi militari. Anche questa sarebbe una battaglia di civiltà e, forse, anche una possibile dimostrazione di autonomia e di indipendenza della magistratura, per altri versi molto attenta nei confronti dei numerosi profili di incostituzionalità della legge Bossi- Fini: relativamente alle nuove disposizioni di questa legge i giudici italiani hanno sollevato nel corso del 2003 oltre 400 eccezioni di incostituzionalità e la Corte Costituzionale dovrebbe cominciare ad occuparsene già nel mese di ottobre di quest’anno.
– 4) Il diritto di asilo, un diritto negato
Con gli ultimi provvedimenti adottati nel settembre del 2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio del 2003, con una ordinanza del Presidente del Consiglio, si è consentito che la commissione centrale tradizionalmente ubicata a Roma, competente a decidere sulle domande di asilo, operasse anche senza la collegialità prevista dalla legge, spostandosi nei centri di detenzione della puglia o della Calabria, dove restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.
Ma i rappresentanti della commissione non sono arrivati quasi mai in Sicilia. Più spesso i richiedenti asilo sono stati deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri pugliesi. Adesso, dopo l’approvazione dei decreti di attuazione della legge Bossi-Fini n.189 del 2002, anche se non se ne conosce esattamente il contenuto, anche in Sicilia sembra prossimo l’avvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo, come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo “escamotage” dei cd. centri a destinazione mista, già collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove è più facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione amministrativa, spesso anche al di là dei termini e delle procedure previste dalla legge (senza la corretta e tempestiva notifica dei provvedimenti di espulsione e di trattenimento).
Al riguardo autorevoli fonti ministeriali affermavano, fino a poche settimane fa, come nei nuovi centri di identificazione i richiedenti asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione della libertà di circolazione, e non della libertà personale, restando consentito in altri termini l’uscita giornaliera dal centro con rientro serale; nell’ultima versione del decreto attuativo, sembra per le pressioni della Lega nord, i centri di identificazione sono caratterizzati dal divieto assoluto di allontanamento e di uscita: si tratterà dunque di veri e propri “centri chiusi”, che porranno delicate questioni di gestione delle strutture e di compatibilità delle prassi amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della Costituzione in materia di asilo e di limitazione della libertà personale (art.13).
Dalle ultime notizie, apprese in margine ai lavori parlamentari per la legge finanziaria per il 2003, sembrerebbe che non ci siano però sufficienti risorse economiche per attivare i centri di identificazione previsti dal nuovo regolamento, solennemente approvato dal Consiglio dei ministri alla fine di giugno, ma non ancora entrato in vigore anche perché privo del necessario visto di legittimità della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato. E forse queste nuove norme regolamentari non saranno mai pubblicate, considerando che l’Italia dovrà applicare entro il dicembre del 2004 la direttiva 2003/9/CE in tema di accoglienza dei richiedenti asilo, che impone un ulteriore adeguamento della legislazione nazionale a tale riguardo.
La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003, e soprattutto le nuove direttive comunitarie sulle garanzie procedurali in favore dei richiedenti asilo, ormai prossime ad essere approvate, contengono a tale riguardo previsioni che risultano in contrasto con quanto previsto dalla legge Bossi Fini, che consente l’accompagnamento immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal giudice. E molti immigrati richiedenti asilo, deportati dalla Sicilia in altre regioni italiane, hanno già subito espulsioni illegittime, perché privati del diritto ad un ricorso sospensivo e rimpatriati in paesi nei quali hanno subito trattamenti inumani o degradanti. L’esempio dei pakistani recentemente rimpatriati nel loro paese, dopo essere stati deportati da Lampedusa, in diversi centri di detenzione in Italia, e poi al centro di detenzione “Corelli” di Milano, è solo l’ultimo esempio.
Alla fine del mese di maggio del 2003, per effetto di decreti ed ordinanze emessi dal governo Berlusconi, senza alcuna possibilità di controllo da parte del Parlamento, si era già introdotta una totale “deregulation” delle procedure necessarie per l’attivazione dei CPT e dei nuovi centri di identificazione, anche se la nuova disciplina che riguarda il diritto di asilo non è entrata in vigore per il ritardo del relativo regolamento, che si sarebbe dovuto emanare la fine di marzo. Intanto i veri centri di accoglienza sono stati costretti alla chiusura, per carenza di finanziamento, come è successo al centro Santa Chiara di Palermo; chi ha protestato, denunciando gravissime responsabilità istituzionali, è stato costretto al silenzio, magari con un trasferimento deciso dai suoi stessi superiori, come è successo a Don Meli responsabile del Centro Santa Chiara di Palermo. Altri centri di accoglienza hanno chiuso per la fine dei fondi, con una dubbia gestione finanziaria, come il centro Progetto Nazionale Asilo (PNA) di Montelepre, sempre in provincia di Palermo, gestito dalla Croce Rossa; mentre con le più recenti disposizioni governative si pongono le premesse per l’apertura in ogni provincia di nuove strutture detentive, (magari affidate alla gestione dei privati convenzionati con le prefetture) circondate da mura e filo spinato, destinate non solo ai migranti irregolari, ma anche ai richiedenti asilo.
– 5) I centri di permanenza temporanea in Sicilia
In base ai dati diffusi dal Ministero degli interni negli anni passati gli sbarchi di immigrati “clandestini” in Sicilia erano stati oltre 8.000 nel 1998, 1973 nel 1999, 2782 nel 2000, 5.504 nel 2001. Non esistono statistiche certe sul numero di coloro che hanno potuto presentare richiesta di asilo in Sicilia, in prossimità dello sbarco, ma in base all’esperienza delle associazioni indipendenti ed ai riscontri ricavabili dalle decisioni della Commissione centrale competente per le domande di asilo, questo numero è assai basso, entro l’ordine delle mille domande all’anno.
Considerando che, secondo i dati ufficiali, in Sicilia nel 2002 sono sbarcati 18.225 immigrati clandestini, e che nei primi cinque mesi del 2003 si sono verificati oltre 6.000 sbarchi, i quattro centri di permanenza temporanea tuttora funzionanti nell’isola ( Trapani, Agrigento, Caltanissetta e Ragusa) garantiscono una capienza di appena 450 posti; in base ad una durata media della detenzione di 40 giorni questa circostanza si traduce nella prassi quotidiana di deportazioni in autobus o con charter (aerei gestiti da compagnie private) verso la Calabria o la Puglia, a causa del sovraffollamento costante. Il calo degli sbarchi in quelle regioni, derivante dai nuovi equilibri politici nei Balcani e dal rigoroso accordo di riammissione operante con l’Albania, è così compensato dai maggiori arrivi che si registrano in Sicilia.
Ma anche secondo gli agenti che effettuano le misure di accompagnamento, le condizioni dei centri calabresi sono ancora peggiori di quelle dei CPT siciliani.
Ma non sempre i centri di permanenza temporanea aperti in Italia riescono ad “ospitare” tutti coloro che entrati clandestinamente, o sorpresi dalla polizia in prossimità dell’ingresso clandestino, dovrebbero essere internati per un breve periodo ( massimo sessanta giorni) per essere riconosciuti dalla propria autorità consolare, e quindi accompagnati coattivamente in frontiera.
Dopo l’approvazione della legge Bossi Fini, si è inoltre verificata in qualche caso, come a Trapani e ad Agrigento, la liberazione degli immigrati “clandestini”, esclusi dalla procedura di asilo ma con l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. E questo anche se erano completamente privi di mezzi o provenivano da paesi verso i quali non era possibile fare ritorno per il rischio di subire trattamenti inumani. Di fatto destinatari di un ordine impossibile da eseguire. Questa prassi si sta di nuovo diffondendo nel corso degli ultimi mesi, e gli immigrati vengono rimessi in libertà con il provvedimento di espulsione anche quando tentano, magari solo verbalmente, di fare richiesta di asilo. In qualche caso, come a Lampedusa, si deve registrare il sequestro da parte della polizia di somme di denaro anche ingenti, che poi non vengono più distribuite agli immigrati che ne sono titolari, ed ancora peggio, il sequestro dei documenti di appartenenza a partiti politici di opposizione (nel paese di provenienza), che per molti immigrati costituiscono l’unico modo per ottenere l’accesso alla procedura di asilo. La sistematica mancanza di interpreti fedeli al momento delle prime dichiarazioni non permette agli immigrati richiedenti asilo, privi di ogni forma di assistenza legale, di ricostruire le fasi della loro fuga ed i presupposti della domanda di asilo; si precostituiscono in questo modo le basi per il successivo diniego della richiesta di asilo da parte della Commissione centrale, ubicata a Roma, o da sue delegazioni che si spostano nei centri pugliesi e calabresi ( una delle motivazioni di diniego che ricorre più di frequente, quasi una formula prestampata, ma di fatto l’unica ragione per escludere l’accesso ad un diritto fondamentale della persona, è costituita dalla frase “il richiedente asilo ha fornito durante l’audizione davanti alla commissioni centrale dichiarazioni contrastanti con quelle precedentemente rese agli organi di polizia”.
In Sicilia non esistono al momento centri di accoglienza come quelli pugliesi, la maggior parte degli immigrati ammessi alla procedura di asilo viene rimessa in libertà o deportata nei centri pugliesi e calabresi in base a criteri del tutto arbitrari (anche il colore della pelle o l’appartenenza religiosa). In questa regione manca ancora una legge regionale sull’immigrazione, che preveda un minimo di risorse finanziarie destinate all’accoglienza.
Il centro di permanenza di Lampedusa, definito dal Ministero degli interni come un vero e proprio “centro di permanenza temporanea ed assistenza” funziona in realtà come centro di transito, e agli immigrati non viene fornita alcuna informazione sulla possibilità di chiedere asilo, e spesso non vengono neppure notificati i provvedimenti che li riguardano. L’imperativo categorico in quella struttura è soltanto “svuotare” il centro al più presto, per fare spazio agli arrivi successivi. I diritti fondamentali possono attendere. Dopo il trasferimento in un’altra struttura detentiva, in Sicilia o in Calabria, dove poi i migranti rimangono in attesa per settimane prima di conoscere il loro destino. La destinazione effettiva di un centro può comunque variare nel tempo: il leggero rallentamento degli sbarchi a Lampedusa, verificatosi nelle prime settimane di Luglio ha consentito alle autorità di polizia di trattenere una parte degli immigrati sbarcati nell’isola internandoli in questa struttura per oltre un mese.
– 6) L’ “accoglienza” dei richiedenti asilo in Sicilia
Per i richiedenti asilo ammessi alla procedura in Sicilia rimangono aperte strutture semi-private, convenzionate con le Prefetture, a Trapani, a Racalmuto, in provincia di Agrigento, a Palermo, come la missione Speranza e Carità, di Biagio Conte.
Anche quando gli immigrati vengono ammessi alla procedura di asilo le trappole non mancano, sia nella prima intervista con l’autorità di polizia, con la rituale domanda se il migrante ha intenzione di lavorare in Italia (alla risposta affermativa, quasi ovvia, segue il diniego della richiesta di asilo); oppure con un trattamento “personalizzato”, per chi ha manifestato opinioni politiche ritenute “pericolose”, magari partecipando a manifestazioni per i diritti dei migranti, ovvero ancora per chi è stato costretto ad abbandonare centri di accoglienza gestiti in modo personalistico, dove è rimasto per mesi privo di qualsiasi assistenza legale e sociale. Recentemente sono state rigettate in massa le istanze di asilo di decine di profughi sudanesi, giunti in Sicilia e accolti in un centro di accoglienza palermitano, dopo che gli stessi profughi erano stati costretti ad abbandonare la struttura perché costretti al lavoro forzato e privati di una effettiva assistenza nel corso della procedura di asilo. Sembra che ad alcuni di loro la Commissione centrale, ancora competente a giudicare sulla istanza di asilo, in base alla legge Martelli del 1990, abbia chiesto, in una audizione personale durata pochi minuti, le ragioni del loro abbandono della struttura di assistenza che li aveva “accolti” (sempre più sostenuta dai governanti siciliani di centro destra e dalla Prefettura di Palermo), piuttosto che le ragioni della loro fuga e il racconto delle persecuzioni subite.
Nella Sicilia orientale, dove l’unico CPT è quello di Ragusa, nel caso di sbarchi di massa si attivano strutture provvisorie di trattenimento, come a Noto, a Pozzallo o a Siracusa (nella frazione di Belvedere) in base ad ordinanze d’urgenza emesse dal Prefetto di quella città.
Adesso con la nuova ordinanza firmata il 23 maggio scorso dal Presidente del Consiglio ci sarà da attendere una proliferazione di nuovi centri di detenzione, sono già operanti nuove strutture “provvisorie” a Gela e a Porto Empedocle (e si parla da tempo di un secondo centro a Trapani e dell’ampliamento di quello di Agrigento). Anche a Lampedusa sono partiti i lavori per la costruzione di un secondo centro di detenzione per oltre 500 posti, ma in una zona sottoposta a vincoli ambientali e sono già numerose le manifestazioni di protesta della popolazione locale e delle associazioni ambientaliste contro questa nuova struttura che trasformerebbe l’isola di Lampedusa in un carcere galleggiante.
Sembra certo comunque che in diverse parti della Sicilia, per fare fronte agli sbarchi di immigrati “clandestini”, saranno aperti anche nuovi centri di identificazione(anchese non se ne conosce ancora l’ubicazione), presso i quali svolgere rapidamente(?) le nuove procedure semplificate per i richiedenti asilo.
E’ probabile che alcune associazioni private intravedano ancora una volta la possibilità di un lucroso business, sia per il trattenimento che per gli accompagnamento forzati.
I sindacati di polizia, da parte loro, hanno già protestato lamentando turni massacranti per effettuare gli accompagnamenti oltre che carenze di uomini e mezzi. L’assemblea regionale siciliana ha attivato una commissione di indagine sui centri di detenzione aperti nell’isola, e numerosi parlamentari nazionali hanno effettuato periodiche visite, riscontrando situazioni di totale negazione della dignità umana, dei diritti fondamentali della persona (a partire dal diritto di difesa e di comprensione linguistica), delle minime condizioni igieniche e sanitarie. Sarebbe tempo che anche il Parlamento nazionale avvertisse l’esigenza di una indagine complessiva per stabilire cosa avviene dentro i centri di detenzione per stranieri e quale sorte è riservata ai richiedenti asilo. Lo stesso dovrebbe fare il Parlamento europeo, e anche l’ACNUR (Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati), piuttosto che assistere passivamente a tutto quanto avviene nelle commissioni che decidono sullo status di asilo, si dovrebbe schierare finalmente contro prassi amministrative palesemente lesive dei diritti fondamentali della persona umana.
La situazione siciliana è un emergenza continua che non deriva dagli sbarchi dei clandestini ma dalla logica di chiusura con cui il governo nazionale e quello regionale affrontano questi problemi, ormai strutturali, e persino stazionari, nella loro consistenza numerica, come si può ricavare da un confronto dei dati di questo anno con quelli dell’anno precedente.
Di fronte alla gravità di questa situazione anche la recente “querelle” sul diritto di voto agli immigrati regolarmente residenti in Italia da molto tempo (per Fini addirittura da otto anni!) rischia di rivelarsi per quello che è: una battaglia strumentale e di retroguardia che gioca sulla pelle degli immigrati una partita che ha come posta in gioco i nuovi assetti di governo.
– 7) I nuovi accordi bilaterali e i loro effetti sul fronte sud della guerra ai migranti.
Da parte della maggioranza dei governi europei si ritiene che l’unico contrasto all’immigrazione clandestina sia costituito dall’aumento dei controlli di frontiera e magari dall’istituzione di un nuovo corpo di polizia di frontiera (a partecipazione comunitaria).
In questo senso la presidenza italiana dell’Unione Europea sta cercando di caratterizzare il semestre ormai agli sgoccioli con l’inasprimento delle misure contro la tratta ed il traffico di clandestini, misure che come altre volte in passato hanno il solo effetto di rendere ancora più pericolosa e precaria la situazione di milioni ndi immigrati costretti alla clandestinità da normative nazionali che di fatto chiudono ogni possibilità di ingresso legale, anche per i richiedenti asilo.
E’ noto che la Spagna ad ovest, la Gran Bretagna e la Grecia ad est (tra Cipro e la Turchia) stanno sperimentando nuove forme di collaborazione che dovrebbero consentire una maggiore interdizione dei flussi di migranti clandestini. Le notizie che giungono dall’isola greca di Eubea confermano i trattamenti disumani a cui sono sottoposti i migranti clandestini bloccati dalle forze di polizia ed internati nei centri di detenzione, sottratti a qualsiasi controllo da parte delle autorità giurisdizionali e delle organizzazioni umanitarie.
Aspettiamo ancora di vedere quale altro paese comunitario vorrà collaborare con la nostra Marina militare nel contrasto dell’immigrazione clandestina sul fronte sud, quando sono stati necessari diversi decreti governativi per evitare una evidente sovrapposizione di compiti tra le forze di polizia (Finanza, Polizia, Carabinieri, Marina militare) operanti nel nostro paese.
– 8) Gli accordi di riammissione e la “condizionalità migratoria”.
Elemento centrale di tutte le politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina sono gli accordi di riammissione. L’Italia ha firmato oltre trenta accordi di questo tipo, in particolare con la Slovenia, la Macedonia, la Romania, la Georgia, l’Ungheria, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, la Repubblica Serba e del Montenegro, la Croazia, l’Albania, il Marocco, la Slovacchia, la Tunisia, la Algeria, la Nigeria, l’Egitto, il Pakistan, lo Sri Lanka, e sembrerebbe, dalle ultime notizie di fonte governativa, con la Libia (ma in questo caso il condizionale è d’obbligo, fino a quando non si vedranno gli accordi sottoscritti effettivamente). Addirittura sembrerebbe che il nostro governo, per facilitare i rimpatri coattivi, abbia già concluso un memorandum d’intesa con la Turchia, paese condannato decine di volte dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per la violazione dei diritti fondamentali della persona umana (in particolare con riferimento al popolo kurdo).
In base a questi accordi, anche se in molti casi si tratta di paesi che non rispettano i diritti umani, come risulta dai relativi rapporti di Amnesty, gli stati contraenti sono impegnati nei confronti dell’Italia a riammettere nel proprio territorio i propri cittadini, ed in qualche caso anche i cittadini di paesi terzi che vi siano transitati, che abbiano tentato o che abbiano fatto ingresso irregolarmente in Italia. Unico presupposto richiesto per il rimpatrio, l’accertamento della nazionalità dell’immigrato da rimpatriare, effettuato da un rappresentante consolare.
Molti accordi di riammissione richiamano il limite del diritto di asilo come ostacolo alla esecuzione del riconoscimento e del rimpatrio, ma nella prassi, come verificato dagli avvocati e dagli operatori umanitari in centinaia di casi, in Sicilia, e quindi in Puglia, dove gli immigrati sbarcati in Sicilia vengono spesso deportati, questo richiamo rimane lettera morta.
Nei centri di detenzione siciliani, come in quelli pugliesi, si verifica che i consoli ed i loro agenti abbiano libero ingresso, quasi quotidianamente, e riescano ad alimentare- con la complicità degli operatori delle strutture- un clima di intimidazione nei confronti di quanti vogliono presentare richiesta di asilo, e degli operatori umanitari che tentano di assisterli, determinando anche, proprio per effetto di questo clima, una diffusa riluttanza a fornire le esatte generalità, per il timore, in questo caso, di un accompagnamento in frontiera ancora più rapido. Manca in generale il riconoscimento effettivo del diritto alla comprensione linguistica dei provvedimenti emanati a carico dei potenziali richiedenti asilo.
Ma l’aspetto più recente e preoccupante è l’intensificarsi dei rimpatri forzati non solo verso i paesi di partenza, ma anche verso i paesi di transito dai quali poi si è giunti in Italia. La proposta del ministro inglese Blunkett (di istituire centri di detenzione ai confini dei paesi europei, nei paesi in via di ammissione) è stata sconfitta, almeno al vertice di Salonicco, ma molti paesi di transito, come l’Albania o la Tunisia, proprio per effetto degli accordi bilaterali, accettano già adesso la logica del respingimento generalizzato e della detenzione amministrativa dei migranti espulsi dai paesi europei. Anche il Marocco, paese sempre più vicino all’adesione o ad un accordo di cooperazione con l’Unione Europea, ha già accettato la logica del trattenimento amministrativo di quegli immigrati irregolari che siano espulsi nel suo territorio dai paesi europei.
Per un richiedente asilo singalese o africano, il riaccompagnamento in un paese di transito come l’Albania può significare una carcerazione immediata, o la restituzione al racket dei clandestini, e la condanna ad una vita di stenti se non di vera e propria schiavitù, quando non venga invece rimpatriato da quel paese verso un altro paese di transito nel quale potrebbe addirittura rischiare la vita.
Si deve anche sottolineare come gli accordi di riammissione fin qui stipulati dal nostro paese prevedano voli charter per il “rimpatrio collettivo” che costituiscono una palese violazione del divieto di espulsioni collettive affermato dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo. In realtà, anche se formalmente le procedure ed i provvedimenti appaiono individuali, si tratta di provvedimenti fotocopia, e l’espulsione collettiva consiste nelle concrete modalità di esecuzione della misura piuttosto che nella sua denominazione formale.
Ma oggi la tendenza è di superare persino gli accordi bilaterali di riammissione, che richiedono comunque, la ratifica (successiva) da parte del Parlamento, e possono (o meglio potrebbero) consentire all’opposizione di denunciare una politica estera contraria al rispetto dei diritti fondamentali della persona umana. E non si tratta soltanto di una posizione italiana. La Sicilia risente già di questi accordi informali stipulati con i paesi rivieraschi del Nord Africa, che si traducono nella “collaborazione” e nello “scambio di informazioni” tra le unità navali dei diversi paesi nel tentativo dichiarato di costringere le imbarcazioni dei migranti a ritornare ai porti di partenza.
Anche se la proposta del governo Berlusconi, intitolata della “condizionalità migratoria”, tendente ad incentivare un maggiore controllo da parte dei paesi di provenienza con accordi che riconoscano loro vantaggi economici e flussi privilegiati di ingressi legali, è rimasta minoritaria ( per quanto sostenuta, nel vertice di Siviglia del 2002, anche dal governo spagnolo), le politiche migratorie dei principali paesi del sud Europa sono ormai caratterizzate da accordi tra le diverse autorità di polizia che stabiliscono misure di contrasto sempre più rigorose nei confronti dell’immigrazione clandestina.
I rapporti con il Marocco, l’Egitto, la Tunisia, ed in prospettiva la Libia, saranno ormai segnati da questo scambio tra collaborazione nel reprimere i flussi clandestini e vantaggi economici di varia natura. Le quote privilegiate di ingresso legale si traducono invece in un ennesimo bluff, considerando che in regioni come la Sicilia, meta tradizionale dei migranti economici magrebini, le possibilità effettive di ingresso legale si limitano a poche centinaia di lavoratori all’anno. Anche per le quote di ingresso ogni competenza rimane al governo centrale, ed è ancora nullo, almeno nelle regioni meridionali, il peso dell’opinione degli enti locali ( Regioni, Province e Comuni).
Piuttosto che adottare per legge una normativa organica sul diritto di asilo e sulla protezione umanitaria, stabilendo al contempo concrete possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, si preferisce eludere la sede del dibattito parlamentare, e dunque la normale procedura democratica, per comunicare invece ai mezzi di informazione la conclusione di “intese” di polizia (tra i responsabili dei Ministeri degli interni) con i paesi di transito o di provenienza dei clandestini, come è successo prima con l’Egitto ed adesso con la Libia, intese di cui nessuno conosce l’esatto contenuto e la effettiva portata operativa, ma intanto utili a tranquillizzare una opinione pubblica sempre più allarmata dall’”emergenza sbarchi”.
Persino gli accordi bilaterali di riammissione, come l’ultimo sottoscritto (?) all’inizio di luglio del 2003 con il governo libico, sono sottratti a qualsiasi controllo parlamentare e rimessi nella loro concreta attuazione alla discrezionalità delle forze di polizia ed ai (mutevoli) accordi intergovernativi (o a livello di singoli ministri).
Ed adesso qualcuno comincia a parlare di accordi multilaterali tra i paesi europei ed i paesi di provenienza, aprendo una prospettiva che appare del tutto irrealizzabile, considerando i diversi rapporti storici e geopolitici esistenti tra i paesi europei ed i paesi del sud del mondo, e la riluttanza dei partner europei più forti a partecipare all’ingente impegno finanziario dei paesi più “esposti” nella esecuzione delle misure di trattenimento e di accompagnamento forzato.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo
ASGI – Associazione studi giuridici sull’immigrazione
Palermo