Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 12 maggio 2004

La legge è fuorilegge. Il migrante è nei guai di Cinzia Gubbini

Inchiesta sugli effetti della legge Bossi Fini

Questure in allarme, sindacati su tutte le furie e la storica sanatoria varata nel 2002 con la legge Bossi-Fini – che ha dato il permesso di soggiorno a circa 700mila immigrati – a rischio disastro. Ci sono tutti gli ingredienti per un colpo micidiale alla credibilità delle politiche governative, soprattutto visto che il cuore di tutti i problemi è la legge 30, o «legge Biagi»: la nuova riforma del mercato del lavoro. Il problema è secco: la legge Bossi-Fini e la legge Biagi sono incompatibili. La prima disegna un modello iper-rigido, basato sul controllo totale dei migranti, in particolare di coloro che hanno ottenuto la sanatoria. Quei 700mila lavoratori, che spesso si sono pagati da sè i contributi, per avere il rinnovo del permesso devono presentarsi in questura con un contratto di lavoro subordinato (mai autonomo) di almeno un anno. La legge 30 impone invece un modello di mercato del lavoro iper-flessibile, allargando il parco delle tipologie di contratto a tempo determinato – contratti a progetto, a chiamata, job sharing e così via. Tutti hanno una caratteristica ben precisa: prevale il rapporto individuale tra padrone e lavoratore. Si tratta di contratti di lavoro più autonomi che subordinati, anche se vengono applicati a situazioni in cui il lavoratore è a tutti gli effetti un impiegato. In mezzo a questa contraddizione stanno finendo i lavoratori stranieri, che vanno a rinnovare il proprio permesso di soggiorno e si sentono dire che il tipo di contratto che hanno (imposto dalla legge Biagi) non va bene: si faccciano fare un contratto subordinato e annuale (come impone la Bossi-Fini). Ma come si fa?

Ingegnere, colf a vita
Impossibile, ad esempio, per Monica: 29 anni, ecuadoriana, una laurea nel suo paese in ingegneria agraria e un master in Italia, è riuscita a ottenere il permesso di soggiorno nel settembre 2003 grazie alla sanatoria, lavorando da colf. Da quattro mesi è riuscita a trovare un lavoro da commessa in un negozio sportivo chic nel centro di Milano. Da quattro mesi lavora al nero («in prova») e adesso le hanno proposto un contratto «a progetto» di un anno. Ma alla Cisl il sindacalista Stefano Lesmini le ha spiegato che in questura ci saranno problemi: «Il contratto a progetto è considerato lavoro autonomo – spiega Lesmini – e quindi non è utile al fine di rinnovare il permesso di soggiorno per i cosiddetti `sanati’». Al sindacalista si pone il problema di capire quanto un lavoro da commessa possa essere «a progetto», ma così vanno le cose in Italia; e per Monica il problema più urgente è avere i documenti in regola, pena l’espulsione. «L’unica cosa che capisco è che dovrei fare la colf a vita», protesta l’ingegnera.

Stessa storia per July, venezuelana di Modena. Anche lei, regolarizzata nel 2003, sperava di potersi affrancare dalla condizione di colf. Da dicembre lavora in uno studio come segretaria. Anche a lei hanno proposto un contratto a progetto: «Alla Cgil mi hanno spiegato che questo contratto non va bene, che così non posso ottenere il rinnovo del permesso. Che devo fare? Farò un contratto finto, mi farò assumere come colf da qualche amica e continuerò a pagarmi da sola i contributi». Se July continuerà a essere una colf per lo stato italiano, anche se in realtà è una segretaria, non è andata meglio a Ilir, 34enne albanese di Parma, che aveva avviato le pratiche per mettersi in proprio. La sua storia è capitata sul tavolo dell’associazione Ciac, che offre consulenza agli immigrati. «Ilir ha ottenuto la regolarizzazione come muratore per una ditta edile della zona» – racconta Gazim, operatore del Ciac. «Siccome è in gamba il geometra gli ha proposto di mettersi in proprio, lui gli passerà i subappalti. Questo settore funziona così: i padroni spingono i migranti a diventare `padroncini’, esternalizzano parte della produzione e pagano meno contributi. A volte è un ricatto, a volte si sposa con l’aspirazione dello straniero a lavorare `in proprio’». Ilir risponde a questo secondo caso: aveva già fatto le pratiche spendendo circa 1000 euro, aveva promesso l’assunzione a un amico. Poi la doccia fredda: lui è un «sanato», specie a parte, quindi se vuol rimanere in Italia può essere solo dipendente.

Queste storie sono le prime a presentarsi, perché la sanatoria si è chiusa alla fine del 2003 (anche se sono ancora circa 30mila le pratiche inevase) e quindi la vera valanga di rinnovi arriverà dopo l’estate 2004. Ma le questure hanno già captato il problema e in molte città «congelano» i rinnovi e inviano quesiti al Viminale, per cercare una soluzione; ma di circolari esplicative non si vede ancora l’ombra. I sindacati confederali minacciano mobilitazioni nazionali: «Consideriamo questa situazione molto grave – dichiara Piero Soldini, responsabile immigrazione della Cgil – anche perché su questo punto non riusciamo ad avere un’interlocuzione né con il ministero dell’interno, né con quello del welfare, che d’altronde si è sempre rifiutato di confrontarsi con i sindacati sul fronte immigrazione».

Ma anche le questure sono preoccupate: «Se va avanti così, rischiamo di rinnovare ben pochi permessi» – spiegano all’ufficio immigrazione della questura di Brescia. «I lavori a progetto, ma anche i contratti da socio lavoratore con cui prima dell’approvazione della legge 30 abbiamo regolarizzato diversi immigrati, sono da considerarsi contratti di tipo autonomo. Noi possiamo farci ben poco. Ci sono i terminali, in cui vanno inseriti i contratti, è tutto computerizzato. Se esce la parola `lavor’, il contratto è subordinato, se esce `com’, è autonomo. Quando inseriamo quelli a progetto esce `com’». In alcune città le questure hanno deciso di attenersi alla lettera della legge (per esempio Bologna, Parma, Brescia), in altre città invece si chiude un occhio (per esempio a Ravenna).

Stessa antifona per il rinnovo dei permessi di soggiorno per gli stranieri che hanno contratti di lavoro inferiori all’anno, ad esempio gli interinali o i co.co.co. La legge dice che i permessi devono durare esattamente quanto dura il contratto di lavoro ma la maggior parte delle questure «interpreta», e appena il contratto supera i sei mesi (in qualche posto addirittura con meno tempo, ma ci pregano di non segnalarli «sennò ci mandano gli ispettori») vengono rilasciati permessi di un anno. Non è questione di bontà, ma di sopravvivenza. La Bossi-Fini, infatti, ha accorciato i tempi di rinnovo – con la Turco-Napolitano un contratto a tempo determinato `valeva’ un permesso di due anni, uno a tempo indeterminato di quattro. Ora il rapporto si è dimezzato. Risultato: le questure sono ancor più intasate e gli immigrati rimangono anche dodici mesi col cedolino del rinnovo in mano – e senza il rinnovo è difficile cambiare lavoro, espatriare, sostenere l’esame per la patente di guida ecc.

Disoccupato per forza
Con casi paradossali, come quelli di Mustafa, marocchino di Roma: «Mustafa vive da dieci anni in Italia – racconta Vivi di Progetto Diritti di Roma – e ha sempre avuto contratti a tempo determinato. L’ultimo rinnovo lo ha chiesto il 23 marzo 2003 con un contratto che partiva dal 1 aprile e scadeva il 30 giugno, per la ditta Atesia. Quando la questura ha preso in mano le sue pratiche, dopo un anno, il contratto era ovviamente scaduto. E quindi gli hanno consegnato un permesso per attesa occupazione, senza preoccuparsi del fatto che nel frattempo aveva ottenuto il rinnovo del contratto. E ora, se dovesse perdere davvero il lavoro, che fanno? Lo espellono?».

Alcuni sono ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Zainish è una ragazza etiope, abita in Italia da quando era bambina, qui si è laureata e lavora come mediatrice culturale, solo l’anno scorso ha strappato un contratto a tempo indeterminato: «ma è da un anno che aspetto il rinnovo del permesso. Da allora non ho mai potuto uscire dall’Italia. Mi sento sequestrata, è una sensazione bruttissima».

Storie che capitano spesso, nell’ufficio immigrazione della questura di Roma, dove si stanno rinnovando i permessi rilasciati nel giugno 2003. Nella stanza del dirigente, il dottor Francesco Capelli, è un continuo bussare o squillar di telefono, tutti hanno un caso «particolare», un immigrato che ha bisogno di rinnovare al più presto il soggiorno. «E’ la Bossi-Fini ad averci messo in queste condizioni» – spiega Capelli. «Si sono ridotti i tempi di rinnovo; poi c’è la questione delle impronte digitali, che allunga l’attesa perché la scientifica ci mette un po’ a dare le risposte. Inoltre abbiamo concluso un’imponente sanatoria in un anno, nella nostra provincia abbiamo avuto 108mila richieste. Certo, allora c’erano i ragazzi con il contratto interinale a darci una mano e non ci dispiacerebbe tornassero. Comunque bisognerà risolvere in qualche modo, trovare un sistema». Il Viminale sta studiando la possibilità di passare tutto alle poste e decentrare qualche competenza agli enti locali. Ma il dottor Capelli ha già l’occhio alla prossima emergenza: «Saranno i ricongiungimenti famigliari» – spiega. «Dopo i centomila permessi di soggiorno rilasciati con la regolarizzazione, abbiamo pianificato 45mila ricongiungimenti. E, in generale, l’immigrazione cresce. Pensi che alla fine dell’anno dovremmo aver rilasciato circa 250mila permessi; negli anni passati se ne davano in media 98mila».