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La lunga attesa. Porto del Pireo ad Atene

Francesca Pierigh, ECRE (European Council on Refugees and Exiles) - 28 luglio 2016

- Link all’articolo originale
Vedi anche:
- Siamo solo numeri? Rita Carvalho, ECRE - 20 luglio 2016

Traduzione a cura di: Federica Viggiani

Abbiamo visitato il Porto del Pireo il 1° giugno. I fatti menzionati in questo blog fanno riferimento a quella visita.

“Siamo nella stessa città. Com’è possibile che loro vivano qui e io in un appartamento?” si chiedeva Mohammed mentre camminavamo attorno alle centinaia di tende montate nei pressi del terminal E 1.5. al Pireo. Il porto di Atene, conosciuto da molti come luogo di passaggio obbligatorio tra le loro macchine e la meta finale delle loro vacanze, è diventato un’improbabile dimora per diverse migliaia di persone da quando è stata avviata la chiusura delle frontiere dell’ex Repubblica Yugoslava di Macedonia (FYROM), all’inizio del 2016.

@ECRE / R. Carvalho


Al momento della nostra visita, agli inizi di giugno, circa 1.200 persone vivevano nel terminal E 1.5 e altre 1.700 nel terminal E2, ad esso adiacente. Nei mesi precedenti, peraltro, quattro terminal nell’area portuale erano diventati dimora per 5.000 persone.

Dalla fine di Marzo le autorità greche hanno iniziato il processo di evacuazione dei rifugiati da due dei terminal del Pireo, destinandoli a campi ufficiali sparsi per la regione Attica, alcuni nei pressi di Atene, altri più distanti dalla capitale. Recentemente anche i terminal E 1.5 e E 2 sono stati evacuati. Ciò nonostante, molti rifugiati si sono mostrati poco propensi a essere trasferiti in altri campi.

Mohammed, la nostra “guida” al campo, ce ne ha spiegato le ragioni: “hanno paura che saranno dimenticati nei campi fuori città, se nessuno ti vede sarai dimenticato. Il sentimento comune è che qui, anche se le condizioni di vita sono pessime, sono almeno visibili.”

“La maggior parte dei rifugiati non vuole abbandonare quest’area perché ha paura di essere dimenticata. Il sentimento comune è che qui, anche se le condizioni di vita sono pessime, sono almeno visibili”


@ECRE / R. Carvalho

Il giovane siriano era solito andare ogni giorno al Pireo, preparava il pranzo per le 1.200 persone lì stanziate e aiutava ad organizzare attività per i molti, moltissimi bambini presenti. Studente di inglese nella sua città natale, Deir Ezzor, il suo inglese perfetto lo ha reso un punto di riferimento per volontari e rifugiati.

A differenza della maggior parte delle persone al Pireo, originari dell’Afghanistan con opzioni limitate davanti a sè, Mohammed è idoneo per il trasferimento. Di conseguenza è stato abbastanza fortunato da essere accettato in un programma dell’organizzazione UNHCR gestito dalla ONG greca Praksis, che permette a chi è in attesa di essere trasferito di vivere in un appartamento condiviso.

@ECRE / R. Carvalho


Mentre parlavamo sotto il ponte di fronte al “magazzino di pietra”, siamo stati distratti da una scena da film: una macchina della guardia costiera arrivata con foga ad una tenda, pericolosamente vicino ad un bambino, per fermare due giovani uomini che avevano cercato di entrare nel campo per raggiungere le loro famiglie, senza passare per l’entrata ufficiale.

L’esercito, che sorvegliava il campo non ufficiale quando vi abbiamo fatto visita noi, forniva ai residenti una sorta di documento di registrazione, che timbrava per dichiararne l’effettiva residenza in quell’area. A partire dal 15 aprile, tuttavia, come ci ha detto Mohammed, hanno smesso di timbrare i documenti così che nessun nuovo residente potesse stabilirsi lì. Molte famiglie sono state separate a causa di queste regole, ci ha spiegato.

@ECRE / R. Carvalho


In quello che poteva sembrare un tentativo di ridurre il numero di persone nel campo, le autorità stavano rendendo le condizioni di vita più dure e le regole da rispettare più severe. Ad un numero sempre minore di organizzazioni era permesso l’ingresso, il cibo distribuito era di pessima qualità e il sistema pensato per monitorare le entrate e le uscite faceva sì che perfino per Mohammed fosse difficile convincere le autorità di essere un volontario e alcuni giorni non lo lasciavano entrare.

Accedere al campo stava diventando sempre più difficile, tanto che a volte rimaneva lì a dormire. Ciò nonostante ci ha detto:

“Se dormissi qui per più di 3 giorni impazzirei”.


@ECRE / R. Carvalho


Mohammed è molto conosciuto nel campo. Durante la nostra chiacchierata, eravamo spesso interrotti da chi veniva a salutarlo, a chiedere il suo aiuto o a dirgli qualcosa. Ad un certo punto, tre donne in avanzato stato di gravidanza si sono avvicinate a lui per lamentarsi del fatto che non potevano più dormire nelle tende, la data prevista per il parto era troppo vicina. Non sapevano cosa fare, o quali fossero le opzioni a loro disposizione: potevano andare in un campo ufficiale? Potevano andare in ospedale? Sarebbero state accettate?

Mohammed le ha subito portate alla Praksis- lì presente tutti i giorni con un ambulanza per fornire assistenza sanitaria- sperando che qualcuno potesse aiutare le donne. L’organizzazione, fino a quel momento all’oscuro dei casi in questione, si è presa cura di loro e le ha segnalate come casi vulnerabili all’ UNHCR.

Un piccolo incidente come questo ha reso evidente lo scarso accesso all’informazione per i rifugiati. Cosa sarebbe successo se Mohammed non fosse stato lì quel giorno? Quelle donne avrebbero dovuto dare alla luce i loro bambini in una tenda sotto a un ponte? La mancanza di informazione(.pdf) è uno delle questioni più pressanti che abbiamo visto in ogni luogo in cui ci siamo recati durante il nostro periodo in Grecia.

Ma anche qualora si sapesse dove andare per avere informazioni, potrebbe non essere abbastanza. Praksis ci ha riferito che spesso le informazioni a loro disposizione non sono sufficienti. Lavorare in quel campo, dove la maggior parte dei rifugiati era costituita da afghani che avevano davanti a loro opzioni limitate, era demoralizzante, ha spiegato l’assistente sociale.

“Le persone sono completamente bloccate, il processo di registrazione non avanza e non sappiamo più cosa dire loro”, ha aggiunto.


@ECRE / R. Carvalho


Allontanandoci dal campo con Mohammed, potevamo solo sperare che i nuovi campi nei quali stavano trasferendo i rifugiati fornissero informazioni più affidabili ai loro residenti. L’attesa- e l’impossibilità di conoscere il proprio destino - fa sì che molti rimpiangano il tentativo di cercare sicurezza in Europa. Mohammed ci ha parlato di una famiglia che è riuscita a tornare in Iraq. Ci ha anche parlato di molte strade gestite dai trafficanti, da Atene e dal confine dell’ ex Repubblica Yugoslava di Macedonia.

“Se hai i soldi, hai la possibilità di andartene. È rischioso ma può funzionare” ha detto. “Sfortunatamente, la maggior parte di chi è bloccato qui ha terminato del tutto le proprie risorse economiche”.


Secondo le cifre, rese note il 27 luglio da un portavoce del Governo greco, 426 rifugiati continuavano a vivere al porto del Pireo. A partire dal 28 luglio, la zona sembra esser stata completamente svuotata.


Una delegazione del centro ECRE & the AIRE si è recata in visita in Grecia dal 28 maggio al 5 giugno 2016 per indagare sui fatti. Ecco alcune delle storie di coloro che hanno incontrato.
Il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE) è un’alleanza pan europea composta da 90 ONG che difendono i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli sfollati.
La missione del centro AIRE è promuovere la conoscenza del diritto europeo e assistere individui emarginati e vulnerabili per affermare i loro diritti.
Questo progetto è finanziato dall’EPIM.

Vedi anche

  • Grecia - Come presentare domanda d’asilo, di ricongiungimento familiare o di ricollocazione
  • ‘Violenze sessuali sui bambini’ nei campi profughi greci
  • Appunti da un viaggio in Grecia, luglio 2016: registrazione, diritto d’asilo e relocation
  • Profughi in Grecia: non c’è il diritto al ricongiungimento familiare
  • Siamo solo numeri?
  • Non dimentichiamoli: un report dai campi greci
[ 29 agosto 2016 ]
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