Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Le storie che fanno la Storia

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, operatori indipendenti, dal viaggio in Bosnia del luglio 2019

Photo credit: Gabbia umana di Kazanci. Foto concessa da un migrante

Alcune testimonianze raccolte nel decimo viaggio in Bosnia (6-16 luglio 2019). Ancora una volta storie di ordinaria violenza.

La farmacista di Bagdad
È il 7 giugno 2017. Mohammed, 40 anni, soldato dalla parte sbagliata, viene ucciso a bruciapelo davanti agli occhi atterriti della moglie. Poco dopo un biglietto la avverte: “uccideremo tuo figlio”. Lei è disperata, non sa come proteggerlo, non c’è posto dove andare.
farmacista_di_bagdad.jpg
Due mesi dopo è la volta del piccolo Firas, 13 anni appena. È il 18 agosto 2017 quando viene sgozzato. Si, proprio così: sgozzato. Poi, di nuovo, un altro biglietto: lei e le sue quattro figlie sono impure nella terra dei puri, devono andarsene entro 72 ore altrimenti saranno uccise o abusate. “We will kill you and your daughters” le dicono i militanti di Daesh. Devono scappare di notte ma sono donne, sole, senza protezione. Un inferno. L’inferno di Moria da subito si rivela una trappola e un’insidia continua da cui è difficile sfuggire. L’UNHCR le sposta nel continente, su su fino a Joannina in un campo chiuso, fino a isolarle in una stanza da cui non possono uscire. Non hanno alcuna protezione, non c’è padre o marito o fratello che le protegga e che onori la loro reputazione, anzi la sua, quella maschile. La loro colpa è essere donne, un marchio nel marchio d’essere profughe.

Chiedono asilo, chiedono aiuto ma nessuno le aiuta, cercano riparo e trovano morbosità. Sono vicine ai confini con l’Albania. Non hanno scelta. O rimangono vittime e prigioniere o diventano protagoniste del loro destino. Scappano, fuggono nell’unico modo possibile mettendosi in mano alla mafia poiché non c’è altra via. Arrivano in Montenegro. Gli uomini della mafia hanno un nome e un cognome, si chiamano però criminali. Le sequestrano, pretendono soldi che non hanno. Un amico irakeno, profugo ad Atene, le riscatta e le “salva”. Nel nero della notte vengono abbandonate in un bosco del Montenegro. La polizia le rintraccia e separa la figlie di 12 e 15 anni respingendole in Albania mentre la madre con la piccola di 8 anni e la più grande di 17 anni vengono portate in un campo profughi.

La farmacista di Bagdad non può tollerare tanto dolore.
Dopo tre giorni lascia in custodia la più piccola alla più grande e ripercorre la strada a ritroso verso l’Albania dove riesce a rintracciare le due figlie.
Rientra con loro in Montenegro ma questa volta la polizia imprigiona lei e le due ragazze nelle gabbie costruite per i migranti e solo dopo moltissime ore, forse 36, le respinge di nuovo in Albania.

Una madre è una madre. Non può arrendersi alla disperazione. Ci sono le altre due figlie rimaste al campo. Conosce un po’ i sentieri e dopo due giorni fra le montagne, in mezzo a mille pericoli, rientra in Montenegro. Altra cattura da parte della polizia, altra prigionia, finché qualcuno accerta che la piccola di 8 anni e la grande di 17 anni sono effettivamente sue figlie permettendo che si riuniscano. Passeranno altri mesi di stenti, di vita in un container dove il freddo fa venire i geloni e dove l’unico tempo da vivere è l’attesa del nulla.

La farmacista di Bagdad ancora una volta non si arrende; le sue figlie, almeno loro, devono avere un futuro. Tentano il passaggio del confine tra Montenegro e Bosnia, lo attraversano ma sono catturate. Ora siamo a Kazanci in Bosnia, nella gabbia umana dove sono imprigionate con altre tre famiglie curde senza acqua, senza cibo, senza gabinetto. Le grida della piccola Roqya e degli altri bimbi consumano l’attesa di quelle 36 ore eterne.

Alla fine del tunnel, nel cuore della notte, nel buio senza testimoni, la farmacista di Bagdad con le sue figlie vengono respinte verso il Montenegro. Il cuore accelera, la stanchezza si fa allucinazione, inebetimento, la poca luce notturna imperla le ciglia di questi cinque volti di donne sole. Unico rumore l’angoscia che urta sulle loro anime. S’instaura una scena spaventosamente nitida: gabbie umane, respingimenti, traumi psichici; un concentrato di dolore, crudeltà e violenza che si incidono nelle loro anime
Ma il vento non si può fermare. Arrivano alla fine a Bihac dove inizia un’altra fine. La più piccola delle sue bimbe ha 8 anni, la più grande 18. Sono bloccate senza un futuro.

kazanci_gabbia_umana_.jpg

Alì dai piedi in necrosi
È giovedì 11 luglio quando Alì viene letteralmente depositato nella strada interna dell’Ospedale di Bihac, appena fuori dal Reparto di Neuropsichiatria. “Venitevelo a prendere” mandano a dire i sanitari allo IOM, probabilmente esasperati per la mancanza di qualsiasi prospettiva dopo averlo curato con scrupolo.

Nei due giorni precedenti avevo fatto visita ad Alì nello stanzone in cui era ricoverato fra letti di ferro, materassi in gomma piuma, un soffitto cadente. Le mani e i piedi legati alle sponde del letto mi avevano subito evocato immagini di quel manicomio che Basaglia in Italia, era riuscito ad aprire. Anch’io, in quegli anni del ’78, come studentessa di psicologia avevo partecipato al movimento per la grande riforma degli ospedali psichiatrici. Ora, invece, mi ritrovavo lì, assolutamente impotente di fronte a qualcosa che la mia mente aveva dimenticato. È stato uno shock.

Nel candido letto della Neuropsichiatria, Alì giaceva legato 24 ore al giorno; il suo corpo di dolore aveva consumato il peso che lo rendeva vigoroso. I suoi occhi grandi, neri, belli, dalle lunghe ciglia imperlate di lacrime, apparivano enormi nel volto ritornato innocente, infantile, indifeso, quasi privo di quella rabbia che gli sosteneva la vita.

In francese mi chiedeva: “vai dalla polizia e dì loro che qui mi hanno legato a letto, questa non è una cosa che si deve fare” e ancora “sorella, qui mi deridono, mi prendono in giro, parlano: bla bla bla, ah ah ah, non va bene perché io sono più anziano di loro e loro mi devono rispettare” e ancora “sorella, hai visto com’è cadente il soffitto? Come possono lasciarmi in questa stanza con il soffitto che cade? Ti prego vai dalla polizia e dì che vengano a salvarmi”. Povero Alì! Non comprendeva che la contenzione era anche una protezione nei suoi confronti affinché non si togliesse le bende e non si strappasse la carne marcia dei piedi necrotizzati.
Comunque la cura dei sanitari era stata efficace ma era terminata. Nel dialogo sordo tra istituzioni Alì, quell’11 luglio, si è ritrovato depositato nella strada interna dell’ospedale di Bihac. Lo IOM ha dovuto “riprenderlo” e riportarlo al Bira camp dove ora giace in un altro container.

Di lui mi restano le sue immagini:
Alì dai piedi in necrosi, Alì nel bozzolo della coperta rossa turca, Alì nella carriola, Alì come immagine di una demenza che non sa impazzire, Alì che si consuma nello strazio della mente e nel silenzio del cuore
Alì come volto del trauma e della crudeltà dei respingimenti
Alì come emblema della disumanità e violenza dei confini, dei muri, del filo spinato, dei droni, dei cacciatori d’uomini
Alì a cui abbiamo tolto la dignità
Alì che vive nel container dell’immenso camp Bira di Bihac

Corpi migranti senza valore
Qui dove tutto diventa normale, deportare è normale, vietare è normale, odiare è normale, si finisce per accettare tutto. Trovare decine di ragazzi feriti bagnati, sconvolti è normale, cacciarli all’entrata della città è normale.
A Bihac passeggiano invece quiete le ricche famiglie saudite con le donne coperte dal niqab che guardano incantate le acque del bellissimo fiume Una. A osservarle sembra che tutto sia normale.
Intanto, sotto il diluvio, quattro corriere della polizia deportano dal Bira camp decine e decine di migranti verso la discarica umana di Vucjak.

Intanto, almeno altri 50 ragazzi vengono rastrellati, incolonnati in una lunghissima fila indiana e scortati verso la discarica che dista circa 15 km dal centro cittadino.
Intano, mentre succede tutto questo, un altro migrante giace bruciato in un letto della chirurgia di Bihac. Lo squat in cui viveva ha preso fuoco e lui è rimasto intrappolato tra le fiamme. Il suo corpo ha ustioni terribili; dovrebbe essere trasferito a Sarajevo per ricevere quelle cure che qui nessuno può garantire. Una sorella lo aspettava in Francia. Ora ogni sogno è infranto, il corpo è un ammasso di dolore e infezioni che lo scavano fino all’osso.

Quanto vale la vita di un migrante? A Bihac si muore di “sanità” per mancanza di mezzi, ma i 14 milioni stanziati dall’Europa allo IOM potrebbero fare la differenza per un migrante bruciato vivo. E invece?
Invece emerge un’altra storia orripilante. Il corpo di un altro ragazzo che il fiume Una ha restituito dieci giorni prima, giace sul tavolo dell’obitorio. Il suo nome era comparso tempo addietro in un sito internet per la ricerca degli scomparsi. Si chiamava Sohail Yaqoob ma qui nessuno sa o può o vuole identificarlo. Nessuno lo vuole seppellire. È ancora nel frigorifero dell’ospedale cantonale.

Ahmed vuole andare sotto terra
Ahmed, 6 anni, non sta dormendo anche se è disteso supino sulla coperta appena fuori la stalla. “Abita” in uno “squat” da troppi mesi. Non è però la mancanza dell’acqua o della luce o del cibo che lo deprime. No, no. È la mancanza della mamma che ora non c’è più. Come tutti i bimbi lui pensa di essere stato abbandonato, crede che la mamma non lo voglia più, teme di essere indegno del suo amore. E così non vuole vivere, vuole morire. “Voglio andare sotto terra, qui sono troppo triste” mi dice. È disteso supino sull’erba fuori dalla stalla disabitata e fatiscente Assieme al padre e al fratello più grande è stato respinto dal game ancora all’inizio dell’inverno. Come spesso succede nella confusione che segue la cattura di esseri umani, la madre era stata separata dal suo nucleo e chissà come era riuscita ad arrivare in Germania con gli altri due figli.
Lui ora vive nello squallore più grande tra ratti, bisce e vermi con il Jaha di 11 anni, e il padre che, pur essendo giovane, sembra un vecchio senza età. Sono in viaggio dal 2016 a piedi. La loro città era Jalalabad ma sono dovuti fuggire perché minacciati a morte dai talebani. Ora sono qui da 6 mesi. L’inverno è stato durissimo, “tremendo” sussurra il padre. Traumi su traumi che il più piccolo, Ahmed, ha impresso negli occhi e nel suo sguardo senza infanzia.
ahmed_6_anni.jpg

Donne che curano la vita
L’Europa ha partorito un mostro che ha preso le sembianze più crudeli in questi luoghi della rotta balcanica. Stravolgimento del diritto internazionale, violazione dei diritti umani, infanzia violata, qui non sono parole vuote e figure retoriche. Sono corpi che si fanno dolore, sangue, follia, suicidio. Sono donne, quasi solo donne, ad occuparsi della cura della vita.

Sono persone straordinarie capaci di quella generatività a cui esseri umani deprivati e de-umanizzati possono attingere per ritrovare un lume di speranza. Sono una sorta di miracolo per il migrante ferito sia esso adulto o bambino che si ritrova a vivere in strada, privo di ogni bene, affamato, disperato, picchiato, discriminato. Zemira Gorinjac è minacciata di morte, Sanella Lepirica paga un duro isolamento, Zehida Bihorac Odobasic, si ritrova in una situazione critica. Nidzara Ahmetasevic, giornalista free lance, attivista per i diritti umani, è costantemente sotto attacco. Nonostante questo, hanno scelto di stare dalla parte “sbagliata” portando quell’aiuto che oggi è criminalizzato in Europa come in Bosnia. Sono la voce della solidarietà, quella voce che si leva laddove non c’è più nessun dio e nessuna giustizia di fronte ad un giovane che muore in un fiume per attraversare i confini sbarrati, o di fronte a un bambino che rimane senza madre e vuole “vivere sottoterra”.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".