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Frontiere

Soli e ripudiati dalle autorità: la vita dei bambini migranti intrappolati a Melilla

Manuel Homman, Desalambre (El Diario) - 13 gennaio 2018

Photo credit: Manuel Homman (Un ragazzo osserva come viene introdotta la merce in uno dei barconi diretti verso la penisola)

Le pupille di Omar restano fisse verso il cielo spento. La sua schiena lentamente si fonde nel cemento armato.

– “Omar, tocca a te.

Omar mantiene lo sguardo immobile alla ricerca delle montagne.

– “Andiamo! E’ ora.”

Tarek si avvicina.

– “Sei il primo” – gli dice mentre gli colpisce il fianco con un calcio.

Mentre si rialza Omar borbotta, si avvicina alla recinzione e getta nel vuoto una corda, legata precedentemente ad un lampione. Poi, scompare insieme a lei. Si sente un leggero impatto contro il suolo, e inizia a correre fino a nascondersi in un angolo tra il guardrail e la parete dell’edificio.

Tarek si guarda intorno, una giungla di cemento e roccia dove spiccano decine di sguardi, alcuni intimiditi, altri spinti dal desiderio che questa attesa finisca. Di fronte alla scena decine di bambini rimangono in silenzio. E’ il riski: termine utilizzato dai minori stranieri non accompagnati per riferirsi al tentativo di scalare la recinzione in filo spinato che separa la città di Melilla dal porto, con l’obiettivo di nascondersi in una delle navi che salpano verso la Penisola. Sono fuggiti dai loro paesi di origine, ma la Città Autonoma spagnola non è la loro meta finale. Per lasciarsela alle spalle hanno poche altre alternative oltre a quella di rischiare la propria vita nel tentativo.

Il prossimo! – urla a voce bassa Tarek.

Si sente solo il crepitio dei sigari aspirati con ansia. Buste di plastica che si aprono e restringono continuamente. Un gruppo (di ragazzini, n.d.t.) tra i 10 e i 15 anni aspira con forza il solvente o colla liquida tenuta all’interno di piccoli sacchetti.

– “Se non volete scendere, la corda si tira su” dice Tarek, mentre striscia contro il suolo per tirare su la corda e non cadere nel vuoto.

Un ragazzino lo blocca e scende senza dar neanche tempo alla comparsa di vertigini. Comincia a correre tra file di camion e container finché non scompare nel buio. Alcuni, tra i presenti, si avvicinano mentre le loro mani si aggrappano con forza ai piccoli buchi nell’inferriata.

Sid, sid [‘andiamo’ in arabo marocchino], altrimenti ci beccano.

Quattro bambini si mettono in fila per saltare l’uno dopo l’altro. Bambini, perché è raro vedere bambine fare riski. Nessuno guarda gli occhi altrui, nessuno si saluta, nessuno gesticola, gridano soltanto a quello di fianco affinché tenga loro con forza il collo della maglietta mentre cercano di scendere. I bambini strisciano al suolo fino ad incontrare un pezzo di recinzione aperta.

Quindi, usano la testa del lampione come fosse la sella di un cavallo, e raggiungono una posizione che permetta loro di tenersi in equilibrio con la corda e frenare l’impatto – di 8 metri di altezza – che li separa dalla parte inferiore.

Li aspetta un grande spiazzo pieno di rottami e merci. Il loro obiettivo finale, trovare una cavità in cui nascondersi, nel camion, e rimanervi minuti, ore o giorni, nell’attesa che il veicolo salga su una delle navi dirette verso la Penisola.

Il rischio cresce. È a questo punto che lo scorso novembre Soufiane, 17 anni, ha perso il piede sinistro dopo esser caduto dal camion in cui aspettava, nascosto. Un mese dopo il ragazzo è morto nel letto di un centro di accoglienza.

Due settimane prima, Mamadou era morto dopo aver sopportato diversi arresti cardiorespiratori, con il sospetto che avesse subito percosse nel centro per minori autori di reato, come denunciato dalla ONG Prodein (Pro Derechos de la Infancia”).

L’ente da cui dipendono i minori che godono di tutela, la Consejería de Bienestar social, attribuisce la responsabilità della situazione ai minori stessi, ma gli organismi specializzati ricordano: “La morte di questi due migranti è un’ulteriore dimostrazione delle carenze del sistema di accoglienza dei minori non accompagnati”, ha sottolineato in un comunicato recente Ana Sastre, direttrice del ramo “Sensibilizzazione e Politiche dell’Infanzia” di Save the Children. Dietro le precarie condizioni nelle quali vivono questi bambini, sottolinea la ONG, vi è un modello di protezione “manifestamente insufficiente”.

Omar ha 10 anni. Mesi fa è riuscito ad arrivare a Malaga. Dice di essere ritornato a Melilla per recuperare il telefono di sua madre, che aveva perso lungo il cammino. Finalmente è riuscito ad attraversare il Mediterraneo, stando alle informazioni ottenute da eldiario.es. Ora sì: si trova nel continente europeo.

“Mi picchiano tutti i giorni”

Mehdi sorride sempre. Sorride mentre poggia la testa sul ventre del suo amico, aspettando che faccia buio per poter saltare. Il suo volto cambia quando scopre che il suo compagno ha speso il poco denaro che avevano per una merendina.

Perché non hai preso della frutta? Dopo avremo più fame – gli recrimina mentre ne accetta un pezzo.

Mehdi ha 15 anni ed è nato a Casablanca. Quando rimane da solo smette di sorridere e ripensa alla sua vita in Marocco. I suoi tre fratelli sono già in Europa. “Due ci sono riusciti attraverso Melilla e l’altro da Tangeri. Se ne sono andati tutti”, aggiunge. Suo padre, dice, li ha abbandonati. Sua madre è emigrata in Italia. E, assicura, che siano poliziotti o altri minori, viene picchiato “tutti i giorni”, gli tolgono i vestiti e i soldi, lo derubano se porta con sé un cellulare e “lo minacciano con dei coltelli”.

– “Dio, perché mi picchiano se ciò che voglio è solo un’altra vita? Per strada fa molto freddo, non ho nulla, ho solo Dio. Non mi chiamano mai, nessuno chiede di me. Se avessi un padre e una madre, starei con loro” – racconta.

Questo ragazzino decise di fuggire dal centro di accoglienza “La Purísima” a causa delle condizioni in cui viveva. Come lui, sono molti i ragazzi che hanno denunciato il suo costante sovraffollamento, così come i “maltrattamenti” subiti al suo interno. Mentre il Governo della Città sostiene che questi minorenni preferiscono vivere in strada per eluderne le norme, alcune ONG denunciano da anni che in questo centro avvengono abusi, ricatti e vige quella che chiamano “violenza burocratica”.

– Ai bambini che vivono per le strade del Marocco Mehdi dice: “Se avete una famiglia rimanete a casa. Non fate caso al resto, a Melilla non c’è nulla”.

I tre centri di accoglienza di Melilla ospitano attualmente circa 600 minori, di cui solo La Purísima ne ospita 445. Nonostante il suo sovraffollamento, il Governo locale insiste nel tenere i minori non accompagnati nella città, invece di trasferirli in altri spazi specializzati della Penisola, come invece accade per i minori migranti che vivono con le proprie famiglie. “Non portano i minori nella Penisola perché il Governo vuole che passi il messaggio che questa non è la via per arrivare in Spagna”, denunciano dalla Fundación Raíces.

Quando i genitori di Suliman morirono, lui venne internato all’interno di La Purísima. Come tanti altri, scappò da lì.

Sono pazzi. Nelle stanze dormiamo in letti a castello come dei cani, ad altri tocca il corridoio. Non c’è posto per tutti, si litiga in continuazione. Trattano molto male i nuovi arrivati (…). Mettono perfino dello sciroppo per farci dormire nella zuppa, nessuno la vuole. Preferisco vivere in una baracca e correre dei rischi – dice Suliman.

Esposti agli abusi sessuali e alle droghe

Si stima che a Melilla ci siano circa un centinaio di minorenni che vivono per strada, senza contare quelli che continuano ad aspettare al di là della frontiera. La maggior parte dei bambini che sopravvivono in questa situazione proviene dai quartieri periferici di Fez. Altri vengono da luoghi più a sud, come Kenitra o Er-Rachidia. Quelli che vengono dal Rif sono il gruppo minoritario, con una lingua e cultura diverse. Appena in 10 vengono da luoghi come Nador o Al-Hoceima. Alcuni hanno una famiglia che li aspetta, altri no.

Secondo i dati di Prodein e le dichiarazioni di alcuni ragazzi, sono diversi i casi di pedofilia da parte dei residenti della città e di abusi tra gli stessi minori. Nel 2015, due poliziotti furono arrestati per aver abusato sessualmente di un minore in cambio di regali.

A partire dalle 10 della sera le rocce silenziose del Sira prendono vita. È così che scoprono il passaggio del molo che separa il mare dall’area del porto. Decine di bambini iniziano a scalare una grande recinzione nera che, come indica un cartello, delimita un’area proibita.

I più piccoli sono quelli che hanno la maggiore dipendenza dalle droghe. Dicono che smetteranno quando il riski apparterrà al passato. Un tubetto di colla costa 1,50 euro e possono trovarlo in qualsiasi parte della città o nei pressi della frontiera. Un altro piccolo, estraneo alla scena, tira fuori un panetto di hashish conservato tra i genitali.

– “Prima di ‘saltare’ siamo nervosi. Alcuni non smettono di parlare, altri si sdraiano a terra, altri bevono o fumano, ma il solvente è ciò che funziona meglio. Ne prendi un po’ e ti toglie ogni paura, ti senti capace di tutto, nonostante sia un’illusione”, racconta Boika. Subito dopo inali dal fazzoletto ‘speciale’. Gli effetti sono immediati.

La maggior parte di noi non prende nulla, a volte un sigaretta. Stiamo molto tempo per strada – interrompe Ali.

“Fare ‘riski’ è l’unica cosa che voglio”

Yacine ha portato un cellulare. Una decina di bambini si avvicinano curiosi ad ascoltare come parla con suo fratello maggiore, che vive a Fez, tramite una video-chiamata. Internet e i social network sono le principali fonti di informazione, sia per cercare nuovi modi di fare riski, sia per contattare quanti sono riusciti a raggiungere il continente europeo. “I miei genitori vivono a Nador. Mi chiedono sempre di tornare a casa, ma sono io che non voglio tornare. Sono qui da un mese e fare riski è l’unica cosa che voglio”, racconta Ali.

I motivi per cui preferiscono sopravvivere in strada sono simili. “Vogliamo andare in Europa. Voglio avere una macchina, una casa grande e una moglie”, dice Khalid. Le destinazioni più agognate sono i paesi del nord, in particolare la Svizzera. Altri scelgono paesi come l’Olanda o l’Italia. “Il sud della Spagna è solo un passaggio. Non vogliamo rimanere in Spagna. Vogliamo passare da qui perché abbiamo dei familiari nei Paesi Baschi o a Barcellona”, dice Khalid.

Passano gli anni e a Melilla la fretta dei minori cresce: raggiungere la maggiore età può significare la fine delle speranze di calpestare il suolo comunitario. Diversi bambini corrono tra i camion del piazzale, una guardia portuale avvisa il resto dei colleghi.

Chiunque scenda, lo massacro, lo massacro! – grida un agente della Guardia Civil.

Una delle navi salpa verso Motril (Granada). Nessuno sa se qualche amico sia riuscito a salirvi. Prima era più frequente che si provasse a raggiungere a nuoto la nave quando questa usciva dal porto. Non esistono dati su quanti minori vi siano riusciti, molti sono annegati. Ma ora il metodo è cambiato: è meno rischioso sopravvivere per ore tra le merci, dicono.

– “Alcuni tornano nei giorni seguenti, e perciò sappiamo che non ci sono riusciti, ma ci sono altri di cui non sappiamo nulla. Non sappiamo se sono arrivati in Spagna, se li hanno respinti in Marocco, se sono morti” – dice Mohammed.

Mohammed oggi non ha voluto fare riski. Mentre cammina verso l’uscita, si ferma di fronte alle luci della nave ormeggiata nel porto. Fissa attentamente il modo in cui i passeggeri, per entrarvi, attraversano una passerella.

– “Com’è dentro la barca? A volte penso ad una cosa, al perché non possiamo comprare i biglietti come le altre persone. Domani farò riski” – dice Mohammed, un bambino.

(*) I nomi dei minori sono stati modificati per tutelare la loro identità. Alcuni di loro sono riusciti ad attraversare il Mediterraneo e ora vivono in paesi come Spagna e Francia.