Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Una luce fioca balla nel mare

Storie. Sulla Iuventa, una imbarcazione della ong tedesca «Jugend rettet». Il diario di bordo dal cuore del Mediterraneo, nel tratto difficile che si estende tra la Sicilia e la Libia

Photo credit: Farshad Shamgoli

Sapete a cosa assomiglia un gommone rovesciato in mezzo al mare? Ricorda un capodoglio spiaggiato o una balena bianca, come lo era Moby Dick, l’ossessione del capitano Achab nel romanzo di Melville. Che si sia capovolto disperdendo il suo carico di umani o che sia stato abbandonato, mezzo affondato, dopo che i suoi passeggeri sono stati tratti in salvo su un’altra imbarcazione, la prima impressione che fa resta indimenticabile.

Un tuffo al cuore vi avvisa che avete appena incontrato una traccia di vita alla deriva in mezzo al mare. Là dove l’acqua sembra non avere più confini. È la traccia di una vita che in un modo o nell’altro già non è più qui. Balla il relitto. Il mare lo fa sobbalzare. Scompare e ricompare davanti ai nostri occhi. Si confonde con il bianco delle onde. Così non siete mai certi di averlo visto davvero. Soprattutto non siete mai certi di cosa avete visto.

MI SONO IMBARCATO per due settimane sulla nave Iuventa della ONG tedesca Jugend rettet. Li ho conosciuti pochi mesi prima a Venezia, nel cantiere dove la nave riceveva le cure necessarie per il secondo anno di missioni. È un peschereccio degli anni ’60, riadattato a questa situazione singolare: pescano uomini e donne nel Mediterraneo, in quel tratto di mare che si estende tra la Sicilia e la Libia. Li ripescano dal mare, da barconi che fanno acqua da tutte le parti, se solo riescono a uscire dalla frontiera invisibile delle 12 miglia dalla costa. E naturalmente se riescono a farsi avvistare.

Diventa la mia ossessione: a dispetto di un persistente astigmatismo ereditario e del fatto che sono qui in primo luogo per scrivere di questa esperienza, accade che la posizione di osservatore mi si addica. Così siedo sin dalle primissime ore di luce in prua con i binocoli e ci resto spesso tutto il giorno, segnalando al ponte di comando eventuali imbarcazioni avvistate e tenendo la posizione di quelli che ancora aspettano soccorsi.

Quando sapete che su quel gommone anonimo, avvistato ore prima come un punto bianco sulla linea dell’orizzonte solo grazie alle lenti del binocolo, viaggiano uomini e donne in gruppi di cento, centocinquanta, qualcosa vi dice che non potete permettervi di perderlo di vista, con tutto il suo singolare carico di viaggiatori.

BENVENUTI nella zona SAR (Search & Rescue) attraversata ogni giorno, appena il tempo lo permetta, da migliaia di migranti in fuga da guerre, carestie, povertà, assenza di prospettive. Sono enormi gommoni bianchi o neri. Sono navi di un legnaccio vecchio e incerto, messe in acqua in qualche modo. Riempiono quotidianamente l’orizzonte. Sono imbarcazioni che stanno per collassare quando ne portiamo gli occupanti a bordo della Iuventa. Hanno i volti smarriti. Non portano scarpe, né sanno cosa li aspetta, le loro vite già segnate da catastrofi che a malapena si riescono a raccontare con le poche parole di una lingua in comune.

Dopo qualche ora alcuni volti si sciolgono in un sorriso, in un ringraziamento farfugliato, in una benedizione per averli tirati fuori dall’acqua e da più giù ancora. Sono stati in paziente attesa sulle sponde di un gommone, incastrati l’uno sull’altro. Sono corpi che camminano a passi incerti, una volta saliti in nave. Sono piedi nudi, volti sfiniti. Sono corpi piegati, al tempo stesso attraversati dall’esperienza inaudita che vivono e che li trasporta in un’altra dimensione. Li travolge, li trasfigura. Non è solo stanchezza o la spossatezza del viaggio. Il mare, la notte, l’incertezza assoluta… per chi ha visto la morte avvicinarsi sull’acqua tutto diventa parte di un’esperienza dello Sconfinato: li lascia «senza parola e senza dimora», come dice una bellissima pagina di Moby Dick.

Che vite sono queste dei migranti? Occorrerà dirlo: a questo stadio del disimpegno europeo sono vite tecnicamente morte. Non hanno nessuna chance di sopravvivere, a meno che non abbiano la buona stella di incontrare una delle navi che come la Iuventa intervengono in questo tratto di mare. Sono i soli interventi che, al momento, provino a toglierli da questo triangolo delle Bermuda nostrano nel quale sono precipitati.

RISPETTO A COLORO che sino a qualche anno fa sbarcavano a Lampedusa, le loro chance di sopravvivenza sono drasticamente ridotte. Le navi militari delle varie iniziative europee, da ultimo l’operazione Sophia, restano lontane dal luogo della catastrofe. Incontriamo spesso la Guardia costiera italiana che fa un ottimo lavoro, benché esposto alle fluttuazioni della miseria politica del paese. Le altre navi presenti sono quelle ONG, da mesi sotto attacco con accuse infamanti, anche a opera di inchieste giudiziarie di dubbia qualità, non foss’altro per il fatto di essere annunciate alla nazione a reti unificate. Il risultato di questa incredibile escalation è quello di produrre un enorme vuoto: un vuoto di legittimità politica che riguarda innanzitutto il diritto dei migranti di dare una possibilità alle loro esistenze. Più oltre, l’immenso vuoto materiale tende a fare del Mediterraneo un luogo inospitale. Non una regione di passaggio e di comunicazione tra le sue diverse sponde, ma un muro invalicabile e una tomba di massa. Al di là dei suoi tecnicismi il dibattito sulle «regole d’ingaggio» delle ONG finisce per produrre questo effetto.

Tutto questo può essere accettabile unicamente per un’Europa che dimentichi come la Shoah abbia avuto luogo particolarmente nel suo cuore. E come la Shoah sia una questione europea e non solo tedesca o ancor meno ebraica. Come è già successo durante la guerra nella ex-Jugoslavia, l’Europa continua a disimpegnarsi in tutto quanto considera posto al di là dei suoi confini. Questa Europa sembra cancellare il fatto che gli apolidi sono la figura della politica che si è inaugurata proprio qui nel Novecento. È la politica dei senza: dei senza patria, dei senza diritti, dei senza nome. In barba alle leggi che la stessa cultura europea ha reso possibile ideare, pensano di poterli rispedire a casa, anche quando non c’è più una casa a cui fare ritorno.

Indubbiamente ogni immagine chiede il suo testimone. Eppure di tutte quelle che questo viaggio ci consegna, e sono tantissime, ce n’è una che resta per me indimenticabile. È quasi mezzanotte. La Iuventa naviga verso nord, incontro a una nave mercantile che il coordinamento di Roma ha dirottato verso di noi per prelevare i 151 profughi che nel pomeriggio abbiamo tratto a bordo da un gommone pieno d’acqua. A un certo punto della navigazione – sto distribuendo vestiti asciutti insieme alle due dottoresse e all’infermiera di bordo – avvistiamo un barcone. Spunta dal nulla. Lo vediamo unicamente perché i suoi occupanti fanno segni con la luce dei loro telefonini e di qualche piccola pila che hanno appresso. Sono luci fioche, grigiastre, nel buio profondissimo della notte del mare. Ma loro che ci hanno visti non smettono di farci segno. Devo pensare alla poesia di Hölderlin in cui gli dei passando rapidamente fanno cenno agli uomini.

QUANTI CENNI restano certamente non visti in ognuna di queste notti. Molto più tardi colpirà l’equipaggio della Iuventa la constatazione improvvisa e fulminante di cosa sarebbe stato se la barca, giunta al colmo della notte, avesse incrociato, invece della Iuventa, una di quelle immense petroliere che solcano questa parte di mondo e che dalla loro altezza difficilmente avvistano un’imbarcazione così insignificante.

Questa barca con i suoi occupanti è stata qualcosa come una visione: un’apparizione dal nulla e preparata da nulla, al limite della notte, a un equipaggio stremato dalla più difficile delle giornate che ci siamo trovati a vivere. E ora apparivano queste donne e questi uomini, dal mezzo al nulla. Con i loro telefonini. Come una lingua segreta, un’estrema risorsa rimasta agli umani per parlare tra di loro in tempi bui. E per portare come saluto quella luce che oscilla nella notte. Senza parlarci e con i corpi estenuati, loro salutavano. Portavano un saluto a noi che li avremmo più tardi tratti dal mare.