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da Il Manifesto del 27 dicembre 2003

Sette anni fa il «naufragio fantasma» al largo di Capo Passero, 283 morti

Siracusa – Erano giorni di festa anche quelli. Era la notte che chiudeva il Natale di sette anni fa coi suoi riti abbondanti e la retorica del «siamo tutti più buoni». Per gli oltre 400 giovani asiatici che viaggiavano da settimane sulla nave Iohan, direzione occidente, non c’erano stati banchetti e forse neanche pasti. Gli unici alimenti ricevuti – diranno molti testimoni diretti – erano stati pane e acqua; nient’altro li aveva sostenuti in quel viaggio pagato dai 4 ai 7 mila dollari a testa, e che per alcuni era iniziato addirittura tre mesi prima, con soste e attese e trasbordi in alto mare da una carretta a un’altra, l’una messa peggio dell’altra.
La notte del 25 dicembre `96 doveva essere finalmente quella dello sbarco: dal mare agitatissimo si vedevano luci in lontananza, il capitano assicurava che era la Sicilia, Italia. Per raggiungerla, si attendeva uno scafo più piccolo proveniente da Malta, che sfuggisse ai controlli delle vedette costiere. Poi sappiamo come finì, con una collisione
e un naufragio che per molto tempo rimase «fantasma»; 283 di quegli uomini si inabissarono insieme al peschereccio in cui erano stati fatti salire e ammassati dentro la stiva-freezer usata per il pesce. Lo avevano fatto «sotto la minaccia di una pistola», dirà qualche superstite. Comunque con la disperazione di chi non ha alternative, pur comprendendo che era una follia affrontare quel mare in tempesta con una barchetta stracarica.
Lo scafo maltese F 114 cominciò infatti subito a imbarcare acqua, e quando tentò di riavvicinarsi alla Iohan la urtò e si spezzò in tre parti, inabissandosi con quasi tutto il carico umano chiuso sotto un portellone. Si salvarono in pochissimi, riuscendo a risalire sulla «nave madre» che si diresse verso la Grecia e li sbarcò pochi giorni dopo, unici testimoni della tragedia più spaventosa avvenuta nel mediterraneo.

Per quei 283 morti finora nessuno ha pagato, a parte le famiglie, per lo più poverissime, residenti in piccoli villaggi del Punjab indiano, del Pakistan, dello Sri Lanka. Nessuno ha mai indagato su eventuali omissioni nei soccorsi mai partiti, nonostante un «avvertimento» tempestivo ma vago della guardia costiera di Malta. Le autorità italiane si ostinarono soprattutto a negare il naufragio, e pochi nel nostro paese presero sul serio i racconti degli scampati alla polizia greca (che avviò subito un’indagine) e quelli di rimbalzo delle comunità pakistane e cingalesi in Italia, allarmate dalle telefonate dei parenti in ansia. Tra questi «pochi» il manifesto, che quasi in solitaria portò avanti un’inchiesta per dimostrare almeno che quella tragedia era avvenuta, come altri giornali in Grecia, in Gran Bretagna, in Pakistan, cominciavano a scrivere.
Nessuno ha finora indagato sull’organizzazione che sta dietro questo e altri «viaggi di morte», nonostante le testimonianze rese alla magistratura greca, e quelle raccolte dal manifesto, da alcuni parenti delle vittime e da Dino Frisullo – che ne fece un’appassionata battaglia fino agli ultimi giorni della sua vita – indicassero con molta chiarezza i paesi più pesantemente coinvolti (Turchia, Cipro…), le sigle di agenzie di viaggio e di «associazioni di fratellanza» usate come copertura, i nomi e cognomi dei trafficanti di uomini», «oltre 200 riferimenti a turchi, greci, pakistani, irakeni, maltesi, italiani… facilmente reperibili con una seria indagine internazionale», scriveva Frisullo in un dossier consegnato ai magistrati, nel quale era descritta «la rete operante quasi alla luce del sole… con regolari transiti attraverso molteplici dogane terrestri, portuali e aeroportuali».

L’indagine italiana, avviata a Reggio Calabria dopo il ritrovamento fortuito della Iohan pochi mesi dopo il naufragio, e poi passata a Siracusa per questioni di competenza, è approdata sì a un processo, ma limitato e a rischio di diventare anch’esso «fantasma»’. Due soli gli imputati, dei tredici iniziali (per gli undici membri dell’equipaggio il ministero della Giustizia ha deciso la «non procedibilità», essendosi i fatti verificati in acque internazionali) ed entrambi a piede libero e fuori dal nostro paese. Uno, l’armatore pakistano Tourab Ahmed Sheik, considerato l’organizzatore di quel viaggio, vive a Malta. L’altro, il comandante libanese della Iohan, Yousseph El Allal, è stato scarcerato pochi giorni fa a Parigi, dopo che la Francia a sorpresa ha negato l’estradizione.
Un duro colpo per il dibattimento che era ricominciato da zero il 21 ottobre scorso dinanzi alla corte d’assise presieduta da Romualdo Benanti, dopo il cambio d’imputazione da omicidio colposo a omicidio volontario plurimo da parte del procuratore Roberto Campisi. Il processo era ripreso a rilento proprio per l’attesa di notizie sulla richiesta avanzata dalla procura generale catanese, a cui la risposta – ancora priva di motivazioni – è giunta il 20 dicembre scorso, il giorno dopo la terza udienza conclusa con un ennesimo rinvio al 29 gennaio: la corte non sapeva ancora nulla. Si era appena fatto in tempo a registrare la costituzione di parte civile degli avvocati Simonetta Crisci di Senza confine e Umberto Di Giovanni, che curano gli interessi di un gruppo di pakistani e indiani, mentre altri avvocati, Paolo Ezechia Reale e Alessandra Lorenzetti, si sono costituiti per un altro gruppo di indiani (su mandato dell’ambasciata di quel paese) e per le vittime cingalesi e tamil.
Alla base del diniego della «Chambre del’instruction» della corte d’appello di Orleans probabilmente il fatto che El Allal fosse stato già una volta estradato per il naufragio, per il primo processo con un capo d’imputazione più leggero, nel dicembre del 2000. Ed era arrivato in Italia, dove poi era stato scarcerato. Il cambio d’imputazione oltretutto avrebbe una motivazione «tecnica», in quanto solo di fronte a un «omicidio volontario» l’Italia potrebbe procedere per fatti avvenuti in acque non territoriali. Ora la parola passa alla procura generale francese, che potrebbe presentare un ricorso «nell’interesse su
periore della legge»; ma è raro che succeda in Francia e comunque la magistratura è fuori gioco; saranno i ministeri, e il nostro in particolare con le sue auspicabili pressioni per «l’assoluta gravità dei fatti», a far riaprire la partita ed evitare che il processo si svolga contro «contumaci».

Se ne duole l’avvocato Di Giovanni: «Purtroppo scontiamo il fatto che il processo è partito in modo burocratico e con un errore d’impostazione iniziale – quell’imputazione per omicidio colposo – poi corretto con un ‘colpo d’ala’ del procuratore Campisi in aula… ». Che rischia di non bastare, anche se Di Giovanni non vuole essere pessimista: «Io spero ancora che la vera giustizia superi i formalismi, e che questo processo si concluda con una sentenza esemplare. E naturalmente spero anche che El Allal possa essere sentito in aula, visto che aveva preannunciato di voler fare rivelazioni sui `capi’: se non si trattasse solo di millanterie, questo darebbe ben altro respiro a questo processo… ». Un processo che non ha scosso molto l’opinione pubblica. Solo poche associazioni (la romana Senza confine che continua la battaglia di Frisullo; e poi Attac-Catania, il Comitato 25 aprile e Zona Rossa di Siracusa) insieme a Rifondazione hanno tenuto accesa la fiaccola, con conferenze stampa all
a vigilia di ogni udienza ospitate nella parrocchia siracusana di Bosco Minniti, che il parroco Carlo D’Antoni ha trasformato in centro d’accoglienza per disperati, «per quelli che hanno la fortuna di arrivare vivi in Italia, per scoprire di non avere diritti e di poter sperare solo nella carità…».