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da Il Manifesto del 17 dicembre 2006

Chi si ricorda della Iohan?

«Un incidente? Lo sarebbe stato se anche il comandante Zervoudakis avesse rischiato di morire. Invece le cose non sono andate così. Io me lo ricordo bene: la Iohan ci è venuta addosso volontariamente». Shahab Ahmad è uno dei sopravvissuti della più grande tragedia del mare – finora conosciuta – che ha coinvolto migranti in viaggio verso l’Europa: la strage della Iohan, meglio nota come la «nave fantasma», perché ci sono voluti anni prima che le autorità italiane riconoscessero che, sì, c’era stato un naufragio.
Erano le prime ore del giorno di Natale del 1996: in un punto non ancora precisato, a sud di Portopalo in Sicilia, si inabissò una imbarcazione con a bordo più di 300 persone. Ne morirono 289, la maggior parte imprigionate nella «pancia» del bastimento, i freezer in cui viene custodito il pesce. Una morte orrenda. Erano pachistani, indiani, tamil dello Sri Lanka. La carretta, di cui si conosce solo la sigla, F-147, e che era bianca a strisce blu, aveva iniziato a imbarcare acqua: era stracolma di gente e quella notte il mare era agitato. Ma colò a picco quando – per motivi ancora non chiari – la «nave madre», il battello Iohan, battente bandiera honduregna, le finì contro, squarciandola di netto al centro.
Mercoledì, a Siracusa, si terrà l’udienza del processo in cui è imputato l’armatore della F-147, Tourab Ahmed Sheik. Il giorno successivo, a Catania, ci sarà un’altra udienza alla corte d’appello, dove è imputato il capitano della Iohan, Youssef El Hallal. Per entrambi l’accusa è di omicidio volontario plurimo.

Shahab e Muhammad Afzal testimonieranno all’udienza di Siracusa: nessun giudice li ha ascoltati finora. A rintracciarli sono stati l’avvocato Simonetta Crisci e gli autori dello spettacolo teatrale «Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi», che è andato in scena nei giorni scorsi a Roma. Come racconta uno degli autori, Guido Barbieri, l’obiettivo era raccogliere le testimonianze dei parenti delle vittime – che ancora oggi aspettano un risarcimento – ma quando hanno incontrato Shahab e Muhammad (di lui, in Italia nessuno sapeva l’esistenza) si sono convinti che fosse necessario farli testimoniare in tribunale. Assicurare che entrambi potessero arrivare in Italia non è stato facile: viaggi a vuoto all’ambasciata italiana di Islamabad, pratiche burocratiche astruse. Alla fine, ce l’hanno fatta, e hanno potuto affrontare il loro secondo viaggio in Italia, per raccontare il primo, a bordo di un mezzo sicuro.
Li incontriamo a casa di Ali, un pachistano che vive a Roma. Shahab ricorda tutto di quella notte, è preciso nella ricostruzione, ci mostra un foglio sgualcito: è la pagina di un quaderno su cui, pochi giorni dopo il naufragio, segnò i nomi di tutti i ragazzi che ricordava essere annegati. Muhammad parla poco, lui sulla F-147 non c’era, era rimasto a bordo della Iohan. A tradurre in italiano il racconto è Zahir Ahmad, un giovane pachistano che vive in Italia: «Siamo partiti da Karachi a settembre e da lì siamo arrivati a Damasco e a Latakia E’ qui che abbiamo preso la prima nave: si chiamava Alex I – racconta Shahab – Ma non è stata la sola nave su cui abbiamo viaggiato: a un certo punto siamo saliti su una nave che si chiamava Ena, poi sulla Friendship e infine sulla Iohan. Questi passaggi avvenivano sempre in alto mare e di notte». Per partire, entrambi avevano pagato 7 mila dollari, altrettanti avrebbero dovuto versarne una volta giunti in Italia. Una cifra enorme.

«La Iohan – continua Shahab – ha viaggiato per circa un mese. Tutto l’equipaggio era molto duro, ci davano da mangiare quando volevano loro, e anche da bere. Il 24 dicembre, verso le dieci di sera, ci hanno detto: state pronti. E’ arrivata questa piccola imbarcazione. Noi la conoscevamo, perché era quella che portava le provviste alla Iohan. Qualcosa da mangiare, e soprattutto parecchio alcol per il capitano e per l’equipaggio. Spesso a bordo c’era Tourab, che era molto amico di El Hallal, bevevano sempre insieme. Ma quella notte Toruab non c’era. A guidare la F-147 era Zervoudakis. Avevamo paura perché sapevamo che quella barchetta poteva contenere 80 persone: siamo saliti in 317. Ma per noi solo una cosa era chiara: la morte era di qua o di là. E poi comunque ci spingevano. Io mi sono seduto vicino al timone». Il signor Eftychios Zervoudakis, un greco, era l’armatore della Iohan, e per questo era stato indagato sia dalla Grecia – il primo paese a aprire un’inchiesta sul naufragio – sia dall’Italia. Al momento, non fa più parte degli imputati, nonostante il suo ruolo sia stato determinante. L’ultima volta che si è sentito parlare di lui era nel ’99, quando fu arrestato in Grecia mentre svolgeva il solito lavoro: trasportare immigrati clandestini.

Prima di partire, la F-147 sbatte contro la Iohan. E’ forse questo impatto che apre una prima falla nella lancia, fatto sta che dopo un po’, dai «freezer», cominciano ad arrivare le grida delle persone, che segnalavano la presenza di acqua. Ma per Shahab, le cose strane iniziano ancora prima: «Il fatto è che questa barchetta girava in tondo, saremo stati in mare un’ora, un’ora e mezza, prima del naufragio. Io penso che, se avessero voluto, avremmo raggiunto l’Italia».
La cosa più strana succede poco prima dell’impatto: «Quando sentiamo che c’era acqua nella stiva, lo diciamo a Zervoudakis, che contatta la Iohan con un telefono, diceva sempre ‘dexi, dexi’, che non so cosa significa. La Iohan inizia ad avvicinarsi, velocemente. Ma cinque minuti prima che ci venisse addosso, Zervoudakis si è messo il telefono nella tasca dei pantaloni e si è buttato in acqua. Noi non capivamo perché». Cinque minuti dopo, lo scontro, che squarcia un fianco della barca.

Uno speronamento in piena regola per Shahab e Muhammad, che non possono averne la certezza, ma sono convinti: «Era chiarissimo: noi avevamo capito da un po’ di tempo che il viaggio era strano. Non abbiamo mai visto né un albero, né terra, niente, per quattro mesi. L’equipaggio ci dava da mangiare pochissimo. Non ci hanno mai fatto fare la barba, o tagliare i capelli. Ormai eravamo dei mostri. Sembrava proprio che non sapessero che farsene di noi. E poi, quel Zervoudakis, come se sapesse. E che si salva».
Salvarsi non era facile: El Hallal sembra aver fatto di tutto per fare in modo che non ci fossero superstiti. Mentre gli immigrati rimasti sulla Iohan buttavano corde, il capitano – che era anche armato, oltre che ubriaco – diceva di lasciare perdere, che bisognava andarsene. «Se fossimo rimasti dieci minuti in più, avremmo salvato molto più di 29 persone», dice Muhammad. Entrambi ricordano un giovane indiano, di cui hanno già parlato altri testimoni, che è stato ributtato in mare per ordine del comandante: «Me lo ricordo bene – dice ancora Shahab – era un ragazzo giovanissimo, riccio, con un bracciale al polso. Non so come si chiamava. Ma so che era vivo, la corda l’aveva raggiunta a nuoto, nonostante avesse preso un colpo in faccia e buttava sangue».

La Iohan riparte, e trasporta i sopravvissuti in Grecia. Ovviamente non li consegnano alla polizia, ma li rinchiudono in un casolare di campagna, solo che riescono a scappare e a denunciare tutto. E’ grazie alle testimonianze di chi si è salvato, e alla testardaggine di pochi giornalisti e di caparbi attivisti dei diritti umani che si è potuti arrivare a un processo.